Scrivendo di sé nei sei mesi che aveva impiegato per terminare il suo breve libro di centocinquantasette pagine Ferguson si era ritrovato dentro un nuovo rapporto con se stesso. Sentiva un legame più intimo con i suoi sentimenti e allo stesso tempo si sentiva più lontano, quasi distaccato, indifferente, come se durante la stesura del libro fosse diventato paradossalmente una persona più calda e più fredda, più calda perché si era aperto e aveva mostrato le sue viscere al mondo, più fredda perché poteva guardare quelle viscere come se appartenessero a un altro, un estraneo, uno senza nome, e non sapeva dire se quella nuova relazione col suo io di scrittore fosse positiva o negativa, migliore o peggiore. Sapeva solo che il libro lo aveva sfinito, e non era sicuro che gli sarebbe tornato il coraggio di parlare di sé.
Non proprio centocinquantasette, in realtà, ma per l’esattezza novecentotrentanove sono le pagine che compongono “4321″, il romanzo-mondo, il romanzo-vita di Paul Auster, recentemente edito da Einaudi, nella traduzione di Cristiana Mennella.
Quasi mille pagine, dunque, di narrazione calda e fredda insieme, una narrazione che si fa puntualissimo dettaglio nello sviscerare ogni singola minuzia episodica dall’infanzia del brillante Ferguson, protagonista impeccabile col quale il lettore non può far a meno di empatizzare fin dalle prime pagine; una narrazione che si fa però anche ipotesi, che si crogiola nel desiderio, si finge nella scommessa di ciò che sarebbe potuto accadere e non è mai – o non è ancora – successo, di ciò che invece non sarebbe stato plausibile che accadesse, e che – eppure, inaspettatamente – sembra essere accaduto.
La prosa di Paul Auster, gran maestro nell’arte sublime del raccontare storie, si fa piramide e triangolo, si fa cubo e quadrilatero, si snocciola in una quantità poliedrica di diramazioni, che a volerle riassumere tutte ci s’impiegherebbe il tempo sospeso di un’altra avventura ancora, di un’altra vita, di un’altra imponente narrazione biografica.
Perché esattamente questo, a me pare, è il dato più rilevante di tutta l’impalcatura del romanzo: praticare nella maniera più pragmatica e anti ideologica possibile l’esercizio della narrazione (pseudo) autobiografica, utilizzando tutti i possibili piani della meta narrazione, e conservando inesausto il patto intimo di fedeltà che si viene a istituire in maniera del tutto naturale e immediata col lettore. Scommessa più che vinta.
Il piccolo Ferguson, e poi il giovane Ferguson, e poi l’uomo Ferguson, altri non sono che le tre facce di una quarta medaglia, e qui in gioco non entra tanto – non soltanto, almeno – il concetto di tempo e del suo placido scivolare via; Ferguson, in tutte le credibilissime quanto contrastanti determinazioni di Ferguson, viene pian piano ad esistere come l’oggetto funzionale alla finzione per eccellenza.
Il libro inizia e finisce (spoiler!) – non a caso – puntando l’attenzione sul nome, il cosiddetto nome proprio di persona, “Ferguson” che non si è mai chiamato davvero Ferguson, Ferguson che deriva da un errore anagrafico, che deriva a sua volta da un errore onomatopeico, che deriva fondamentalmente da un errore di percezione.
E proprio la percezione, rifratta, rimodellata, plasmata sì ma senza gravi infingimenti, senza calcare la mano, quasi lasciandola emergere con una sorta di candore impudente, la percezione rispettata, ecco, il rispetto della percezione e il suo conseguente “gioco del mondo”, sono il sostrato che non fatico a definire geniale di questo libro, “4321″, in cui Paul Auster ci fa tutti contare al contrario, per quasi mille pagine, snocciolando a rebours le magagne della scrittura, della razionalità, del sesso, del corpo, della famiglia, del lavoro, degli affetti, della vita.