Avrebbe cento anni Antonio Pietrangeli, se non fosse annegato al largo di Gaeta, neanche cinquantenne, nel luglio del 1968. Un banale incidente, verso la fine delle riprese di un film “su commissione”, Come, quando, perché (1969), che sarà portato a termine da Valerio Zurlini, un altro irregolare del cinema italiano morto troppo presto. Pietrangeli muore in quel ’68 di cui il figlio Paolo sarà uno dei cantori, con canzoni-simbolo come Contessa (“Compagni dai campi e dalle officine,/ prendete la falce e portate il martello…”), prima di seguire con minor fortuna le orme del padre. Soprattutto, Pietrangeli muore proprio nel momento in cui vengono al pettine parecchi nodi irrisolti della caotica e talvolta sconvolgente modernizzazione italiana: nodi che nei suoi film aveva saputo cogliere e raccontare, in filigrana, con rara sottigliezza.

Pietrangeli (al centro) sul set di “Come, quando, perché”.

Sarebbe stato interessante vedere Pietrangeli al lavoro ancora nel decennio successivo, alle prese con l’acuirsi del conflitto sociale, il terrorismo, l’erodersi della dialettica democratica. A riprova di un occhio instancabilmente puntato sull’attualità, fra i suoi progetti rimasti sulla carta, accanto al vasto affresco in costume de La picaresca, c’era anche un film sulla magistratura: «violento, critico, corrosivo», scrissero all’epoca, «un film di quelli che magari finiscono per trascinare produttore, regista, sceneggiatori e interpreti in un’aula di tribunale». Più di tutto, sicuramente, sarebbe stato interessante vederlo alle prese con il definitivo affermarsi anche in Italia di una coscienza autenticamente femminista e con sue battaglie a favore del divorzio e dell’aborto. Le avrebbe sapute raccontare, Pietrangeli? E in che modo? D’altra parte, chi altri avrebbe potuto farlo se non lui, che un po’ per caso e un po’ per genuina curiosità aveva finito per diventare lo women’s director per antonomasia del cinema italiano?

A scorrere la biografia di Pietrangeli sembra di avere a che fare, a tratti, con un personaggio čechoviano. Giovane laureato in medicina, di raffinata cultura letteraria (traduce le Cronache italiane di Stendhal e Netočka Nezvanova di Dostoevskij), getta ben presto il camice alle ortiche per dedicarsi al cinema. Incomincia facendosi le ossa come critico: poco più che ventenne, è segretario della redazione di “Bianco e nero”, rivista del neonato Centro Sperimentale di Cinematografia, diretta dal più anziano Umberto Barbaro; in seguito scrive per “Cinema”, “Si gira”, “Star”, “Fotogrammi” e altre testate. Nonostante il fascismo e le sempre maggiori difficoltà della guerra, si fa strada in questi anni l’idea di un rinnovamento del cinema italiano: sono i prodromi del futuro neorealismo. Per il momento, quello che più conta è rompere con gli asfittici “telefoni bianchi” per guardare altrove, alla Francia di Jean Renoir e di Marcel Carné, o all’America proletaria di Steinbeck e Sherwood Anderson (l’antologia Americana, a cura di Vittorini, è del 1941).

Nell’estate del 1942, Luchino Visconti, che ha lavorato in Francia con Renoir, gira il suo primo film, Ossessione, adattando Il postino suona sempre due volte di James Cain. Insieme a lui c’è anche Pietrangeli, che ha collaborato (non accreditato) alla sceneggiatura e lo affianca sul set durante le riprese: «Sarà un film», scrive in un articolo per “Cinema”, «in cui non si vedranno educande, non principi consorti, non milionari affetti da tedium vitae: ma tutta una umanità spoglia, scarna, avida, sensuale e accanita – fatta così dalla quotidiana lotta per l’esistenza e per la soddisfazione di istinti irrefrenabili».

Subito dopo la guerra Pietrangeli abbandona la critica e diventa sceneggiatore. Per conto di Visconti, collabora ancora allo script de La terra trema (1948) e alla stesura di un trattamento, Maratona di danza (1954), per un film mai realizzato ispirato al romanzo di Horace McCoy Non si uccidono così anche i cavalli? (reso famoso, molti anni più tardi, dall’adattamento di Sidney Pollack). Con Rossellini lavora invece ai copioni di Europa ’51 (Robertissimo ritaglia per lui anche una particina di medico) e allo sfortunatissimo Dov’è la libertà…? (1952-54). Ma non ci sono solo gli “autori” sul suo cammino: Pietrangeli scrive anche per Totò (un trattamento a più mani per un mai realizzato Don Chisciotte) e per artigiani del cinema popolare come Gianni Franciolini e Camillo Mastrocinque

Luchino Visconti, Irene Galter e Pietrangeli sul set de “Il sole negli occhi”.

