Nelle prime ore del 15 aprile 1967, moriva improvvisamente il principe Antonio Focas Flavio Angelo Ducas Comneno de Curtis di Bisanzio, in arte Totò. Da quella notte sono passati cinquant’anni, ma la sua figura è più viva che mai nell’immaginario collettivo. Affrontarla significa raccontare una porzione consistente della cultura nazionale, sia “bassa” che “alta”, dal ventennio fascista ai prodromi del ’68; ma significa anche, dietro le risate, domandarsi quanto sia ancora in grado di parlare a noi (ma soprattutto di noi), spettatori italiani d’oggi. In occasione di questo anniversario, Doppiozero ha deciso di dedicare a Totò uno speciale in più parti, nel quale le testimonianze d’epoca verranno affiancate alle parole dei nostri collaboratori, ciascuno alle prese con una sequenza, un’immagine o una battuta tratte dagli oltre novanta film interpretati dal grande comico napoletano. Per restituire un ritratto a più voci di un artista rivelatosi, nell’arco di mezzo secolo, davvero inesauribile. Come ogni vero classico.
Su Antonio de Curtis è stato detto e pubblicato di tutto. Non si contano gli articoli, le memorie, i saggi dedicati al Principe, alla sua vita, ai suoi film. In questo panorama sconfinato (e molto spesso, occorre dirlo, di non eccelsa qualità), i libri di Alberto Anile fanno storia a sé.
Giornalista, storico del cinema, selezionatore per la Settimana della Critica alla Mostra del Cinema di Venezia, Anile ha raccontato i retroscena di film come Stromboli di Rossellini e Il Gattopardo di Visconti (rispettivamente con La guerra dei vulcani e Operazione Gattopardo, scritti a quattro mani con Maria Gabriella Giannice) e le tribolazioni di Orson Welles nel nostro Paese (Orson Welles in Italia, recentemente tradotto anche negli Stati Uniti per i tipi di Indiana University Press). Libri bellissimi e stratificati, in cui la riflessione critica, sostenuta da un costante e accurato studio di documenti e materiali d’archivio, è condotta con efficace piglio narrativo: tutte qualità che ritroviamo puntualmente anche nei suoi volumi “totòlogici”.
Nell’arco di vent’anni, a partire dal dittico Il cinema di Totò (1930-1945) e I film di Totò (1946-1967) – di non facile reperibilità, ma speriamo in una prossima ristampa – cui sono seguiti Totò e Peppino, fratelli d’Italia (sulla coppia de Curtis-De Filippo) e Totò Proibito (sui rapporti fra l’attore e la censura), Anile ha costruito una tetralogia a mio avviso fondamentale per chiunque voglia comprendere davvero Totò e la sua opera, al di là dei luoghi comuni e dell’aneddotica da quattro soldi. Detto in breve: se c’è qualcuno che ha tutte le credenziali per introdurci alla scoperta del “continente Totò”, ebbene, questo è lui.
In un’intervista degli ultimi anni, Totò parla della propria “maschera”: «le sono affezionato come alla mia cosa più cara». Potremmo cominciare da qui: da dove nasce questa maschera? Qual è il contesto sociale, prima ancora che teatrale, in cui si forma il futuro principe de Curtis?
La maschera di Totò possedeva molte componenti, anche molto diverse fra loro. La prima era sicuramente quella orrifica, cimiteriale. E non è un caso, perché il Rione Sanità non è soltanto il luogo in cui Totò era nato, ma è anche la sede del cimitero delle Fontanelle, dove sono ospitati i crani – le famose capuzzelle – delle vittime delle grandi epidemie. Il “culto” di queste ossa ha radici antichissime e non escludo che, durante l’infanzia, Totò sia entrato in contatto con queste tradizioni. Altrettanto importante, poi, è l’elemento futurista. A Napoli il futurismo ebbe una coloritura particolare, diversa che altrove. Un po’ perché, come forse in pochi sanno, il primo manifesto del movimento venne pubblicato il 14 febbraio 1909 sul quotidiano partenopeo Il Mattino, cioè una settimana prima che apparisse su Le Figaro. E un po’ perché, dal 1912 in avanti, il futurismo a Napoli divenne quasi un fenomeno popolare, come se ci fosse una sorta di “consanguineità” fra lo Zang Tumb Tumb di Marinetti e feste tradizionali tipo quella di Piedigrotta, con i suoi fuochi artificiali, i “botti” che lo stesso Totò mimava nel finale dei propri spettacoli.
