E’ MORTO IL GRANDE SCRITTORE ISRAELIANO ABRAHAM YEHOSHUA, AVEVA 85 ANNI – “IL MIO DESIDERIO DI SCRIVERE HA AVUTO DUE ORIGINI: LA PRIMA SONO STATE LE STORIE CHE MIO PADRE RACCONTAVA QUANDO ERO PICCOLO. IL LIBRO ‘CUORE’ HA VUTO UN’INFLUENZA FONDAMENTALE SU DI ME” – “SONO CONTENTO DI ESSERE ARRIVATO AL ROMANZO DOPO I 40 ANNI. E DICO: ASPETTATE. PER SCRIVERE UN ROMANZO NON BASTA UNA BUONA STORIA: CI VUOLE UNA VISIONE DEL MONDO, BISOGNA CAPIRE LA REALTA’
Da cinquantamila.itAbraham Yehoshua (Abraham «Boolie» Y.), nato a Gerusalemme il 19 dicembre 1936 (85 anni). Scrittore. Drammaturgo. Accademico. «Io sono contento d’essere arrivato al romanzo dopo i 40 anni. E dico: aspettate. Per scrivere un romanzo non basta una buona storia: ci vuole una visione del mondo, bisogna capire la realtà»
• «Abramo era il nome del padre di mia madre, un uomo molto ricco che ebbe undici figli. Lasciò Mogador, in Marocco, per venire in Israele quando ancora non c’era lo Stato e gli ebrei erano più o meno duemila. Fu uno dei primi visionari, uno dei primi promotori della creazione di Israele. Per cui per me è un nome molto impegnativo, pesante da portare, per l’eredità familiare. Poi ovviamente ha molti significati per il riferimento all’Abramo biblico, ed è per questo che mi faccio chiamare comunemente con il nomignolo di “Boolie”, che non vuol dire nulla ma è diventato il mio nome più “leggero”» (a Eleonora Lombardo)
“Ogni volta che mi viene richiesto il curriculum vitae, comincio con queste parole: “nato a Gerusalemme nel 1936, quinta generazione a Gerusalemme”. Non solo ripeto due volte il nome di Gerusalemme, ma sottolineo il fatto di essere la quinta generazione. […] È un vantaggio, considerando il fatto che la maggior parte dei miei amici coetanei appartiene alla prima o alla seconda generazione di ebrei in Terra d’Israele. […] I miei avi sono arrivati qui da Salonicco e da Praga a metà dell’Ottocento, quando a Gerusalemme gli ebrei erano pochissimi, ma neanche gli arabi erano numerosi. Allora la città era piccola e misera, posta al limite del deserto, chiusa nelle Mura, le cui porte venivano sigillate ogni notte. […] A Gerusalemme sono vissuto per ventisette anni, fino al 1963. […] Nella mia coscienza, Gerusalemme è divisa in tre città: ognuna un po’ diversa dalle altre. Ognuna fonte sia della mia produzione letteraria sia del mio pensiero ideologico e politico. […] La prima è la Gerusalemme della mia infanzia, fino al 1948 (l’anno della nascita dello Stato d’Israele). Città unita, araba ed ebraica, soggetta al potere dell’Impero britannico. È la Gerusalemme della Seconda guerra mondiale, dove si sta risvegliando il conflitto tra ebrei e arabi da un lato, e tra i due popoli e le autorità britanniche dall’altro. Ma, nonostante le prime avvisaglie del terrorismo ebraico e palestinese, c’è ancora l’armonia di una città unita, dove i quartieri arabi ed ebrei si abbracciano l’un l’altro nella tranquillità relativa; aspettando tuttavia con angoscia il futuro”.
