Abbiamo visto Un sapore di ruggine e ossa (De rouille et d’os) regia di Jacques Audiard.
Questo film in controtendenza a ciò che gira nelle sale, dal racconto e dallo sviluppo originale, è tratto dal romanzo dello scrittore canadese Craig Davidson, (Ruggine e Ossa, Einaudi) uno degli autori dell’ultima generazione che ha avuto sin dal suo esordio un’accoglienza di critica entusiastica, al punto di essere paragonato a Chuck
Palahniuk e in parte a Don De Lillo. Forse perché coniuga vite marginali sull’orlo del baratro a un senso di redenzione finale, il tutto raccontato senza fronzoli psicologici e con una pietas naturale. Come un grande attore, per scrivere i suoi testi, nella ricerca del substrato, ha fatto anche 16 settimane di steroidi ed un’altra volta ha boxato alla Gym Boxe Florida.
Il regista francese Jacques Audiard non poteva non innamorarsi di una storia come questa, lui che ha diretto film come Sulle mie labbra (2001), Tutti i battiti del mio cuore (2005) e per ultimo Il profeta (2009), storie di esseri ai margini e in sofferenza per casualità o condizione. Un autore che non sceglie mai la via facile o i compromessi del box-office, che ci racconta nel profondo l’animo umano con personaggi complessi ma allo stesso tempo semplici eroi quotidiani, che sembra girare in uno stato di continua immersione, usando un melodramma algido che sprigiona brutalità, rabbia ma anche disincanto e tenerezza. E “in grado di fondere potenza ed emozione, lo spirito del cinema d’autore francese e l’entertainment americano” come è stato scritto nella menzione del Visionary Award della 23° edizione dello Stockholm International Film Festival dove Audiard ha ottenuto il premio per Un sapore di ruggine e ossa. Uno dei tanti premi ottenuti per il mondo dei festival.
Lui è Ali (un bravo e naturale Matthias Schoenaerts), vive a Parigi da cui scappa senza soldi con un figlio di cinque anni che si chiama Sam e che forse ha visto pochissimo; fugge da una vita ai margini e disperata ma anche liberandosi della ex moglie spacciatrice di droga, forse finita in carcere. Attraversa la Francia andando verso sud e rubacchiando cibo lasciato da qualcuno su qualche tavolo.
Lei è Stéphane (una bravissima e splendida Marion Cotillard), se la passa meglio di lui solo economicamente, è il capo di un team che lavora con i delfini in un acquario, convive con un uomo insignificante e non si può dire che sia soddisfatta, tanto che va nelle discoteche da sola forse per rimorchiare qualcuno.
Lui, giunto in Costa Azzurra, va a vivere dalla sorella (Céline Sallette) che è sposata con un camionista e vive una vita modesta da cassiera in un supermercato. Qui le cose vanno da subito bene, hanno un tetto sotto cui dormire, può lasciare il figlioletto in mani sicure e trova un lavoro come buttafuori in una discoteca grazie al fatto che è stato un pugile semiprofessionista. E nella discoteca Alì e Stéphane si incontrano, lei si trova in una rissa da cui Alì la salva. L’accompagna a casa e si scambiano il numero di telefono.
Le loro strade si sono solo sfiorate per adesso e le loro vite prendono direzioni impreviste, Alì cambia lavora grazie alla sorella e fa il guardiano notturno in un supermercato, Stéphane invece subisce un incidente sul lavoro a causa di un’orca durante uno spettacolo: i medici le devono amputare le gambe all’altezza delle ginocchia. L’immobilità forzata su una sedia a rotella in casa spinge Stéphane a riallacciare un contatto con Ali; si incontrano, lui riesce a farla uscire di casa, la porta al mare e la spinge a tuffarsi nonostante tutto. Sembra proprio che lui non badi all’handicap della donna, tanto che le chiede se vuole fare sesso, lei sorpresa e felice si nega e lui le dice che se vorrà gli manderà un messaggino con la parola “Opré” (operativo) e lui verrà. Dal primo messaggino inizia una storia fatta solo di sesso da parte di lui mentre lei inizia a innamorarsi e prende il coraggio mettendosi due gambe artificiali e a uscire con il bastone.
Iniziano a vedersi anche fuori da quella relazione un po’ strana, fatta solo di sesso. Alì per soldi inizia a fare combattimenti clandestini a pugni nudi e lei lo segue e ne diventa nel tempo la sua manager dura e concreta. La loro relazione non dichiarata, almeno da parte di lui, spinge Alì a praticare con più serietà gli incontri di boxe, finalmente può mettere a frutto la forza che ha e a sentirsi realizzato e più sereno. Ma tra i due prima che ‘nasca’ l’amore ci deve essere qualcosa di ancora più drammatico, e accade. Alì porta sulla neve il figlioletto e in un momento di distrazione il bambino finisce in un lago ghiacciato, il padre rischia di perderlo ma rompendosi le nocche delle mani a furia di spaccare il ghiaccio riesce a riprendere il bambino e a portarlo all’ospedale.
Insomma una relazione tra due esseri umani al limite che si cementa dopo che varie volte o lui o lei cadono in un baratro e ogni volta la caduta serve per diventare il motore di un nuovo slancio vitale. Il finale è costruito bene ma si sentono le ellissi narrative ed è un po’ troppo generoso e da happy end.
Un buon film con una regia autorale e sicura, che non inciampa mai nel patetico o nel voyeurismo (Audiard usa con bravura la macchina da presa e se si sofferma su certi dettagli non lo fa per pruderie ma perché ne sente una sincera necessità drammaturgica); non inciampa in banali pietismi grazie anche al parco d’attori al completo. Da segnalare gli effetti speciali effettivamente speciali, l’ottima colonna sonora e il montaggio.