Diresti che il giovane Totò ha partecipato in qualche modo all’avanguardia?
Di sicuro non in senso stretto. Al massimo, direi che ne ha fatto parte “suo malgrado”, respirando l’aria del tempo, imitando gli avvitamenti e le contorsioni di Gustavo De Marco più che le strofe parolibere di Cangiullo. A proposito di avanguardie, anzi, alcune esibizioni comiche di Totò, certe manifestazioni di simultaneità, di metamorfosi repentina, hanno piuttosto un che di cubista.
Una terza, fondamentale influenza sulla formazione di Totò l’ha avuta la Commedia dell’Arte, o almeno quello che ne era rimasto agli albori del XX secolo, vale a dire le farse pulcinellesche napoletane. È qui che lui ha avuto modo di affinare trucchi e tempi comici, di cominciare a formarsi un proprio repertorio di lazzi e gesti ricorrenti. Allo stesso tempo, però, questa prossimità con la maschera di Pulcinella ha finito per creare equivoci. Nel corso degli anni, sia quando Totò era all’apice della carriera teatrale, sia quando era ormai un divo del cinema, Michele Galdieri e i fratelli Bragaglia avevano tentato di convincerlo a interpretare Pulcinella. Ma le poche volte che ci riuscirono fu un insuccesso: dimenticavano, per citare ciò che mi disse Gianni Cajafa, che «‘na maschera non po’ fa’ n’atra maschera», cioè che Totò era una maschera a propria volta. Non a caso nelle nelle farse pulcinellesche interpretava il mamo, cioè il tipo del campagnolo sprovveduto o del piccolo-borghese cittadino.
Più un Felice Sciosciammocca che un Pulcinella, dunque.
E infatti Sciosciammocca, che è il tentativo scarpettiano di “costringere” Pulcinella nei limiti di un personaggio borghese, poteva andare meglio per Totò, proprio perché riusciva ad appropriarsene, a sovrapporgli la propria maschera. Tra l’altro, se guardiamo bene, Totò e Pulcinella sono due figure ben diverse. La maschera nera di Pulcinella, per esempio, va a bloccare proprio quella mimica facciale che in Totò è importantissima: il roteare delle pupille, il movimento delle sopracciglia, la dislocazione del mento, e via dicendo. Anche la fame, la famosa fame di Pulcinella, non ha niente in comune con quella di Totò.
Roberto Escobar ha scritto che quella di Totò «è più che fame: è desiderio abissale di cibo».
Esatto, è talmente iperbolica da diventare irreale: le manciate di spaghetti infilati nelle tasche dei calzoni in Miseria e nobiltà, la spugna imbottita a mo’ di panino con schiuma da barba e saponetta in Fifa e arena… Non c’è nulla di realistico. Anche il ricordo della miseria vissuta in prima persona – Totò diceva che la miseria «è il copione della vera comicità» – viene in qualche modo trasfigurato, sublimato.
Tornando alle componenti della maschera di Totò, non possiamo non citare il teatro delle marionette…
È un elemento che si lega a quella vena macabra di cui abbiamo parlato all’inizio e che non si limita necessariamente alla marionetta. Quello che sembra interessare Totò è soprattutto la distanza sottile che separa l’animato dall’inanimato, l’uomo di carne dal pezzo di legno. Alla fine, il burattino è qualcosa che sembra vivo, ma che in realtà non lo è. In questo senso Totò è una Über-marionette alla Gordon Craig, ovvero un attore completamente sganciato dagli “accidenti” e dalle emozioni dell’attore in carne e ossa.