Yehoshua fa una pausa, poi riprende il discorso parlando del padre, Yaakov. “Era orientalista e insegnante della lingua araba. Aveva non pochi amici tra gli arabi di Gerusalemme. Qualche volta mi portava da loro. […] Con la fine del potere britannico, nel maggio 1948, è cominciata una guerra crudele tra i due popoli, in tutto il Paese, e in particolare a Gerusalemme. Ogni strada e ogni quartiere erano teatro di battaglie. Il quartiere ebraico nella Città Vecchia è stato conquistato dagli arabi. […] Per due mesi siamo stati in un rifugio sotto la nostra palazzina. Quando gli assedianti arabi vennero sconfitti dalle forze israeliane, si arrivò a una tregua e fummo autorizzati a uscire dal rifugio. Ma davanti a noi è apparsa un’altra Gerusalemme; divisa da muri di cemento armato, da filo spinato e da campi minati. La Gerusalemme araba è diventata per gli israeliani la faccia nascosta della Luna, e così la parte ebraica per gli arabi. […] Per me […] comincia qui la seconda Gerusalemme, la Gerusalemme della mia giovinezza e dei miei anni da studente. È una Gerusalemme più piccola, omogenea, laica nella maggioranza della sua popolazione, città dei ministeri, tipicamente universitaria. […] La città è senza segni di sacralità, senza il pesantissimo retaggio della storia, si è liberata dai suoi miti così esigenti e insieme all’effervescente Tel Aviv ha cominciato a costruire la nuova identità israeliana. In quella Gerusalemme ho cominciato a concepire i miei primi racconti, un po’ astratti, senza tempo e luogo definiti”.
All’epoca Yehoshua era influenzato dalla letteratura surrealista. Forse per fuggire la realtà di un luogo mutilato? Commenta: “Qualche volta alzavo lo sguardo verso la città dell’Est, la Città Vecchia: proibita ed enigmatica. Cercavo di ricostruire nell’immaginazione il ricordo delle visite con mio padre nei vicoli, nei mercati pieni di colori, e ovviamente nelle case dei suoi amici e nei palazzi sontuosi dove avevano sede le autorità delle varie denominazioni religiose”. […]
E la terza Gerusalemme, signor Yehoshua? “È la Gerusalemme nata, a sorpresa, nella tempesta della Guerra dei sei giorni. […] In quel mese drammatico, giugno 1967, io, mia moglie e nostra figlia eravamo a Parigi. Nel giro di due settimane saremmo dovuti tornare nel Paese. Ma già da lontano, mentre stavamo facendo le valigie e salutavamo gli amici, seguendo i media israeliani, sentivo la nuova estasi, spiacevole, di stampo messianico, una specie di risveglio di miti latenti attorno ai luoghi sacri. Espressioni come ‘Gerusalemme eterna’ o ‘Cuore del popolo ebraico’ stavano assumendo un’identità religiosa sciovinista, in particolare nelle preghiere di massa sotto il Muro del Pianto. Quelle preghiere erano accompagnate da brutte allusioni sull’eventualità di distruggere le moschee della Spianata e di ricostruire al loro posto il Tempio raso al suolo dai romani duemila anni fa. Ero ancora a Parigi, ma già mi accorgevo del fenomeno della rapida distruzione dei codici laici israeliani, costruiti nei 19 anni precedenti in una Gerusalemme divisa, la mia ‘seconda Gerusalemme’. Si stava affacciando sulla scena pubblica qualcosa che certamente non poteva favorire la pace: visto che sono stati annessi a Gerusalemme unita, senza peraltro chiedere il loro parere, decine di migliaia di arabi palestinesi, intrappolati dentro la nuova estasi messianica della popolazione ebraica. Così, io e mia moglie abbiamo pensato di non tornare a Gerusalemme, ma di mettere su casa a Haifa, città del tutto laica e del tutto israeliana e piacevole» (Wlodek Goldkorn)
• Da piccolo «volevo fare l’avvocato, una professione che mia madre approvava; avrei voluto essere come gli avvocati delle mie opere. In tutti i miei libri c’è almeno un personaggio che esercita una professione legale. Ne appaiono nel Signor Mani, in Cinque stagioni; in La sposa liberata c’è persino una donna giudice. Sono affascinato dalla questione della legge, dagli interrogativi su chi ha ragione e chi no. Con mia madre ho sempre dovuto dimostrare di aver ragione, perché lei ogni volta sosteneva che avevo torto. A pensarci bene, dev’essere questo il motivo per cui da bambino volevo fare l’avvocato: per imparare come si fa ad aver ragione. Anche se sino alla fine ha avuto ragione solo lei. Il mio desiderio di scrivere ha avuto due origini. La prima sono state le storie che mio padre mi raccontava quando ero piccolo. Il libro Cuore, di De Amicis, ha avuto un’influenza fondamentale su di me. […]
