“Traducevo Joyce e ascoltavo i monaci buddisti che cantavano la preghiera della sera sulla riva del Mekong”. Dialogo con Mario Biondi su “Ulisse”, un monolite
Chiamiamola, congiura di casualità. Adoro Isaac B. Singer, mi pare che William Golding sia uno scrittore eccezionale, sottovalutato (tanto che, qualche vita fa, tentai di far pubblicare una sua raccolta di racconti dal titolo esotico, The Scorpion God), da ragazzo mi figuravo un futuro da James Joyce, se non altro per congestione astrale, siamo nati pressoché nello stesso giorno. Mario Biondi ha fatto tutto quello che io ho solo supposto, surfando su flebili intenzioni: ha tradotto Singer, tanto – compresa la sua adorabile biografia, Ricerca e perdizione – e un tot di Golding – perfino The Scoprion God, ancora inedito, mi prenoto… Ha fatto i viaggi che io, un Cook in cartapesta, ho solo sognato – un viavai sulla Via della Seta, ad esempio, raccontato in Strada bianca per i Monti del Cielo – e ora ha fatto l’impresa, la traduzione, per La Nave di Teseo, dell’Ulisse di Joyce, qualcosa di talmente improbabile ed eroico che è come andare sulla Luna passando per Plutone.
Biondi è uno che ha scartavetrato la vita, in effetti: partì poeta, transitò per il Gruppo 63 (“la sua rabbia quando si metteva a scrivere era autentica…”, scrisse di lui, tra l’altro, Antonio Porta); cresciuto a Como, praticò da ragazzo atletica leggera con risultati ragguardevoli (incluso tra i “probabili olimpici” del 1960), ha lavorato nell’industria, nell’alta editoria (Einaudi, Sansoni, Longanesi), nel circo giornalistico (ha scritto per Corriere della sera, il Giornale, L’Europeo et alii). Ha tradotto tanto – da Paul Auster a Don DeLillo, da Bernard Malamud a Edith Wharton – e scritto altrettanto: una quindicina di romanzi, da Il lupo bambino (1975) in qua, a volte premiati (Gli occhi di una donna ottenne un Campiello nel 1985), spesso ben censiti (questo è Carlo Sgorlon: “Biondi ha qualcosa lui stesso dello scapigliato, dell’irregolare e del bizzarro, come scrittore, rispetto alle direttrici dominanti della moda e gli imperativi categorici della letteratura di oggi. Ha qualcosa del cane sciolto, senza collare, senza vaccinazioni regolari…”). Ha viaggiato parecchio, in luoghi non banali – e questo, per canone di desiderio e algoritmo d’ignoto me lo rende prossimo –, ha percorso il deserto di Taklamakan, il Ningxia, il Bhutan, e altri remoti. Da ragazzo andavo in giro con il ‘Meridiano’ dell’Ulisse – versione di Giulio De Angelis – sotto il braccio (c’era la spiegazione), credendo così di essere intelligente; Biondi balocca con Joyce dal 1975 (a proposito, condividiamo anche l’amore – facile, a dire il vero – per il Ritratto dell’artista da cucciolo di Dylan Thomas, “cucciolo io lo avrei tradotto giovane cane”, Biondi dixit). Secondo Biondi, il cuore dell’Ulisse – che contiene, cioè, l’immagine “più bella di tutta l’opera”, leggete sotto – è l’ultima parte dell’episodio 15. “Guarda fisso senza vedere negli occhi di Bloom e continua a leggere, a baciare, a sorridere. Ha un delicate viso color malva. Sul complete ha bottoni di diamante e rubino. Nella sinistra libera tiene un esile bastone di avorio con un fiocco viola. Un agnellino bianco fa capolino dalla tasca del suo panciotto”. Partite, anarchicamente da lì, filando il resto. Benvenuti nell’impresa, il Grand Tour del linguaggio – che l’epoca editoriale post Covid cominci sotto il segno di Joyce e del suo libro impossibile, mi pare un bel segno. (d.b.)
Come si traduce Ulisse? O meglio: con quali scoperte linguistiche è risorto dopo l’inabissamento in Joyce?
Lo si traduce mettendosi al lavoro con la consueta umiltà e con quella che dev’essere l’insopprimibile molla di ogni traduttore: il vero e proprio bisogno di svelare il più possibile i segreti di un libro scritto in una lingua straniera che si conosce. Quanto più oscuro l’autore, tanto maggiore la soddisfazione, a prescindere dalla “qualità” del testo. Penso per esempio allo straordinario piacere, quasi fisico, che ho tratto dalla convinzione di aver domato (nei limiti del possibile, naturalmente) autori fatti di filo spinato come l’australiano Peter Carey e lo scozzese Irvine Welsh, o anche il canadese Robertson Davies. In altra sede lei mi ha lodato per le traduzioni di Isaac B. Singer. La ringrazio vivamente. Lì la spinta era un’altra: cercare di trarre da un linguaggio semplice, apparentemente dimesso, tutto il mistero della cultura yiddish, che da lui ho cercato di apprendere, almeno nei fondamenti. L’ho già detto qua e là: «Da ogni libro che ho tradotto ho imparato almeno qualcosa (e spesso moltissimo)…». Joyce non fa naturalmente eccezione, ma, anche se nessun critico mi sembra se ne sia accorto, qualche flebile traccia nei miei libri la si può trovare da ben prima che mi venisse in mente di tradurlo sul serio.