E lui, era consapevole di tutto questo?
Molto poco, secondo me. Probabilmente è solo nel corso degli anni Trenta, quando sempre più critici e intellettuali di grido venivano a tributargli elogi, che inizia a prendere coscienza di certe caratteristiche della sua comicità. Bisogna immaginare Totò come un grande crogiolo, un artista che è stato in grado di assorbire tutte le cose che abbiamo detto – dall’avanguardia alla Commedia dell’Arte, dal teatro delle marionette a quello di varietà – per poi restituirle nuovamente al pubblico, ovviamente alla sua maniera. Dietro tutto questo c’erano senza dubbio una grande curiosità – da ragazzo lo chiamavano o’ spione – e una altrettanto grande sensibilità umana, due qualità che gli hanno permesso di giocare con un una gamma espressiva estremamente ampia. Si può dire che Totò sia stato davvero un comico per tutte le stagioni.
Un interprete perfettamente in grado di gestire tanto il versante “umano” quanto quello “disumano” della sua comicità…
Proprio così. Macario, per esempio, che con la sua maschera lunare aveva funzionato benissimo nel decennio prebellico, dopo il 1945 è costretto a cambiare personaggio: pensa a L’eroe della strada, oppure ai film che, più tardi, avrebbe interpretato proprio al fianco di Totò. Dall’altra parte abbiamo Aldo Fabrizi, che già durante la guerra, con Avanti, c’è posto… e Campo de’ fiori, si era messo sulla strada di un neorealismo ante litteram, ed era diventato l’interprete ideale per un nuovo tipo di commedia, più aderente alla realtà. Quello di Totò, invece, è un caso unico, perché fu un divo di enorme successo sia a teatro prima della guerra, sia al cinema subito dopo. Certo, possiamo amare di più il Totò fantastico-macabro oppure di più quello realistico, ma conta poco. La verità è che su qualunque corda giocasse, Totò era in grado di produrre una sinfonia diversa. Non per niente Pasolini lo definiva uno Stradivario.
Nei tuoi studi hai dimostrato più d’una volta di preferire il Totò-maschera al Totò-personaggio, il versante surreale e burattinesco a quello bonariamente realistico.
Diciamo che l’aspetto lunare e astratto di Totò mi sembra sia quello che gli dà “più sale”, ecco, che lo distingue da tutti gli altri comici. Non so, pensa ad Animali pazzi: film disgraziato, malriuscito, tutto quello che vuoi. Però c’è un momento in cui Totò mima una sorta di attacco epilettico e riesce a essere davvero impressionante. Addirittura, a un certo punto Bragaglia chiude la scena inquadrandolo di spalle, lasciando intravedere soltanto una gamba che si agita. Forse perché se l’avesse inquadrato frontalmente sarebbe stato troppo disturbante. E Totò era disturbante. In modo subliminale, se vuoi, che passava quasi inavvertito, ma lo era. In un’intervista ai Cahiers du cinéma, Steno racconta che, da ragazzino, era rimasto sconvolto perché a teatro, sotto i suoi occhi, Totò si era trasformato all’improvviso in un fallo gigantesco. Non so se l’esibizione fosse la stessa, ma quando Totò compie quel tipico movimento ogni volta che si trova al cospetto di una bella donna, cosa fa secondo te? Si china verso di lei e ne ripercorre poco a poco, col mento, tutto il corpo, dai piedi alla testa. Che cosa sta mimando? Un serpente? Un uccello? Secondo me è la rappresentazione di un’erezione.
