È quello che succederà nei mesi successivi, quando Astrid Kirchherr diventerà la prima a far mettere in posa i Beatles per un set fotografico “ufficiale”. I suoi scatti documentano gli anni dei Beatles ad Amburgo, di certo uno dei periodi meno conosciuti dell’epopea beatlesiana. “Il nostro miglior lavoro non è mai stato registrato”, dichiarava John Lennon nel 1970, all’indomani dello scioglimento dei Beatles, in una celebre intervista a Rolling Stone, nel faticoso tentativo di lasciarsi alle spalle il passato e di rompere il mito sul quartetto di Liverpool. Anche se in realtà qualche bootleg di quel periodo esiste, il modo migliore per conoscere i Beatles alle loro origini passa ancora attraverso gli occhi e l’obiettivo di Astrid Kirchherr.
Nel momento in cui partono da Liverpool alla volta di Amburgo, nell’agosto del 1960, i Beatles sono solo un gruppo di teddy boys, con giacche di pelle e brillantina tra i capelli, così inesperti da non riuscire a trovare ingaggi in patria. Hanno tutti tra i 17 e i 20 anni, e vengono chiamati per suonare per 48 serate all’Indra Club. È questo il momento in cui decidono di chiamarsi definitivamente The Beatles. La formazione è composta da John Lennon, Paul McCartney (alla chitarra), George Harrison (ancora minorenne), il batterista Pete Best, reclutato in tutta fretta per il viaggio in Germania, e il bassista Stuart Sutcliffe, compagno di scuola e grande amico di Lennon, che all’epoca sfoggia un look alla James Dean.
Amburgo era allora una città del peccato, un porto pieno di marinai, gangster e prostitute, con locali aperti tutta la notte, dove alcool e anfetamine non mancavano mai. I Beatles cominciano a suonare sette giorni su sette, per ore ed ore ogni notte, prima all’Indra Club e poi al Kaiserkeller Club: è una scuola dura, che però li forma come musicisti e come performer e li abitua già a incrociare diversi generi, dal rock’n’roll più selvaggio per attirare i clienti all’interno dei club alle ballate più melodiche per le ore tarde della notte. È in una di queste notti che Klaus Voormann, giovane artista e graphic designer, entra nel club attirato dalla musica: in quel momento sul palco c’è un altro gruppo inglese, Rory Storm and The Hurricanes, e alla batteria c’è Ringo Starr. Il gruppo successivo in scaletta sono i Beatles e Klaus ne rimane così impressionato da convincere la sua ragazza, Astrid Kirchherr, a tornare a vederli insieme.
Ma l’impatto è altrettanto forte per i Beatles, l’influenza è reciproca. Paul ricorda così il loro incontro: “Un giorno arriva un gruppo di persone dal look un po’ strano, non assomigliavano a nessun altro. Immediatamente pensammo: ‘Ehi… spiriti affini… qualcosa sta per succedere’. Si vestivano tutti di nero e si facevano chiamare ‘Exis’ (esistenzialisti)”. Klaus e Astrid, a cui si aggiunge il fotografo Jurgen Vollmer, sono tutti aspiranti artisti e attraggono soprattutto John e Stuart, che a loro volta avevano frequentato la scuola d’arte. In breve Stuart e Astrid si innamorano e il bassista decide di lasciare il gruppo (cedendo il suo strumento a Paul), di dedicarsi alla pittura e di rimane a vivere con Astrid ad Amburgo. Nel frattempo i Beatles sono costretti a rientrare in Inghilterra: George viene rimpatriato in quanto minorenne, Paul e Pete Best per aver causato un incendio nella loro abitazione. Il gruppo tornerà ad esibirsi ad Amburgo (al Top Ten Club) per tutta la primavera del 1961.
L’incontro con gli Exis è per i Beatles la prima delle grandi trasformazioni che periodicamente cambieranno la musica e l’aspetto della band. Come succederà poi con Bob Dylan, con la cultura psichedelica, con la musica classica e quella indiana, i Beatles si dimostreranno sempre capaci di immergersi in stimoli nuovi, assorbirli, farli propri e poi restituirli amplificati a milioni di persone.
In questo caso il cambiamento non riguarda la musica ma l’estetica del gruppo. Come testimoniato dagli scatti di Astrid, la prima a ritrarli in un set fotografico, nel giro di pochi mesi i Beatles abbandonano il look rock’n’roll e adottano quello degli Exis. Via la brillantina e largo al celebre caschetto, quindi: il primo ad adottarlo è proprio Stuart, seguono George, John e Paul (tranne il povero Pete Best!). A completare l’opera, al rientro a Liverpool, sarà poi il nuovo manager Brian Epstein, che suggerirà ai ragazzi di smettere le giacche di pelle e passare a dei più presentabili completi.
