Pierre Duverger (1920-1992), attore e commediante in perenne ricerca di una parte, conobbe Céline a Saint-Malo nel 1943. Nacque così una profonda amicizia (Céline lo aiuterà a evitare l’STO, il Servizio di lavoro obbligatorio, e ad entrare nella Organizzazione Todt), che proseguì nel dopoguerra e negli anni dell’esilio céliniano a Meudon, tanto da essere uno dei quattro intimi, con Marcel Aymé, Robert Poulet e Jean Bonvilliers, a vegliare la salma di Céline prima del suo funerale. Duverger, che raccolse alcune tra le più significative conversazioni con Céline, come quella che presentiamo qui di seguito, contribuì a diffonderne le opere ristampando clandestinamente i suoi “pamphlet”, e fu autore con la sua Leica M3 di una straordinaria serie di 71 fotografie a colori ritraenti Céline a Meudon nel luglio 1960.
– Ci parli del dottor Destouches.
Pierre Duverger era stato, con Marcel Aymé, uno degli ultimi amici di Céline. Céline aveva dunque avuto degli amici.
– Non mi piace molto parlare di qualcuno che rimpiango. Ma non rispondervi sarebbe mancare alle leggi dell’ospitalità.
– Sono io che vi ho mancato. Non rispondetemi.
Duverger mi rispose appena dopo.
– Lo incontrai per la prima volta, iniziò, nel 1943. Fu a Saint-Malo, al mercato del pesce. Dei capelli lunghi. Ma non per snobismo, a quell’epoca! Un bel viso magro, marcato di grandi rughe, le rughe di un uomo infelice. Indossava una curiosa veste, come non ne avevo mai viste, una veste che non si chiudeva! Si vedeva la cordicella che teneva su i pantaloni.
L’avevo già visto, ma non gli avevo parlato. Fu a Montmartre. Montmartre, la casa di entrambi. Dopo, quando lo conobbi meglio, mi mostrò una sua foto dove era irriconoscibile. In divisa da corazziere. Destouches, sissignore, era stato corazziere nel ’14. Non c’è nulla di straordinario che sia stato corazziere, mi direte, e che sarà stato mobilitato. Quello che è straordinario, invece, era la sua fierezza di esserlo stato. […]
A Saint-Malo abitava di fianco al Casinò. Ci andava tutti i giorni, o quasi. Mi raccontava delle cose, delle cose… Cose che spesso non capivo: “Il mondo se ne è partito – profetizzava – in delle guerre feroci, di più in più feroci. E mica ancora finite. Adesso, è la guerra civile tra Bianchi. Dopo, sarà la guerra tra razze… la vera, la definitiva”.
Oggi lo comprendo, Louis-Ferdinand. I visionari, i profeti, li si capisce solo dopo. […]
Céline aveva un cuore straordinario. Acquistava al mercato nero delle tessere annonarie, e le distribuiva a dei poveracci. Ma ciò l’intimidiva, l’essere buono. Smetteva di essere “vecchia Francia” e dissimulava la sua bontà dietro un tono burbero e anche dietro delle volgarità… raramente.
Non lo rincontrai che dopo Sigmaringen, dopo la Danimarca. I suoi anni da braccato, la sua detenzione avevano rovinato la sua carcassa. Era consumato. L’odio non la finiva più con lui, lo perseguitava. Lo vedeva dappertutto, anche dove non ve ne era. “Ho tentato di dire ai francesi di non andare di là, d’andare piuttosto di qua… Guardatemi. In che stato m’hanno ridotto!”
Si ritirò nella sua solitudine con la sua compagna. I suoi amici, erano dei cani, dei gatti, degli uccelli. I suoi amici d’una volta, si erano fatti sempre più rari.
Medico, non esercitava più, o a malapena. Non aveva automobile. I clienti non venivano da lui.
Non lasciava quasi più casa. Dalla collina di Meudon, scrutava Parigi e, entrando in una sorta di trance, indicava da quale porta della città sarebbero entrati i cinesi, indicandola con sicurezza.
“La Rivoluzione, Duverger – ripeteva – noi la vediamo compiersi ogni giorno. La sola, la vera, è il bracciante negro che si monta la piccola servetta bretone. Tra qualche generazione, la Francia sarà completamente meticciata, e le nostre parole non vorranno più dire nulla. Che piaccia o no, l’uomo bianco è morto a Stalingrado”.
Vi ho parlato di Céline come di un “visionario”. Mi chiedo se io non abbia detto una scemata colossale. Il visionario è quello dalle percezioni extrasensoriali, una pastorella mistica, un papa in punto di morte, il vicario inquieto all’idea di essere presto faccia a faccia con Dio. Lui, era tutt’altra cosa. Non riceveva alcuna luce dall’alto, lui. Era lucido senza luce, senza aspettare la morte, senza temerla, spaventosamente lucido di questo mondo orrendo, come se avesse avuto un sesto senso che gli facesse percepire, meglio di chiunque altro, quello che c’era sotto all’apparenza delle cose.
Céline? La lucidità del nostro orrore.
*Intervista tratta da: Louis-Ferdinand Céline, Un profeta dell’Apocalisse. Scritti, interviste, lettere e testimonianze, a cura di Andrea Lombardi, prefazione di Stenio Solinas, Bietti 2018; le fotografie di Céline sono di Pierre Duverger