Ulisse è un monolite, grave, anche, di tutte le interpretazioni che da un secolo in qua lo affliggono. Lei come suggerisce di leggerlo? Meglio: qual è il capitolo che alla rilettura lo ha sorpreso, il brano formidabile, il brandello memorabile?
Non so francamente come lo si debba leggere. Ciascuno lo faccia con il suo bagaglio di cultura e curiosità. Non esagerando, però, con il putiferio cultural-mediatico che gli è stato impecettato addosso. Io l’ho letto su un arco di sessant’anni (in 4 edizioni diverse, comperate qua e là tra UK e USA, più il testo elettronico Gutenberg), facendo una fatica agli inizi grandissima e poi via via sempre più appagante. Devo però ammettere di aver cominciato a capirlo sul serio quando mi sono deciso a leggere anche un bel po’ della miriade di commenti, saggi, postille e interpretazioni testuali e personali: il prezioso libro del fratello Stan, per esempio. Senza di essi la mia traduzione non ci sarebbe. Il brano che mi è piaciuto di più? L’ho scritto anche in una nota nella mia traduzione: le righe finali della Parte II (Episodio 15), l’incontro onirico cabbalistico di Bloom con il figlioletto Rudy, divenuto undicenne nell’apparizione ma nella realtà del romanzo morto appena nato.
Lei è un grande viaggiatore: si è messo a tradurre un tomo localizzato in una singola, per quanto singolare, città. Non ha sofferto di claustrofobia?
Assolutamente no. Nell’Ulisse si viaggia in un universo infinito. E tra l’altro a Dublino io sono stato una sola volta, nel 1974. A tradurre il libro, nel mio tentativo finale, ci ho messo un po’ più di tre anni. Negli intervalli “di riflessione” che mi imponevo mettevo la testa in folle andando a respirare l’aria pulitissima del Tibet centro occidentale o ad ascoltare le voci pulitissime dei monacelli laotiani (buddisti theravada) che cantavano la preghiera della sera sulla riva del Mekong. Non però le preghiere dei buddisti tibetani vajaryana a me carissimi: troppo cupe, gonfie del loro panico magico-ancestrale, mi riempiono di inquietudine. Non sto facendo esotismo turistico estetizzante o retorica, mi creda, e la religione non c’entra niente: stavo bene, tornavo a casa con la testa pulita, un’energia tutta nuova. Chissà quando potrò tornare là. Probabilmente mai.
Come si è rapportato con le precedenti traduzioni di Ulisse: le ha lette, analizzate, ignorate?
Sono lavori di grande importanza, per i quali non posso che nutrire la massima ammirazione. So ormai per esperienza che cosa vuol dire un impegno simile: una vera e propria professione. Ma non li ho mai letti, e per favore non sembri un atteggiamento presuntuoso, perché non vuole affatto esserlo. Io sono un traduttore dalla lingua inglese, figlio di un uomo che è stato londinese fino ai sedici anni e che è vissuto “in inglese” fino alla fine dei suoi novant’anni. I libri in quella lingua li ho sempre letti in originale, fin dai tempi dell’Ultimo dei mohicani e del Piccolo Lord, presi a 10/11 anni dalla bibliotechina che il papà si era portato in Italia dopo la disintegrazione della sua famiglia a Londra.
Passo a lei. Mi dica: il viaggio che la ha cambiato la vita; il libro che l’ha convinta a scrivere; lo scrittore che le è piaciuto di più tradurre.
1. La prima volta (1968) che sono andato nella mirabile Istanbul di quell’epoca e poi in Cappadocia e sulla costa turca dell’Egeo (il tempio di Apollo a Didima!)
2. Non so precisamente perché, ma o Conversazione in Sicilia di Vittorini o La luna e i falò di Pavese, a quindici anni.
3. Senza ombra di dubbio Isaac B. Singer: La morte di Matusalemme.
Tra i tanti, ha tradotto molto William Golding, compreso un libro, The Scorpion God, non ancora pubblicato in Italia. Golding mi pare un grande autore, ridotto al solo romanzo che tutti conosciamo. Le chiedo una breve riflessione sulla ‘fama’ in ambito letterario.
Golding era un personaggio fantastico. Quando l’ho ricevuto e assistito a Milano come ufficio stampa della Longanesi per la pubblicazione di Riti di passaggio abbiamo fatto ore piccolissime di affascinante ebbrezza da whisky. Che uomo! E come mi ha accolto a Londra pochi giorni dopo aver ricevuto il Nobel! Persino più grande come affabulatore che come scrittore, credo. Quasi impossibile da tradurre, e in Italia temo che lo abbiamo servito molto male; io, perlomeno. La fama viene e se ne va in base a suoi capricci inesplicabili: «…da tante cose dipende la celebrità de’ libri…» (Alessandro Manzoni, I promessi sposi).
E ora? Cosa sta scrivendo? Cosa sta traducendo?
Niente, rispondo a qualche graditissima intervista. E, mi creda, non è poco per uno scrittore (traduttore, lettore, consulente, factotum, autista, fattorino) che un certo dare-avere-saldo editoriale aveva dato per spacciato già qualche anno fa. D’altra parte, però, sono abbastanza vecchio per riposare un po’: «troppo vecchio per tutta questa baldoria», come dice più o meno proprio il Matusalemme di cui sopra.