Ma l’influenza di Astrid e Klaus non è solo una questione di estetica. Si potrebbe anzi dire che gli Exis aggiungono un tassello alla più generale poetica dei Beatles. “Ci sono state ben poche cose tra quelle che accaddero ai Beatles che non fossero state da noi attentamente pianificate”, ci dice ancora John. Tra queste: la decisione di non inserire i singoli di successo già pubblicati all’interno degli album (nonostante procedessero al ritmo di due album e quattro singoli all’anno), la scelta di non ripetersi mai musicalmente, ma soprattutto una costante attenzione all’immagine, su cui presto esercitarono un controllo totale. Immagine che, ad esempio, non venne mai prestata alla pubblicità. Una consapevolezza e intelligenza di questo tipo non era così scontata da ragazzi di 20-24 all’apice del successo. La prova di tutto questo sta nelle copertine degli album. La cover del primo disco, Please please me, 1963, ritrae il gruppo in una posa classica, affacciato a un parapetto della sede della EMI. I Beatles non avevano ancora diritto di esprimersi sulle copertine, ma già pochi mesi dopo, al secondo lp, With the Beatles, impongono le loro idee estetiche. E chiedono al fotografo Robert Freeman di rifarsi agli scatti in bianco e nero di Astrid, con i volti metà in ombra e metà alla luce. Da quel momento in poi è un crescendo di creatività, mentre le altre band emergenti non si pongono ancora nemmeno il problema (bisognerà aspettare i Pink Floyd e la loro collaborazione con Hipgnosis): su Rubber Soul (1965) approfittano di un incidente per stampare una cover con i loro volti leggermente deformati, e nel 1966 sarò proprio Klaus Voormann a disegnare la copertina di Revolver. Seguono poi Sgt. Pepper’s e il White Album. Anche per il loro debutto cinematografico (A Hard Day’s Night, 1964) i Beatles non lasciano nulla al caso. Disgustati dall’idea di essere protagonisti di un musicarello, dove all’improvviso si attacca a suonare senza nessun motivo, chiedono di poter dire la loro non solo sul regista (Richard Lester), ma anche sullo sceneggiatore (Alun Owen).
Ma prima del successo c’è un prezzo da pagare, e dispiace contraddire le speranze di John, ma qui il racconto sui Beatles si fa davvero mitologico. Nella mostra Astrid Kirchherr with the Beatles, che nel 2017 ha raccolto gli scatti della fotografa, era stata allestita una piccola stanza, una ricostruzione dello studio-mansarda di Stuart Sutcliffe ad Amburgo. A una parete, alcuni dei dipinti di Stuart, che virano verso l’espressionismo, all’altra una gigantografia di Sutcliffe in piedi al centro dello studio. Ha appena ottenuto una borsa di studio per l’Accademia di Belle arti di Amburgo, ma la sua salute non va bene: soffre di forti mal di testa e una volta sviene durante una lezione. Nessuna malattia viene diagnosticata, ma il 10 aprile del 1962 Stuart muore colpito da un’emorragia cerebrale.
Solo tre giorni dopo, il 13 aprile, i Beatles atterrano ad Amburgo per un nuovo ingaggio. È Astrid ad accoglierli all’aeroporto e a dare la notizia della scomparsa di Stuart. John chiede di vedere lo studio dell’amico, ed è lì che Astrid scatta una serie di intensi ritratti in bianco e nero, con Lennon in piedi nello stesso punto dove era stato fotografato Stuart.
Astrid seguirà i Beatles ancora per qualche tempo, fino al 1964, ma sarà la prima ad avvertire il peso di quel mito che John avrebbe poi tanto voluto distruggere. A metà anni ’60 abbandonerà la carriera da fotografa per sfuggire all’ingombrante ombra beatlesiana e cercherà altre strade: “Venivo sempre presentata come la fotografa dei Beatles – spiegherà in un’intervista nel 2010 –. Ero così insicura di me stessa: sono brava o sono solo la fotografa dei Beatles?”. Astrid si è spenta mercoledì scorso ad Amburgo, pochi giorni prima di compiere 82 anni. Era “a beautiful human being”, come ha scritto Ringo per ricordarla.
La storia di Astrid, Stuart e Klaus e degli anni dei Beatles ad Amburgo è stata raccontata nel film Backbeat e nel graphic novel di Arne Bellstrof Baby’s in Black (Black Velvet, 2011).