Il libro siamo poi riusciti a pubblicarlo nel 1987, grazie all’Assessorato alla cultura del Comune di Varese, con il titolo Tutti i film di Clint Eastwood; e qualche anno fa, nel 2013, con l’aiuto dell’amico Alberto Crespi, l’abbiamo anche potuto ristampare con un nuovo titolo, Alba di gloria. Il cinema di Clint Eastwood dagli esordi a Heartbreak Ridge, per i tipi di Castelvecchi. All’epoca della prima edizione, Riccardo e io siamo riusciti perfino a incontrare Eastwood di persona, a Roma, in occasione della prima italiana di Bird (1988), il film biografico su Charlie Parker. Avevamo preso apposta un aereo da Milano alle sette del mattino e ci eravamo presentati alla conferenza stampa del film. E lì, nonostante la confusione e i paparazzi, Clint ci ha controfirmato, con dedica, le nostre copie del libro. Un regalo che conservo ancora oggi.
Negli anni Settanta i film di Eastwood erano meno facili da vedere rispetto a quelli con Eastwood, che invece venivano trasmessi anche in TV. Ricordo di averne visti molti in quello che oggi è il teatro Franco Parenti, cioè il Salone Pier Lombardo, che all’epoca organizzava un proprio cineclub. Lo dirigeva Miro Silvera, un uomo estremamente colto, cinefilo, che all’Eastwood regista aveva voluto dedicare una piccola rassegna. Esisteva già, insomma, una minoranza agguerrita di cinefili eastwoodiani: minoranza perché certo non riempivamo le sale, ma soprattutto cinefila, perché la maggior parte dei critici italiani quei film non li vedeva proprio, oppure assegnava al massimo due stellette, più spesso una. Fra le rare eccezioni vorrei ricordare almeno Tullio Kezich, che inserì Lo straniero senza nome (High Plains Drifter, 1973) in una rassegna televisiva sul western crepuscolare.
Eppure, già alla fine del decennio la filmografia di Eastwood come regista era davvero sorprendente. Il debutto con un thriller-noir angosciante, oggi diventato di culto, come Brivido nella notte (Play Misty For Me, 1971), seguito da un western a sé stante come Lo straniero senza nome; e poi Breezy (1973), un melò crepuscolare, malinconico, all’epoca molto sottovalutato; e poi, ancora, Assassinio sull’Eiger (The Eiger Sanction, 1975), Il texano dagli occhi di ghiaccio (The Outlaw Josey Wales, 1976), L’uomo nel mirino (The Gauntlet, 1977)…
Nonostante sia coetaneo di Jean-Luc Godard, Eastwood è considerato un cineasta classico: “l’ultimo dei classici”, secondo alcuni. In quella prima monografia del 1987 noi l’avevamo definito invece «un inventore di cinema moderno». Nella sua ricerca, Eastwood fa leva sul sistema di linguaggi, generi e stilemi di un cinema americano molto preciso: quello che parte da Thomas Ince e William S. Hart, passa per John Ford, Anthony Mann e anche per Budd Boetticher, per arrivare infine, tramite Siegel, allo stesso Eastwood. Certo, poi bisognerebbe interrogarsi sul significato del termine: il Ford di Sentieri selvaggi (The Searchers, 1956) e di L’uomo che uccise Liberty Valance (The Man Who Shot Liberty Valance, 1962) può ancora essere considerato “classico”? Allo stesso modo, Eastwood è classico perché parte da quel tipo di cinema, ma al contempo lo reinventa – e reinventa se stesso, continuamente. Andrebbe poi sottolineato che Eastwood compie il proprio apprendistato con Sergio Leone e, in misura determinante, con Don Siegel – che infatti compare in ruolo di contorno nel primo film di Eastwood regista: un omaggio che è anche una sorta di “necessità esistenziale”. Anche quello di Siegel è un classicismo sui generis, quasi un anticlassicismo. Basti pensare a La notte brava del soldato Jonathan (fuorviante titolo italiano per The Beguiled, 1970), un altro film la cui portata, antitetica tanto al cinema di Siegel quanto a quello di Eastwood (che l’ha prodotto), non venne all’epoca capita appieno. In quella casa, in quegli interni claustrofobici, si consuma una vera e propria demolizione del macho hollywoodiano, che viene fatto fuori, un pezzo alla volta, dalle protagoniste.
Come ha potuto Eastwood riuscire a fare tutto questo senza problemi? Perché era una star, c’è poco da fare. Una star che ha saputo capitalizzare la propria reputazione. Quando ritorna negli Stati Uniti dopo la fortunata collaborazione con Leone non è più soltanto il divo televisivo di Rawhide. Nel 1968 fonda una propria casa di produzione, la Malpaso, che gli garantisce non solo l’indipendenza necessaria per realizzare i progetti che gli stanno a cuore, ma anche per scoprire nuovi talenti, favorendone il debutto nella regia: è il caso di Michael Cimino, per esempio, con Una calibro 20 per lo specialista (Thunderbolt and Lightfoot, 1974). Anche in quell’occasione, va detto, in Italia il film passò quasi inosservato, e in tanti corsero a rivederlo e a riconsiderarlo soltanto dopo il grande successo e gli Oscar di Il cacciatore (The Deer Hunter, 1978).