Per me, e non solo per me, averlo sentito raccontare da bambino rappresenta un’esperienza indimenticabile. Il piccolo scrivano fiorentino, la storia di un bambino che porta avanti il lavoro del padre, di notte, a sua insaputa, e finisce per andare male a scuola, causando un conflitto col padre, è alla base del mio primo racconto, Il poeta continua a tacere, in cui un figlio ritardato scrive per suo padre. Racconti come questo mi colpivano molto, mi facevano piangere. Leggevo e mi commuovevo, piangevo sul momento e anche dopo, quando ci ripensavo. […]
Il secondo elemento che ha suscitato in me il desiderio di fare lo scrittore si trova nei brevi pezzi umoristici che scrivevo a scuola o nei movimenti giovanili, più o meno una volta ogni dieci o quindici giorni, nei quali collegavo le nostre realtà particolari con realtà universali. Li leggevo poi ad alta voce, e mi rendevo subito conto che il legame fra l’immaginario, l’assurdo, e ciò che era noto a tutti – fatti avvenuti in classe o nel movimento – toccava il pubblico con una forza particolare, che mi incoraggiò a scrivere. In seguito, durante il servizio militare, ero in un’unità dove il venerdì si organizzavano sempre delle feste, e allora i miei superiori mi davano due ore di permesso perché scrivessi una storiella. Il privilegio di quelle due ore di libertà guadagnate grazie alla scrittura mi faceva talmente piacere che ho continuato questa attività».
«“Il mio primo libro era scritto nello stile di Shmuel Joseph Agnon, vale a dire un po’ come se voi oggi scriveste in un linguaggio settecentesco. La lingua ebraica, che sembrava quasi morta, si è sviluppata in un secolo con una straordinaria velocità, come il francese o l’italiano dal ’700 ad oggi. Io ho iniziato scartando i padri e guardando ai ‘nonni’”. Ma anche ai tre grandi fari internazionali del secolo, la sua costellazione ideale: Kafka, Faulkner e Camus. Il primo gli ha fornito, spiega, “la chiave”, gli ha fatto intuire la forza del paradosso logico; il secondo gli ha insegnato il “romanzo polifonico”; il terzo gli ha fatto capire, con Lo straniero, “la vera novità del dopoguerra, l’alienazione”. Sembra essere Kafka il vero inizio, col suo salto dalla concretezza della realtà all’immaginazione. Insiste: “Quando sono riuscito a creare il paradosso logico, ho avuto la forza per essere scrittore”» (Mario Baudino).
«Ho scritto i racconti con grande lentezza, e credo anche con una difficoltà non indifferente. Per ogni racconto mi ci sono voluti spesso alcuni mesi di lavoro, e ad alcune novelle […] ho consacrato un anno intero. Il motivo potrà sembrare banale. Nell’Israele di quegli anni non c’era un solo scrittore che si guadagnasse da vivere con la sua penna. Fin da giovane mi sono trovato a dover mantenere una famiglia, con mia moglie anch’essa impegnata in un’importante carriera. Per questo sono stato costretto a destreggiarmi con la lentezza della mia scrittura in mezzo a innumerevoli altre occupazioni quotidiane. Tuttavia, ripensandoci meglio, mi sembra che non sia questo il vero motivo. Ho scritto i racconti con una straordinaria lentezza, forse, in quanto il mio mondo spirituale, sentimentale e intellettuale non era ancora completamente maturo e pronto alla scrittura di un romanzo. Ho cercato di ricavare il massimo dalle risorse che avevo allora a disposizione, per non disperdermi in una prosa al di là delle mie forze. Il surrealismo e l’astrattezza dei racconti non solo si adeguavano allo stato d’animo letterario diffuso degli anni Cinquanta e Sessanta, nell’immediato dopoguerra tanto in Europa quanto nel resto del mondo, sulla scia di Beckett, Kafka, Camus, Buzzati e altri, ma corrispondevano anche a una personale volontà di staccarsi in modo netto dall’intensa esperienza collettiva e dal realismo socialista che avevano permeato la generazione precedente, quella della Guerra d’indipendenza. Questo era l’unico e il miglior modo di realizzare il distacco. Sebbene all’inizio mi sia opposto alle convenzioni, scegliendo per i miei personaggi nomi grotteschi e infondendo alle mie storie un’atmosfera onirica e irreale, a poco a poco e per vie traverse sono ritornato alla realtà israeliana. […] Nel 1974 ho scritto il mio ultimo racconto, poco dopo aver concluso due opere teatrali che mi avevano preparato, attraverso il trattamento di diversi personaggi e non di un solo eroe, ad affrontare la scrittura del mio primo romanzo, L’amante, costituito da una serie di monologhi. Da allora non ho più scritto un solo racconto».