Anche in questo caso viene da domandarsi quanta consapevolezza vi fosse in Totò…
Da questo punto di vista, a dire il vero, ci sono piccoli barlumi di autoconsapevolezza molto acuti, sui quali varrebbe la pena indagare. Per esempio, abbiamo un’intervista in cui Totò parla della comicità come di un sale che «frizza sulle piaghe» del pubblico, e dell’attore comico come di un «giudice istruttore» e persino di un carnefice; in un’altra, dice di voler far «patire di piacere» gli spettatori. È come se ci fosse sempre un fondo di inquietudine nella sua comicità, le risate che suscita non sono mai consolatorie. I vari De Feo, Franci, Ramperti che lo avevano visto a teatro, ancora molti anni dopo ricordavano l’impatto della prima volta: dicevano d’esserci quasi rimasti male, perché si aspettavano di ridere e invece si trovavano davanti un’apparizione spettrale.
… Rieccoci dunque al Totò che inquieta, che scherza con la morte.
«La mia comicità ha un fondo macabro», diceva, e aveva ragione. Pensa solo a quanti suicidi, o tentativi di suicidio, si trovano nei suoi film. Pensa alla quantità di morti ammazzati in Totò Diabolicus e Che fine ha fatto Totò Baby?. Pensa alla frequenza con cui ricorrono i funerali: in Totò e i re di Roma, è addirittura lui in persona a condurre il proprio corteo funebre! D’altra parte, uno dei primissimi numeri di Totò, che risale addirittura all’inizio degli anni Venti, s’intitola proprio Il morto vivo…
Che è un numero quasi leggendario, di cui abbiamo alcune testimonianze – se ne vede un accenno ne Il più comico spettacolo del mondo – ma nessuna risolutiva…
Possiamo fare delle approssimazioni. A quanto sembra, il numero aveva inizio nel momento in cui Totò, improvvisamente, cadeva a terra, come stecchito. Alcune persone arrivavano dalla platea, salivano sul palco, lo sollevavano come se fosse un cadavere chiuso nella bara, e lo portavano così, in una sorta di processione funebre. A quel punto, delle donne, figuranti nascoste fra il pubblico, si mettevano a piangere… Insomma, uno happening che fino a un momento prima era stato comicissimo, tutt’a un tratto diventava un funerale. Quando gli spettatori erano ormai sprofondati in questa dimensione orrida, funerea, assolutamente drammatica, solo allora, con un colpo di grancassa, avveniva la “resurrezione”.
Questo armamentario comico-funereo verrà sfruttato soltanto in parte dal Totò cinematografico, soprattutto da quello del dopoguerra. Come mai, secondo te?
Semplicemente perché nel frattempo si assiste a un radicale mutamento di paradigma. Dopo il ’45 l’imperativo era rinnegare tutte le fumisterie, gli avanguardismi, i calligrafismi. Diventava necessario tirar fuori la testa dalla sabbia in cui il fascismo l’aveva seppellita per vent’anni, e ritornare alla concretezza, ai problemi reali. Per dirne una, anche Umberto Barbaro, che negli anni Trenta fiancheggiava il futurismo e tesseva pubblicamente le lodi del Totò fantastico, diventa uno dei più strenui difensori del neorealismo. Dal nostro punto di vista, questo atteggiamento può sembrare troppo rigido, dottrinario, “zdanovista”, come si diceva all’epoca. Però, se ci mettiamo nei panni di chi per vent’anni ha dovuto subire l’imposizione di un pensiero unico, possiamo facilmente comprendere anche alcuni eccessi. Quindi sì, Totò ha sicuramente fatto le spese di questo mutamento. Se oggi rimaniamo un po’ perplessi davanti al Totò cinematografico dell’anteguerra, quello di Fermo con le mani, di Animali pazzi e di Due cuori fra le belve, è perché ancora adesso il nostro gusto, in un modo o nell’altro, è figlio del neorealismo rosa e della commedia all’italiana, e ha perso quasi del tutto la capacità di apprezzare certi “voli pindarici”.
In questo clima, in che modo cambia la figura di Totò?