Oggi Eastwood è un’icona, un autore ambitissimo davanti al quale tutti s’inchinano. E tuttavia rimane una figura controversa, un indipendente. Questo non riguarda soltanto la questione della sua appartenenza politica, da sempre dibattuta. Personalmente, l’ho sempre visto come qualcuno al di fuori della politica tout-court, un classico individualista americano al quale, in fondo, piace mostrarsi “contro”. Anche la candidatura a sindaco di Carmel-by-the-Sea, in California [carica che ha ricoperto come indipendente per due anni, fra il 1986 e il 1988; NdR] è stata soprattutto una scommessa personale: tant’è vero che, mentre tutti si aspettavano che abbandonasse il cinema per la politica, seguendo l’esempio di Ronald Reagan, Eastwood li ha smentiti, continuando a realizzare film. E nei suoi film, è quasi superfluo ricordarlo, ama rappresentare l’America tutta intera, minoranze comprese: dal capo comanche nel Texano dagli occhi di ghiaccio alla famiglia hmong di Gran Torino (2008). Con tutto questo, non arriverei certo a dire, come mi è capitato di leggere, che Dirty Harry è un film di sinistra! Neanche se alla fine del film Eastwood compie lo stesso gesto (gettare il distintivo) di Gary Cooper nel western “progressista” Mezzogiorno di fuoco (High Noon, 1952)…
La vera indipendenza di Eastwood sta altrove. Sta nelle vicende che racconta, spesso autentiche anche quando sembrano inventate, come quelle di Changeling (2008) o Il corriere-The Mule (2018). Sta nei personaggi che sceglie: negativi, perfino odiosi come in J. Edgar (2011), oppure eccentrici, “diversi” come nell’ultimo Richard Jewell (2019). Sta nei generi con cui ha voluto misurarsi nel corso degli anni: a parte il melò sentimentale con I ponti di Madison County (The Bridges of Madison County, 1995), vorrei ricordare il musical, con Jersey Boys (2014), che sulle prime può sembrare lontanissimo dal suo percorso, ma poi, se andiamo a vedere con attenzione il taglio dato alla regia, in termini di montaggio e di ritmo, ci rendiamo conto della perfetta coerenza, della fedeltà a una linea di condotta.
Ecco, è proprio qui, secondo me, che sta la strada eastwoodiana: nella precisione geometrica, rigorosa, con cui è in grado di spingere la vicenda “un po’ oltre” la realtà. È una qualità che potrei definire il “fantastico”, spesso trascurata quando si parla del suo cinema. E non mi riferisco soltanto a Firefox-Volpe di fuoco (1982), che nella seconda parte diventa quasi un film videoludico, al gotico sudista di Mezzanotte nel giardino del bene e del male (Midnight in the Garden of Good and Evil, 1997) o alla quasi fantascienza di Space Cowboys (2000). Penso semmai a sequenze del tutto folli, come quella del bus in L’uomo nel mirino, e a invenzioni puramente visive come la Lago City nello Straniero senza nome, che nel finale appare completamente dipinta di rosso; oppure al tendone da circo di Bronco Billy (1980), bruciato e poi interamente ricostruito cucendo insieme tutte quelle bandiere a stelle e strisce: un’immagine che potrebbe essere quasi una scultura pop, o un’opera di Jasper Johns.
Vorrei aggiungere un’ultima cosa. Ancora oggi, che è considerato un grande autore di cinema, Eastwood rimane sottovalutato come attore. Nonostante abbia vinto cinque Oscar fra regie e produzioni (più un riconoscimento onorifico alla carriera), non è mai stato premiato come interprete. Si continua a ricordare la battuta di Sergio Leone (“Clint Eastwood ha due espressioni: col cappello e senza”) – e questo nonostante sia ben noto il grande affetto di Leone nei confronti di Eastwood. Vittorio De Sica, che di attori se ne intendeva, dopo averlo diretto in un episodio del film Le streghe (1966) aveva detto che la recitazione di Eastwood era essenziale come quella di Gary Cooper. Ad ogni modo credo che, con quel suo volto apparentemente monolitico, Eastwood rimanga l’unico interprete che possa essere affiancato al Randolph Scott dei film di Boetticher o, se vogliamo tornare addirittura alle origini, al William S. Hart dei film di Ince.E diciamo pure che Eastwood è un grande direttore d’attori: anche quando ha lavorato con interpreti che appartengono a una scuola lontanissima dalla sua, come Meryl Streep, Kevin Spacey o John Malkovich, li ha sempre diretti in una chiave quasi underplayed.
Oggi Clint Eastwood compie novant’anni. In questi giorni mi sono preparato alla ricorrenza rivedendo i suoi film in dvd. Quale consiglierei a uno spettatore che si avvicina per la prima volta al suo cinema? Sono contro le classifiche, i pallini e le stellette. A maggior ragione per quanto riguarda Eastwood, che mi piace tutto, soprattutto quando è anche protagonista dei propri film: come in Firefox, Potere Assoluto (Absolute Power, 1997) e, ovviamente, Gran Torino. Ad ogni modo, se proprio volessimo vedere un Eastwood molto profondo, molto innovativo e molto insolito, allora consiglierei almeno Honkytonk Man (1982), insieme a due film completamente diversi fra loro come Un mondo perfetto (A Perfect World, 1993) e I ponti di Madison County: da una parte una storia d’amicizia esistenziale più che virile, dall’altra una struggente storia d’amore. Che altro posso aggiungere? Buon compleanno, Clint.
(Testo raccolto da Gabriele Gimmelli).