Fu proprio L’amante (1977) a segnare la svolta nella sua parabola di scrittore. «Il tuo primo libro e assieme il tuo primo grande successo, L’amante, è un romanzo che può essere letto in tanti modi diversi: la reazione di un Paese alla guerra, i rapporti sociali e personali tra arabi e israeliani, la cronaca di un amore in disfacimento e di un altro che nasce. Qual è la “giusta” chiave di lettura, se ce n’è una sola? […] “Il cuore de L’amante è in realtà la mia scelta di proteggere il matrimonio, nei miei libri. Vedevo che negli anni ’70 tutti facevano a pezzi il matrimonio come istituzione: tra divorzi e tradimenti, anche nei romanzi il matrimonio era davvero molto maltrattato. Io […] ho avuto un matrimonio felice, e credo che anche il matrimonio dei protagonisti de L’amante lo sia, a suo modo, e abbia un senso. Il marito porta un amante alla moglie non perché lei si annoia o è inquieta, ma per amore: lei ha perso la libido dopo la morte del figlioletto, e lui spera così di risvegliare in lei il desiderio sessuale”» (Goldkorn).
Anche negli undici romanzi successivi di Yehoshua (tutti pubblicati in traduzione italiana presso Einaudi), da Un divorzio tardivo (1982) a Il tunnel (2018), quello del matrimonio è un tema fondamentale, intimamente legato, nella concezione simbolica dell’autore, all’altro grande fulcro tematico, costituito dalla questione israelo-palestinese. «Sono persuaso che le relazioni tra un uomo e una donna siano tra le più difficili e impegnative, proprio perché si possono rompere in un attimo. Questo le rende uniche. Non puoi certo recidere una relazione tra una madre e un figlio, o tra un padre e la sua prole. Il matrimonio richiede nutrizione costante, soluzione calibrata di continui dilemmi morali. È ciò che mi affascina, e m’induce a farne un simbolo esteso a questioni politiche e sociali» (a Simonetta Fiori). «La separazione, la frattura, la guerra sono condizioni non solo assai diffuse nella società contemporanea, ma quasi a essa consustanziali, e di ciò si incontrano frequenti testimonianze nell’opera di Yehoshua. Molti dei suoi personaggi sperimentano situazioni concrete di separazione coniugale: il conferenziere protagonista del racconto Base missilistica 612; Adam e Asya nell’Amante; i due coniugi Kaminka in Un divorzio tardivo; il professor Rivlin nella Sposa liberata, che non comprende le motivazioni reali del divorzio di suo figlio Ofer dalla moglie Galia; il responsabile delle risorse umane nel romanzo eponimo, che tenta di redimersi dal fallimento della sua vita matrimoniale assumendosi le proprie responsabilità per la morte misteriosa di una dipendente della sua azienda. Nelle sue opere, di felicità coniugale si può parlare soprattutto nella fase della maturità della coppia, verso i sessant’anni di vita. […] Quando si è giovani, probabilmente non è possibile misurare in maniera attendibile la stabilità di un rapporto: troppo forti sono ancora le ambizioni personali, la diffidenza, la fiducia in se stessi. E troppo forte è anche l’idealismo, che non consente di accettare i propri errori, che fa credere che il rapporto matrimoniale debba adeguarsi all’idea che se ne ha, mentre è piuttosto vero il contrario. […] Yehoshua non nega la necessità del confronto anche aspro. Il confronto richiede pazienza, determinazione, e facilmente degenera in conflitto. Ma è un conflitto sempre incentrato sul dialogo, aperto allo scambio dialettico, disposto al compromesso: una guerra non santa, non giustificata da un’ideologia, non sancita in maniera dogmatica; che non oppone alla concretezza di una necessità l’astrattezza di una tradizione, che non rinnega l’effervescenza della diversità in nome di un’identità che non possa essere messa in discussione» (Luca Alvino). «I grandi temi di Yehoshua: il matrimonio, la religione, l´amore, la guerra, l´ebraismo, la politica, più semplicemente la vita» (Fiori)