Il Totò cinematografico, per come lo conosciamo oggi, “nasce” nell’immediato dopoguerra con I due orfanelli, grazie a Mario Mattoli. Provenendo dal teatro leggero, Mattoli era in grado di ricostruire attorno a Totò quell’atmosfera vagamente estemporanea di avanspettacolo, di rivista, in cui certe sue trovate potevano ancora trovare posto – sia pure un po’ addomesticate, un po’ smussate nelle loro punte più inquietanti. Il vero “danno”, tra molte virgolette, l’hanno fatto Steno e Monicelli in film come Guardie e ladri: una volta calato in un contesto reale, Totò era per forza di cose costretto a diventare un personaggio con una collocazione sociale molto precisa, lontanissima dall’astrazione degli esordi.
Beh, a parziale discolpa di Monicelli e Steno bisogna mettere in conto l’oggettiva difficoltà di trasporre sul grande schermo la personalità di Totò, la sua comicità, persino la sua fisicità…
La verità è che nel dopoguerra nessuno più pensava a quel Totò. Anche le nuove riviste realizzate insieme a Michele Galdieri erano piuttosto diverse da quelle che portava in scena durante la seconda guerra mondiale. Avevano un’impronta più borghese, esaltavano il buonsenso quotidiano. Non possedevano più la geniale sciatteria guittesca dell’avanspettacolo.
Diresti che era più “politico” il Totò dell’anteguerra?
Beh, a teatro, fra il ’43 e il ’44, Totò e Anna Magnani si permettevano di sfottere gli ufficiali nazisti in platea, e ce ne voleva, di coraggio… Il mio però non era un discorso strettamente politico. Intendevo dire che, come il miglior film di Totò è Totò a colori – cioè un film sgangheratissimo –, così il Totò rivoluzionario lo si può benissimo trovare anche all’interno delle riviste più becere e qualunquiste. Nessuno ricorda più di cosa parlavano C’era una volta il mondo o Bada che ti mangio!, né quante fossero le ballerine, né quali pezzi coreografici mettessero in scena; ma tutti conoscono a memoria gli sketch del vagone letto, del manichino, della corsa dei bersaglieri…
Quando parli di “brutti film” penso a uno dei luoghi comuni più resistenti riguardo a Totò: quello dell’incomprensione della critica. Abbiamo visto che non è vero. Semmai è vero purtroppo il contrario, cioè che spesso si trattava di film parecchio abborracciati…
Premesso che è praticamente impossibile fare una statistica generale, direi che la maggior parte delle recensioni dell’epoca se la prendeva con il film, il regista o la produzione, più che con l’attore principale. Lo si compiangeva, questo sì, per aver accettato un copione troppo corrivo, o magari per non sapersi rinnovare come interprete. Alla fine, però, il giudizio su Totò prescindeva da quello sul film. La verità è che il “mito” della svalutazione critica è soltanto una faciloneria, uno dei molti luoghi comuni su Totò. Di più: è stata l’occasione per un ulteriore sfruttamento della sua figura. Attraverso questa cosiddetta “rivalutazione” si è inaugurata tutta una narrazione di stampo agiografico nella quale Totò è diventato una specie di santo, suo malgrado “martirizzato” lungo tutta la carriera dall’intellighenzia critica.
Ripartiamo dai fatti, allora.
Per prima cosa, bisogna considerare un fattore puramente anagrafico, cioè che Totò approda al cinema quasi quarantenne, nel 1937, e raggiunge il grande successo soltanto dieci anni dopo. Un’età matura, soprattutto per il fisico, che per forza di cose non poteva più essere quello snodato degli esordi, quando mandava in solluchero le avanguardie. In secondo luogo, non dobbiamo sottovalutare quella “pigrizia” che lo stesso Totò indicava come il suo difetto principale. D’altronde è anche comprensibile che un attore di teatro, dopo trent’anni di vita errabonda, fosse disposto a chiudere un occhio sul livello artistico delle proposte che il cinema gli offriva, specie se ben retribuite. Se fosse arrivato al cinema dieci anni prima, forse le ambizioni che ancora nutriva l’avrebbero portato a imporsi con più sicurezza nei confronti dei produttori. Se ne renderà conto troppo tardi, a metà degli anni Cinquanta; è proprio in questo periodo che decide di fondare una casa di produzione, la DDL, per indirizzare in modo diverso la propria carriera. Alla fine, però, vuoi per le resistenze della distribuzione, vuoi per le limitate possibilità finanziarie, è costretto a tornare sui propri passi.