Anche come regista si rivela particolarmente privo di pregiudizi. Al debutto con Il sole negli occhi (1953), apprezzato dalla critica dell’epoca come esempio di neorealismo “in minore”, seguono la pochade di Girandola 1910 (episodio di Amori di mezzo secolo, 1954) e la proto-commedia all’italiana de Lo scapolo (1955), costruita su misura per Alberto Sordi. E se è vero che si tratta spesso più di lavori “alimentari” che di progetti realmente sentiti, va detto anche che, fin dai tempi della militanza critica, Pietrangeli aspirava a un cinema nazionalpopolare, colto ma aperto al dialogo con il pubblico. Un’apertura non sempre compresa dalla critica (dell’epoca e non solo), per la quale Pietrangeli è stato a lungo un regista dalla collocazione difficile, al pari di molti altri nomi di quegli anni, da Lattuada a Bolognini, al già citato Zurlini.

In particolare, sull’ex critico Pietrangeli ha pesato forse un doppio pregiudizio. Molti dei colleghi di un tempo videro, anche nei suoi film migliori, una sorta di “tradimento” dell’antica ispirazione neorealista in favore di un cinema apparentemente più corrivo come quello della commedia all’italiana. «Non sembra giusto addebitare interamente a Pietrangeli la superficialità dei suoi racconti», scriveva nel 1964 Gian Piero Dell’Acqua, «perché è una superficialità vistosa e confessa, di un regista che sembra sempre intento a rancorose pratiche autopunitive della sua ingenuità d’un tempo»; e qualche tempo dopo Adelio Ferrero ammoniva: «Le vie del cinema mercantile, si sa, sono facili da imboccare, ma difficilissime da abbandonare». L’altro pregiudizio veniva dall’ambiente cinematografico, all’interno del quale Pietrangeli era probabilmente considerato un intellettuale un po’ velleitario più che un regista vero e proprio: «Non era all’altezza delle sue aspirazioni», avrebbe commentato molti anni più tardi Rodolfo Sonego, «Io la conoscevo bene, ad esempio, non è un film all’altezza del mito che gli è stato edificato dopo. La storia di questa ragazza suicidata è già banalizzata dal titolo, falsamente letterario e falsamente profondo, che tradisce un assunto ginnasiale».

Sicuramente Pietrangeli è stato un uomo tormentato, irrequieto, spesso insicuro – anche sul set. Sono molti gli aneddoti sulla sua meticolosità, al limite della pignoleria. Era capace di battere una ventina di ciak per la stessa ripresa, o di bloccare la lavorazione per chiamare i propri sceneggiatori di fiducia (Scola e Maccari) perché insieme a lui decidessero come modificare una battuta. Al tempo stesso, era in grado di cogliere come pochi le potenzialità di un’interprete (Sandra Milo e Stefania Sandrelli hanno avuto con lui alcune delle loro migliori occasioni) e i suggerimenti di un attore: la memorabile claquette del comico fallito Bagini in Io la conoscevo bene è un’idea di Ugo Tognazzi.

 

Mario Adorf, François Périer e Sandra Milo sul set de “La visita”.

I film per cui Pietrangeli è oggi più ricordato sono ovviamente i ritratti di donne girati fra il 1960 e il 1965: il suo “quinquennio d’oro”, l’ha definito Lino Micciché. “Come, quando e perché”, per riprendere il titolo del suo ultimo film, Pietrangeli è diventato per tutti, con un’espressione poco felice, il “regista delle donne”?

Il perché lo ha spiegato in parte lui stesso, in una celebre e assai citata intervista del 1967: «Non è tanto che io sia la Celestina di Il sole negli occhi o l’Adriana di Io la conoscevo bene o la Pina di La visita come, scusatemi, Flaubert era Emma Bovary. Ma è che nel processo di trasformazione sociale a cui […] assistiamo in Italia, la donna ha incontestabilmente un ruolo da protagonista. Tanto profondo e rapido è stato il passaggio dalle posizioni in cui era relegata ancora subito dopo la guerra a quelle che, di forza, ha occupato negli ultimi anni». Le sue protagoniste questo passaggio lo vivono sulla loro pelle, a volte in modo drammatico (Adua e le compagne, Io la conoscevo bene), a volte con malinconico disincanto (La visita, La parmigiana), mai comunque con rassegnazione. Secondo Piera Detassis, «ciò che fa unico il discorso di Pietrangeli è la capacità di fotografare un’epoca di squilibrio nel rapporto fra i sessi, di transizione nella concezione del ruolo femminile». Unicità che, a tratti, rischia di diventare un limite, poiché «è la lacerazione, appunto, e non l’emancipazione, ciò che interessa al regista». Per questo, conclude Detassis senza peraltro farne un giudizio di valore, «parlare di femminismo sarebbe fuorviante».