• Laureato in Letteratura ebraica e Filosofia all’Università ebraica di Gerusalemme, dal 1972 Yehoshua insegna Letteratura comparata e Letteratura ebraica all’Università di Haifa, dove è tuttora professore di ruolo; nel corso della sua carriera accademica ha inoltre visitato Oxford, Harvard, Chicago e Princeton. «Iniziare a lavorare in università mi consentì di avere più tempo per scrivere, ma anche di non sentirmi mai costretto a scrivere per guadagnare. Anche se in questa professione non abbiamo pensione, quindi persino ora a 80 anni non posso smettere di scrivere. […] Non sono mai stato un professore “guru”, anzi ho sempre cercato di mantenere un rapporto non dico distaccato, ma di certo non intimo con gli studenti. E poi ho sempre evitato di insegnare la cosiddetta scrittura creativa che adesso va tanto di moda. Non ci credo molto, ma non posso dirlo ad alta voce perché molti giovani scrittori stanno avendo molto successo proprio grazie a essa. Le nuove generazioni preferiscono scrivere che leggere» (ad Alvise Losi)
• Nel 2016, dopo quasi cinquant’anni trascorsi ad Haifa, si trasferì con l’amatissima moglie (la psicanalista Rivka Kirninski, sposata nel 1960) a Tel Aviv, per stare più vicino ai tre figli (una femmina e due maschi) e ai nipoti. Poco dopo la moglie morì, lasciandolo in uno stato di profonda prostrazione. «Siamo stati insieme per 56 anni: un grande amore, un grande attaccamento. […] Ormai sono un uomo solo e vecchio»
• «Mi sento israeliano al mille per mille, la mia famiglia vive qui da generazioni: se questo Paese venisse distrutto io non saprei più qual è il mio posto nel mondo. Nessuno dei miei figli ha lasciato Israele, sono grandi e vivono tutti qui. Penso che l’identità ebraica, da millenni, sia il passaporto più efficace che esista: noi ebrei possiamo sentirci a casa ovunque, se c’è una casa ebraica e una comunità che ci apre le sue porte. L’identità risiede nella nostra testa e nel nostro cuore» (a Fiona Diwan). «Mio padre aveva scritto una dozzina di libri sulla vita a Gerusalemme tra la fine dell’800 e l’inizio del secolo scorso. E Gerusalemme è sempre presente nei miei libri. La principale protagonista di Il signor Mani, il mio più importante romanzo, è proprio lei, Gerusalemme»
• «Mio padre […] mi ha insegnato, pur non facendosi illusioni romantiche su questi temi, che i palestinesi sono per noi una sorta di “cugini” che abbiamo il dovere di integrare nella nostra società. Anzi, è una sorta di missione per noi, perché abbiamo preso una parte delle loro terre: è il minimo che possiamo fare». «Anche se è una posizione che ho sostenuto per anni, ora non credo più nella soluzione dei due Stati, israeliano e palestinese. L’unica via è quella di un unico Stato che dia, per gradi, la cittadinanza anche ai palestinesi della Cisgiordania ed eviti, così, l’apartheid. Questo perché non penso sia più possibile né evacuare il mezzo milione di israeliani che vive in quelle zone, né che i palestinesi accettino e si accontentino di una piccola parte dei territori. […] Io non voglio più parlare di pace, ma di partnership. È necessario percorrere la strada delle buone relazioni e della cooperazione, tra noi e i palestinesi, ma dentro uno stesso Paese» (a Laura Pezzino). «Ho paura per la crescita dei sentimenti di odio da ambedue le parti e mi spaventa l’aumento del razzismo tra gli israeliani. […] L’alternativa è solo questa, apartheid o democrazia: padroni e sottomessi oppure cittadini pari diritti. Il resto sono chiacchiere»