Oltre alla titubanza dei produttori, bisogna tenere conto – lo hai messo bene in evidenza in Totò Proibito – anche della censura democristiana, che si è spesso accanita sulle sue pellicole, più di quanto oggi non si creda.
In quel caso, il problema non è tanto quanti tagli siano stati fatti a Totò e Carolina o a Totò, Peppino e… la dolce vita, ma quanti altri film di Totò ci siamo persi, magari più estremi. Faccio un esempio: The Young Pope di Sorrentino, con Jude Law nei panni di un papa molto poco “pontificale”, ha suscitato un po’ di scandalo nei mesi scorsi. Ecco, riusciamo a immaginare che cosa sarebbe stato un Totò che interpreta un cardinale… o addirittura il papa in persona, come avrebbe voluto Zavattini? D’accordo, ci sono il frate di Uccellacci e uccellini e quello de Il monaco di Monza, c’è il prelato di Totò Diabolicus… al limite c’è il fra’ Timoteo de La mandragola, avido e corrotto. Di fatto, però, si tratta di parodie o di partecipazioni speciali: nulla che dia veramente l’idea delle scintille che avrebbe potuto scatenare l’incontro di Totò con l’abito talare.
In questo modo Totò, soprattutto negli anni Sessanta della commedia all’italiana e del “Superspettacolo d’Autore”, ha rischiato di essere confinato insieme a Franchi e Ingrassia nelle seconde visioni…
Anche terze visioni, se è per questo… Ma a che cos’altro poteva aspirare? Non esistevano registi disposti a studiare con attenzione dei copioni appositamente per lui, per il suo tipo di comicità. Se all’inizio degli anni Cinquanta potevi ancora trovare un Antonioni o un Pietrangeli interessato a scrivere per Totò, soltanto qualche anno più tardi un fatto del genere diventa impensabile. Anche il pubblico era cambiato: quando Monicelli chiama Totò per Risate di Gioia, e gli affianca la Magnani – che era stata sì sua compagna ai tempi delle grandi riviste, ma che ormai era un’attrice da Oscar – il risultato è un insuccesso.
In effetti, Pasolini a parte, il rapporto fra Totò e gli “Autori” è una collezione di incontri mancati.
Molto spesso si trattava di un concorso di circostanze difficili, poco fortunate in partenza. Dov’è la libertà, l’unico incontro fra Totò e Rossellini, nasceva, di fatto, come progetto di ripiego offerto da Ponti dopo gli insuccessi di Europa ’51 e Viaggio in Italia. Anni dopo, Rossellini lo definirà un esperimento, ma la verità è che aveva ormai imboccato con troppa decisione la strada del realismo per riuscire a trovare un punto di contatto con Totò. Quanto agli altri… Beh, Fellini, l’unico regista di serie A con cui Totò avrebbe voluto esplicitamente lavorare, lo diresse una volta soltanto, proprio nel finale di Dov’è la libertà, quando ormai Rossellini si era dileguato dal set. De Sica, invece, lo utilizza al meglio nel primo episodio de L’oro di Napoli, unendo le due componenti della sua figura, il pazzariello da una parte e l’interprete drammatico dall’altra, calandole entrambe nel loro humus originario, i vicoli partenopei. Ma si tratta di un episodio, appunto. La stessa cosa vale per le esperienze con Zampa per La patente, e con Bolognini per Arrangiatevi!. Soltanto in extremis, Totò troverà in Pasolini il regista con cui instaurare un autentico, per quanto breve, sodalizio artistico.
