«Spazio e cattività sono i due temi ricorrenti nella mia opera» osservò in un’intervista Kim Ki-duk. In diversi suoi film, come Soffio (2007) e Il prigioniero coreano (2016), la connessione tra i due temi appare evidente nel motivo di uno spazio chiuso e claustrofobico che diventa per l’uomo una prigione. In altri film, tra cui L’arco (2005) e L’isola (2000) – il suo primo grande successo internazionale –, un’espressione maggiormente metaforica del medesimo legame è fondata sul simbolo dell’acqua e sul suo potere di isolare le persone, trasformandole in monadi. La cella in cui viene rinchiuso il ragazzo di Ferro 3 – La casa vuota (2004), e in generale tutti gli interni del film, ovvero le case che l’innominato protagonista abita nel silenzio, in assenza e all’insaputa dei rispettivi proprietari, esplorano una dimensione di isolamento e prigionia ancora più irreale, nella quale e attraverso la quale lo spazio diviene occasione di passaggio, di scomparsa e di metamorfosi.
La derivazione dell’aggettivo “cattivo” da “cattività” suggerisce una riflessione che ribalta il rapporto di consequenzialità per cui chi ha fatto qualcosa di male, in quanto cattivo, dev’essere imprigionato: al contrario, il cattivo è tale in quanto prigioniero, ovvero vittima di ciò che lo fa stare male. Per questa ragione, nel cinema di Kim Ki-duk, morto ieri a Riga a soli 59 anni, ennesima vittima di Covid-19, la cattività assume spesso la forma della violenza più estrema (cosa che negli anni gli ha attirato non poche accuse), ma conosce anche la possibilità della grazia. A proposito dell’Isola, durante la presentazione al festival di Venezia, Kim Ki-duk ricordò di essere rimasto piacevolmente colpito quando si vide descritto, forse per la prima volta, almeno in ambito internazionale, come un regista dallo straordinario talento per l’espressione poetica: mentre i dibattiti tendevano a concentrarsi sugli aspetti grotteschi e sulle scene più crude della pellicola, confessò, sapere che il suo film era stato interpretato sotto il segno della poesia e della bellezza l’aveva fatto traboccare di gioia.
Mi piace pensare che dalla gioia di questo riconoscimento possa essersi originata l’ispirazione di Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera (2003), il film che credo condensi al meglio le riflessioni di Kim Ki-duk sullo spazio e sulla condizione di cattività, e che meglio di ogni altra sua opera è espressione di una bellezza capace di abbracciare i più vari e contraddittori aspetti della vita umana. Paragonandolo a un capolavoro onirico come Sogni (1990) di Kurosawa Akira per la sua natura episodica, simbolica e spirituale, l’autrice di un’importante monografia su Kim Ki-duk, Hye Seung Chung, osservò che la differenza principale risiede nell’età che i registi avevano all’epoca in cui realizzarono i due film: Kurosawa ottantenne, Kim poco più che quarantenne, e a soli sette anni di distanza dal suo debutto, ma dimostrando la sapienza e la maestria di un ottuagenario.
