Dentro a Il ritorno di Casanova ci sono tante cose. C’è un robot aspirapolvere che mi è parso ispirato al rosso Maximilian di The Black Hole. C’è Toni Servillo nei panni di un regista in crisi professionale e esistenziale che respinge gli assalti dei giornalisti a colpi di fioretto. C’è un film nel film che nelle luci e nei costumi pare ricordare Barry Lyndon. C’è Sara Serraiocco che fa la contadina e la musa, con i capelli corti che pare la Natalie Portman di Hotel Chevalier. C’è Natalino Balasso che fa il montatore e Antonio Catania il produttore, come in Boris. C’è Fabrizio Bentivoglio, alias Casanova, che viene sfidato a duello, ma nudo. Una chitarra elettrica in stile Telecaster, ma Eko e non Fender. Una cover di “Parsley, Sage, Rosemary and Thyme” di Simon & Garfunkel. Ci sono tante sigarette, tanti bicchieri di vino, momenti quasi metafisici. C’è il Festival di Venezia, evocato, frequentato, forse sperato. Ci sono il cinema, la vita, la vecchiaia.
Dentro a Il ritorno di Casanova ci sono tante cose, forse anche troppe, forse – anzi, senza forse – non tutte giuste, non tutte capaci di funzionare come si sarebbe voluto una volta messe l’una vicino all’altra, alternate, sognate. Ma l’imperfezione, lo sbaglio, in questi tempi omogeneizzati, a volte può anche piacere, ed essere sinonimo di una qualche ricerca, anche se utopica; e poi lì dentro c’è anche Gabriele Salvatores, in tutta la sua natura multiforme. C’è la sua, di ricerca: la sua voglia di cambiare abito, la sua riflessione generazionale, l’umorismo mescolato alla malinconia, la voglia di fare un cinema con delle ambizioni ma che sia capace anche di essere modesto, in quale modo. Lieve. Soave. Un po’ come si presenta lui stesso, Salvatores, alla stampa, con quella sua aria un po’ buddista milanese, che non sai mai dove finisca il personaggio e cominci la persona. O viceversa.
C’è una scena, in Il ritorno di Casanova, che che mostra il primo incontro tra Leo Bernardi (il regista interpretato da Servillo, solo in parte alter ego di Salvatores, verrebbe da dire) e la Silvia di Serraiocco, che con quel suo nome leopardiano e il fare spiccio di chi lavora la terra per vivere si capisce subito sarà in grado di rubargli il cuore.
Silvia capisce subito che quello che ha di fronte, avvolto da una mantalla nera nel bel mezzo di un campo, con un libro in mano, è il regista del film che si dice verrà girato da quelle parti. Allora gli chiede di cosa parli, questo suo film. Leo, incerto, esita. Poi risponde: “del tempo che passa”, o una cosa del genere.
E difatti, il film che Leo girerà, e che poi non sarà in grado di montare senza l’ausilio di Balasso, è proprio l’adattamento del romanzo di Arthur Schitzler che si chiama “Il ritorno di Casanova”, nel quale il grande seduttore veneziano deve fare i conti con la vecchiaia, la decadenza delle carni, con la perdita del suo superpotere.
Anche Leo deve fare i conti con la vecchiaia, con il declino della sua stella, con la concorrenza di giovani autori esordienti portati in palmo di mano dalla critica, con il decadimento del suo corpo, l’appannarsi della sua mente.
Più di tutto, deve fare i conti col bivio cui si è trovato di fronte dopo aver incontrato Silvia, e essersi innamorato di lei più di quanto era disposto a fare: quel bivio che viene un po’ semplicisticamente indicato come quello tra Cinema da un lato e Vita dall’altra, ma che comunque, in buona sostanza, gli chiede di scegliere se vuole rimanere aggrappato alle sue ossessioni, a crogiolarsi nella decadenza autocompiaciuta, alla sicurezza del passato o se, invece, vuole compiere il salto folle e pericoloso verso la possibilità di una vita nuova, e di una nuova vita.
Qualcuno dirà che c’è della senilità, in Il ritorno di Casanova. Io, per converso, ci ho visto dentro tanta voglia di vivere, anche quando – soprattutto, quando – si deve fare i conti con la vecchiaia e con il declino. Vecchiaia e declino raccontati con una sincerità nuda, semplice, spiazzante. A volta quasi un po’ commovente, in ogni caso direi sorprendente.
Sorprendente, come la voglia di Salvatores di fregarsene bellamente delle tante isterie contemporanee che, partite da posizioni giuste e incontestabili, stanno trasformando il mondo in cui viviamo in un labirinto di divieti, imposizioni e ipocrisie.
È evidente, anche troppo, che il contributo di Umberto Contarello (con Salvatores sceneggiatore del film assieme a Sara Mosetti, ovvero i corresponsabili dell’unico film davvero imperdonabile del milanese, Tutto il mio folle amore) ha fatto sì che nel corpo del Il ritorno di Casanova sia stata fatta una trasfusione forte di sorrentinismi (o magari proprio di contarellismi), e che non sempre l’organismo del cinema di Salvatores è stato in grado di assorbire senza scarti o rigetti questi corpi almeno parzialmente estranei.
Ma è anche evidente che la spinta dello sceneggiatore padovano sembra aver contribuito in maniera abbastanza determinante alla realizzazione di un film che abbraccia senza esitazione il libertinismo non tanto come pratica dissoluta e seduttiva, ma inteso come liberazione dalle gabbie del pensiero, delle regole, come voglia di emancipazione prima di tutto da sé stessi (per accettarsi meglio), e di godere delle cose belle della vita. Quelle cose belle che possono cambiare, anche, col passare del tempo e l’avanzare degli anni.
E che la gioventù – qui garbatamente invidiata sul fronte del corpo, ma anche cordialmente ridimensionata sul piano della mente, mentre tutto attorno non si altro che glorificare le generazioni più giovani e i loro nuovi lumi, non sempre a ragion veduta – faccia ciò che deve fare, come è destino che sia.