Ti sei mai chiesto come mai soltanto Pasolini sia riuscito in questa impresa?
Mah… Forse perché, in fondo, rimaneva un poeta con la macchina da presa. Non era mai diventato davvero un regista “di professione”, e questo lo rendeva probabilmente più duttile e più ricettivo di altri. Dopo il primo esperimento di Uccellacci, infatti, è evidente che Pasolini stava riuscendo pian piano a capire Totò, a immergersi nel suo mondo fin quasi a mettersi al suo servizio. Ecco, forse in questi ultimi film, soprattutto negli episodi La terra vista dalla luna e Che cosa sono le nuvole?, è stato possibile recuperare quel potenziale surreale e poetico della maschera che per vent’anni era stato messo a riposo. Anche se ormai Totò era anziano, semicieco, senza più la vigoria fisica di un tempo, riesce ancora a trovare spazio per l’imitazione dell’aquila, per la marionetta… Come se Pasolini, al di là delle idee che intendeva esprimere in quel momento – la crisi del marxismo, la decolonizzazione, il rapporto fra intellettuali e sottoproletariato – volesse rendere omaggio al passato teatrale di Totò.
È come se Totò riuscisse comunque ad avere il sopravvento, qualsiasi fosse il regista che aveva davanti…
Si tende a dimenticare quanto Totò fosse “autore” dei propri film, a tutti gli effetti. E non mi riferisco solo alla capacità di “fagocitare” con la sua presenza anche la pellicola più scadente. Parlo proprio di un continente sommerso di sketch e di trame comiche ripescate dal suo repertorio teatrale degli anni Venti, Trenta e Quaranta: cose di cui solo lui poteva ricordarsi e proporle di volta in volta a Steno, a Mattoli, a Metz & Marchesi… Per intenderci: quel bellissimo duetto in Totò e le donne in cui Clelia Matania deve dire a Totò che ha telefonato qualcuno ma non si ricorda più chi, è ripreso da un vecchio copione degli anni Trenta, Belle o brutte mi piaccion tutte, in cui era lo stesso Totò a non ricordare più il nome di chi aveva telefonato. Altro esempio, ancora più significativo: Tototarzan, diretto da Mattoli nel 1950, è basato, per tutta la prima parte, su un vecchio avanspettacolo di Totò, L’ultimo Tarzan o Le 199 disgrazie di Tarzan, che risale addirittura al 1939. E questi sono soltanto due esempi. Personalmente, ho il sospetto che la carriera di Totò sia strapiena di questi “furti autorizzati”.
Un altro mito da sfatare, dunque: quello di Totò instancabile improvvisatore.
A teatro Totò partiva sempre da un testo prestabilito e lo rimpolpava, una sera dopo l’altra, sul palcoscenico, misurandosi ogni volta con la risposta del pubblico. Al cinema, come abbiamo visto, poteva contare sul “capitale artistico” accumulato nella rivista. Ma, a parte qualche piccola cosa, non è vero che inventasse sotto i riflettori: il testo era preparato – e, certo, modificato e arricchito – prima di andare sul set. Al resto provvedeva la sua capacità di “porgere” tutto questo al partner di turno, soprattutto se si trattava di qualcuno capace di stargli dietro, di coadiuvarlo.
Uno come Peppino De Filippo, per esempio.
Col quale, infatti, prima di girare una scena, provava poco, o comunque in modo molto spento, quasi svogliatamente. Giacomo Furia mi raccontava che generalmente Totò e Peppino confabulavano un po’ tra loro, stabilivano battute e controbattute: “Io dico questo, tu dici quello…”; poi cercavano di lanciarsi subito sul set, come se stessero andando sul palcoscenico. E i registi più intelligenti, o che magari avevano fatto il loro apprendistato nella rivista, facevano in modo di ricreare intorno a loro un atmosfera il più possibile vicina a quella teatrale, per esempio dando il permesso alla troupe di applaudire una volta finito di girare la scena. Questo a Totò faceva piacere, perché lo riportava all’unica dimensione a lui veramente congeniale, cioè il teatro.