Composto da cinque capitoli che seguono la successione delle stagioni evocata dal titolo, il film presenta cinque tappe dell’esistenza di un monaco buddhista, dall’infanzia alla vecchiaia e oltre, nell’impressionante cornice remota di un eremo galleggiante al centro di un lago, circondato dalla natura incontaminata e isolato dal resto del mondo. Un carattere essenziale dello spazio, colto fin dalle prime scene, è la compresenza di realtà e illusione. Il portale d’accesso è raffigurato all’inizio del film come una porta chiusa galleggiante nel vuoto del lago, esattamente come la porta che all’interno dell’eremo separa la stanza del bambino novizio da quella in cui il monaco maestro sta pregando: chiusa, ma priva di pareti divisorie. Kim Ki-duk parlò del film come di una meditazione, e “meditazione” è uno dei significati più di frequente associati allo zen, assieme a “visione” e “contemplazione”. Un celebre kōan del maestro zen Mumon, vissuto a cavallo tra XII e XIII secolo, introduce con queste parole la sua raccolta intitolata La porta senza porta:
Il grande sentiero non ha porte
Migliaia di strade vi sboccano
Quando si attraversa quella porta senza porta
Si cammina liberamente tra cielo e terra
Kim Ki-duk non credeva che il film fosse in senso stretto un’opera religiosa, ma si augurava che potesse portare le persone a interrogarsi sul significato della propria vita. «C’era una donna che aveva superato gli ottant’anni» ricordò di una proiezione al Lincoln Center di New York, «che rimase a lungo in sala dopo la fine e non se ne voleva andare […], e pregò lo staff di permetterle di incontrare il regista per stringergli la mano. E quando ci siamo incontrati, mi ha ringraziato per averle fatto vedere un film tanto bello prima di morire».
Il susseguirsi delle stagioni in un ciclo di vita e morte non descrive semplicemente il passaggio degli anni, ma rivela il tempo come totalità inesauribile, anche all’interno di uno spazio circoscritto come quello dell’eremo e del lago, che l’occhio della camera non abbandona mai. Ogni stagione è un’età di passaggio, di prova e di trasformazione. In una delle scene più memorabili del primo capitolo e dell’intero film, il bambino “cattivo” che fa del male agli animali legandogli addosso delle pietre con lo spago è punito dal maestro allo stesso modo, perché possa accorgersi dei rapporti di interdipendenza che lo uniscono a ogni creatura. Non è stata la malvagità o la crudeltà a guidare le sue azioni, ma un’ignoranza che messa di fronte al dolore e alla morte di un essere vivente, grazie alla prova che il maestro gli assegna, si trasforma in una preziosa occasione di apprendimento. Come il bambino impara a prendersi cura degli animali e di tutto ciò che lo circonda attraverso questa esperienza dolorosa, tuttavia, anche il ragazzo, l’uomo e l’anziano dovranno seguire le tappe di un percorso iniziatico che non ha mai fine, e a ogni stagione della vita torna a ripetersi e a rinnovarsi.
Lo stesso Kim Ki-duk interpreta il monaco nell’ultima fase della sua vita, corrispondente al quarto e al quinto capitolo del film. È la prima volta che assume anche il ruolo di attore all’interno di una sua pellicola, e in seguito lo farà soltanto in altre due occasioni: in Soffio (2007) e in Amen (2011). Dopo aver lasciato l’eremo per inseguire altrove i desideri dell’amore e della vita mondana, e dopo essere stato anche in prigione per l’assassinio della moglie, l’uomo torna definitivamente al luogo in cui ha trascorso l’infanzia, ma in assenza del maestro di cui nel frattempo il film ha raccontato la vecchiaia e la morte. Il portale che all’inizio si presentava chiuso si apre: è diventato un passaggio, come anche l’acqua ghiacciata su cui ora può camminare. Durante il rigido inverno, l’arrivo di un nuovo discepolo lo rende un maestro, e il sacrificio della madre del bambino lo porta a sottoporsi di nuovo alla prova della pietra in un difficile cammino di espiazione. Quando infine lo vediamo varcare un’ultima volta il portale all’indietro si trova su una barca, e la distanza della camera accentua l’ambiguità di una figura che potrebbe essere sia l’anziano maestro che il piccolo discepolo. Tutto ciò che sappiamo, suggerisce nel silenzio l’immagine, è che sugli alberi sono comparsi i segni della primavera.
Kim Ki-duk è stato un regista, sceneggiatore, produttore cinematografico e montatore sudcoreano, vincitore del Leone d’oro e del Leone d’argento al Festival di Venezia, oltre che del premio Un Certain Regard al Festival di Cannes. Non va confuso col regista omonimo, attivo negli anni sessanta-settanta.