Il quando sono invece gli anni fra il boom e la congiuntura, in cui il «processo di trasformazione sociale» (e non solo) del nostro Paese assume connotazioni traumatiche: “Saltare cent’anni in un giorno solo/ dai carri dei campi/ agli aerei nel cielo”, canterà Luigi Tenco un anno prima del ’68. E non è un caso che la maggior parte dei film di Pietrangeli ruoti attorno al rapporto irrisolto fra la provincia e la città, con la prima tradizionalista (la Bassa de La parmigiana) o addirittura arcaica (la campagna pistoiese di Io la conoscevo bene) e la seconda alienante e nevrotica (la Brescia de Il magnifico cornuto). Ma l’opposizione può anche funzionare al contrario, come accade ne La visita (1963), con la donna di San Benedetto Po (Mantova), dinamica e moderna, che mette in discussione gli stereotipi di genere (fa la contabile presso un consorzio agrario, guida l’auto e la motofalciatrice, è single ma non disdegna le relazioni) e il maschio di Roma, indolente e retrivo, che invece è un coacervo di pregiudizi e meschinità.

Quanto al come, la regia di Pietrangeli dialoga con le punte più avanzate del cinema europeo dell’epoca, dalla narrazione paratattica, costruita spesso su anticlimax o repentini salti temporali, alle false soggettive, dai virtuosistici piani sequenza agli sguardi in macchina, come quello di Sandrelli in Io la conoscevo bene (1965), che Emiliano Morreale ha accostato a quello di Anna Karina nel godardiano Questa è la mia vita (1962), in cui l’attrice «sta proprio guardando noi, sta guardando gli spettatori (maschi) della commedia all’italiana». Ugualmente sapiente il lavoro di Pietrangeli sugli/con gli interpreti, che alla straordinaria duttilità “metamorfica” dei corpi femminili (oltre alle già ricordate Milo e Sandrelli, vanno annoverate almeno Catherine Spaak e, in parte, Claudia Cardinale), oppone la fissità grottesca, fortemente tipizzante, da maschere, dei personaggi maschili, non a caso spesso affidati allo stesso attore (per esempio, Nino Manfredi dà vita sia al fotografo de La parmigiana sia allo scalcinato press-agent Cianfanna di Io la conoscevo bene)

Come e più di altri registi della sua generazione, Pietrangeli non ha lasciato veri eredi. Tantomeno si può dire che abbia fatto scuola: tracce del suo stile rimangono forse in certi momenti delle regie di Scola (Dramma della gelosiaC’eravamo tanto amati). Perlopiù si usa tirarlo in ballo ogni volta che un regista (maschio) decide di raccontare la storia di una donna “indipendente”: il primo che mi viene in mente è il Virzì de La prima cosa bella (2010), che alludeva esplicitamente a Io la conoscevo bene. Ultimamente ho letto da qualche parte che Garrone avrebbe ipotizzato addirittura un remake del film.

La verità è che difficilmente oggi qualcuno saprebbe raccontare quelle storie e quelle donne in quel modo, e non solo perché è profondamente cambiato il cinema – e la donna. Nessuno avrebbe il “tocco” di Pietrangeli (un Pietrangeli touch?), ossia quella fusione irripetibile di lucidità di sguardo e partecipazione emotiva senza la quale chiunque finirebbe per cadere nel moralismo, nel paternalismo o peggio. Rivediamone e gustiamone la (purtroppo esigua) filmografia, ormai entrata nel canone del nostro cinema dopo un lungo e paziente percorso di riscoperta ad opera di un pugno di critici e studiosi (ci piace qui ricordare almeno Antonio Maraldi, uno dei pionieri di quella riscoperta ). Quanto a Pietrangeli, lo immagino come una sorta di benevolo spettro, ectoplasma silenzioso che si aggira divertito per le storie del cinema italiano, quasi fosse uno dei suoi Fantasmi a Roma (1961): un film à la René Clair (regista da lui amatissimo) sospeso tra invenzione fantastica e commedia di costume, che dimostra, se ancora ce ne fosse bisogno, come l’etichetta di women’s director non renda pienamente giustizia a uno dei più originali e irregolari registi del nostro dopoguerra.

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