… Che è un po’ il rimprovero che si rivolgeva ai suoi film: essere soltanto teatro filmato.
Per fortuna, mi verrebbe da dire. Perché sono proprio i film di Steno, di Mastrocinque e soprattutto di Mattoli a consegnarci un Totò vicinissimo a quello delle grandi riviste e, in parte, anche a quello dell’avanspettacolo. Il caso di Mattoli, in particolare, è estremamente interessante. Anche lui, come Totò, rimane soprattutto un uomo di teatro, e appena può, ricorda agli spettatori che stanno assistendo a una rappresentazione, a una finzione: per questo inserisce personaggi che parlano rivolti alla camera, scritte in sovrimpressione, cornici teatrali… Oppure, come ne I pompieri di Viggiù, si mette letteralmente a “far teatro” con la cinepresa, nel senso che filma il meglio della rivista dell’epoca e costruisce un iper-spettacolo che diventa, quasi involontariamente, anche un documentario su quel mondo. Chissà, forse oggi qualcuno parlerebbe di “cinema del reale”.
Altro mito della vulgata su Totò: l’intraducibilità dei suoi film, che lo renderebbe di fatto un fenomeno impossibile da esportare altrove. Un fatto di cui lui stesso, nelle interviste, si lamentava molto. Eppure qualche anno fa, in una rarissima apparizione pubblica, Terrence Malick ha parlato a lungo di Totò, definendolo «un vero talento comico» e accostandolo ai vari Keaton, Chaplin, eccetera. Mi aveva molto colpito.
Posso solo dirti che l’altro giorno, per puro caso, stavo sfogliando un numero recente di Positif, tutto dedicato al cinema comico. Mi sono imbattuto in un articolo in cui si sosteneva proprio che la comicità di Totò era alla portata di chiunque, perché possedeva una forte componente mimica – uno dei suoi sogni nel cassetto era quello di girare un film muto – molto più importante di quella verbale. E in ogni caso vale la pena ricordare che non solo già nel ’48, a teatro, Totò fece sbellicare di risate gli svizzeri di Zurigo, recitando in italiano; ma soprattutto che negli anni Cinquanta, all’epoca del massimo successo commerciale, i suoi film erano esportati in varie parti del mondo: in Francia, naturalmente, ma anche in Germania, Portogallo, Brasile, Egitto… Carlo Lizzani raccontava di aver assistito di persona a una proiezione di Guardie e ladri in un cinema di Pechino!
Siamo alle ultime battute. In una celebre intervista rilasciata a Oriana Fallaci, Totò si autodefiniva «un venditore di chiacchiere» e sosteneva che la sua popolarità non sarebbe durata più di una generazione. Da allora sono passati cinquant’anni e almeno tre generazioni di spettatori. Ecco, a questo punto mi chiedo, e ti chiedo: qual è il segreto di questa popolarità così duratura?
Più lo riguardo, più lo studio, e meno risposte univoche riesco a dare… La mia impressione è che Totò, forse per un senso di rivalsa nei confronti di una vita che fin dall’inizio gli si era posta in modo totalmente ingrato – la paternità incerta, l’infanzia povera e affamata –, abbia voluto conquistarsi il mondo. Una conquista che è partita dalle platee dei teatri, dalle risate del pubblico, dagli applausi. Soltanto in questo modo Totò poteva, da vittima che era, trasformarsi in carnefice, ricordando continuamente ai propri spettatori quei dolori, quelle miserie, quelle paure da cui ciascuno di loro cercava di fuggire. Ma soprattutto credo che, proprio grazie a quest’ansia di accumulare quante più frecce possibili al proprio arco, abbia pescato davvero ovunque, finendo per crearsi un repertorio talmente ampio e ricco da soddisfare i palati del pubblico di ottant’anni fa come di quello di oggi. Era un comico totale.