• «Sono socialdemocratico da quando avevo 12 anni. […] Per me la socialdemocrazia è la giusta via: significa più giustizia sociale» (a Carlo Puca)
• «La religione ebraica è stata il centro della nostra identità per gli ultimi duemila anni: senza un territorio e un’unica lingua era il solo collante. Io non sono religioso, sono ateo, ma cresciuto in famiglia moderatamente religiosa, e per la mia storia, a differenza di alcuni amici di sinistra che arrivano da famiglie assolutamente non religiose, non posso limitarmi a odiare la destra religiosa. Devo provare a capirla»
• «Il più grande scrittore dei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo (e uno dei più bravi del mondo intero). […] Narra esistenze di persone normali, non belle, magari bruttine (come le persone normali), e dei loro drammi di lavoro, di famiglia, d’amore. La sua grandezza si può spiegare con una tautologia: Yehoshua è un bravo romanziere perché scrive romanzi» (Antonio D’Orrico)
• «Lei si prende parecchi anni tra un libro e il successivo, mentre altri scrittori ogni anno pubblicano qualcosa. “Ci sono due tipi di scrittori: quelli che hanno un mondo da esplorare dentro cui poi ambientano le loro storie e quelli che invece lavorano su soggetti ogni volta diversi. Io appartengo al secondo tipo. Ecco perché ogni volta per me è una sfida fare ricerca per ambientare le mie storie”» (Losi). «Quando inizio a scrivere un romanzo, ci metto circa cinque mesi solo per scrivere le prime pagine. Cinque mesi! Perché? C’è un motivo, ed è che all’inizio di un romanzo si decidono un sacco di cose, per esempio chi è il protagonista, cosa pensa e così via. E allora scrivo e riscrivo, ancora e ancora, cerco di capire, di approfondire. Dopo va tutto più veloce, la scrittura va da sé. La cosa importante però è che, quando ho finito la stesura del romanzo e rileggo le prime pagine, noto sempre che tutto è già lì, la chiave del libro era lì, in quelle pagine, ma non l’ho capito subito quando le ho scritte». «Yehoshua riflette: “Faccio il romanziere perché sono convinto che la letteratura permetta di esprimere idee complesse, non come discorso filosofico, ma dando vita e voce a personaggi veri e narrando situazioni esistenziali”. Sorride: “C’è un lato simbolico, kafkiano nella mia scrittura”. In La scena perduta (2011), […] è inserito per intero un racconto di Kafka, Nella nostra sinagoga. Vi si narra di un piccolo e arcaico animale, una marmotta che abita in una sinagoga. L’animale è fuori luogo e fuori tempo, e tuttavia senza quell’animale fuori luogo e fuori tempo quel luogo e quel tempo non potrebbero esistere. “Quell’animale nella sinagoga dà il senso all’identità ebraica come nessun saggio filosofico e storico è in grado di fare. C’è uno strato metafisico in quel racconto che nessun altro autore è in grado di trasformare in scrittura”. […] “Parlo di metafisica da scrittore, non da filosofo. È questo il mio surrealismo. Ed è questa la mia libertà”» (Goldkorn)
• «La letteratura ha un potere straordinario, ci prende e ci trasporta in una realtà del tutto diversa, immaginaria, e riesce a farci reagire come se vivessimo personalmente le vicende che leggiamo; niente altro ha una forza simile. […] Il potere della suggestione letteraria e il legame fra il quotidiano e la fantasia sono stati alla base della mia scrittura, e questo vale ancora oggi. Il più grande complimento che possa farmi qualcuno che ha letto un mio libro non è dirmi che l’ha trovato bello o interessante, ma che ha pianto. Un lettore del genere, lo abbraccerei!»