«Lui è il Fellini da giovane? Ma non lo potevo fare io? Finché mi reggo in piedi…» (Marcello Mastroianni in Intervista)
Non esiste forse discorso su Federico Fellini che non intercetti, anche incidentalmente, la figura di Marcello Mastroianni. E viceversa. Quello tra il regista riminese e il suo cosiddetto alter ego cinematografico è stato ed è tuttora un legame indissolubile, che si è manifestato più e più volte nel corso dell’intera carriera di entrambi, e che non ha cessato di esistere anche in seguito alla loro scomparsa. Non sorprende che nel dicembre 1996, all’indomani della morte di Mastroianni, la città di Roma abbia scelto di commemorare l’attore ammutolendo per qualche istante lo scrosciare dell’acqua della Fontana di Trevi. L’ultimo e definitivo incontro tra Mastroianni e il mondo felliniano si esauriva proprio lì, dove tutto ebbe idealmente inizio.
Il sodalizio tra i due, come è noto, nasce con La dolce vita (1960) e prosegue con 8 ½ (1963), La città delle donne (1980) e Ginger e Fred (1986), cui si aggiungono due operazioni pseudo-documentarie come Block-notes di un regista (1969) e Intervista (1987). Osservare il legame tra regista e attore con uno sguardo retrospettivo significa considerare anche una serie di ricorrenze che accomunano i personaggi portati in scena da Mastroianni sotto la guida di Fellini, ma significa altresì ragionare sulla creazione e sullo smembramento di un mito: quello del latin lover «con la giacca a V dai bottoni d’oro» nato con La dolce vita. La complicità tra attore e regista sembra quindi emergere anche dal comune intento di demolire questa precisa immagine – o meglio di riproporla, nel corso degli anni, in termini sempre più caricaturali.
Il Mastroianni felliniano è essenzialmente uno: è lo Snaporaz di La città delle donne (1980), è il latin lover dai tratti fumettistici che emerge già in nuce in 8 ½; è l’attore che si dice «a little tired about this story of the latin lover» e che gioca con la propria immagine divistica dinnanzi ad una folla di turiste americane adoranti in Block-notes di un regista; è il Mandrake di Frosinone, il Fred Astaire attempato e stempiato di Ginger e Fred.
Certo, per ragionare sulla nascita e sulle radici di Snaporaz – un personaggio che, spiegava Mastroianni, «è un po’ Fellini, un po’ Mastroianni, un po’ tanti altri uomini» – non si può che partire dalle origini e da La dolce vita. Del resto, soltanto un film come quello felliniano, già popolare e conosciuto prima ancora di uscire in sala, «capace», ha scritto Antonio Costa, «di evocare Italia e italianità ancor più e ancor meglio della pizza, degli spaghetti e della camorra», poteva creare e alimentare un tale immaginario e incidere così profondamente sulla costruzione divistica di un attore come Marcello Mastroianni.
La lavorazione stessa del film viene ricordata da molti come un’esperienza unica, totale, «la più avanzata e la più divertente che ci potesse essere», secondo Tullio Kezich. Per chi è stato sul set della Dolce Vita «è stato come aver fatto il liceo o il militare insieme», e non stupisce dunque che questa esperienza abbia creato dei legami indissolubili tra i protagonisti e non solo. Così come non stupisce che il cinema italiano, quello coevo all’uscita dell’opera felliniana così come quello contemporaneo, sia costellato di omaggi o nostalgiche e malinconiche “rimpatriate” volte a ricostruire, su grande schermo, quella speciale sinergia creatasi sul set. Tra i più assidui frequentatori e celebratori dell’universo felliniano compare senz’altro Ettore Scola; lo testimonia in anni recenti anche il film Che strano chiamarsi Federico (2013), ultima opera del regista, che omaggia Fellini a vent’anni dalla scomparsa e che ricostruisce, tra le numerose vicende, le ipotetiche scorrazzate notturne di un gioviale terzetto Mastroianni-Fellini-Scola, dipinti nel film come tre vitelloni in trasferta sulle spiagge di Fregene.
Ma Scola aveva radunato il trio ben prima delle oniriche reminiscenze del suo ultimo film. In C’eravamo tanto amati (1974), infatti, i protagonisti Nino Manfredi e Stefania Sandrelli si incontrano dopo molti anni e svariate vicissitudini proprio sul set della Dolce vita allestito attorno alla fontana di Trevi; un set ricostruito con una certa precisione filologica e animato, tra gli altri, da Mastroianni e Fellini, entrambi chiamati da Scola a reinterpretare loro stessi a circa quattordici anni di distanza dalle effettive riprese del film. In questa sequenza Mastroianni viene inquadrato di sfuggita, il suo viso è coperto da occhiali da sole dalla montatura ingombrante (proprio gli stessi Persol indossati nella Dolce vita, ora però utilizzati per mascherare i naturali segni del tempo), a stento udiamo la sua voce, sovrastata ora dallo scrosciare dell’acqua della fontana, ora dalle voci della folla accalcatasi tutt’intorno. Le poche battute pronunciate da Mastroianni, per larga parte incomprensibili, sono indirizzate a Luciana (Sandrelli) e a una fan piuttosto insistente che richiede invano al divo di scoprirsi il volto: «Signor Mastroianni si tolga gli occhiali, voglio vederla negli occhi».
In C’eravamo tanto amati il riferimento all’opera felliniana è certamente funzionale alla ricostruzione di un’atmosfera e di un preciso periodo storico. Andrea Minuz ricorda che il film esce nelle sale nel 1974, quasi un anno prima della definitiva «canonizzazione televisiva» e del decisivo «addomesticamento» della Dolce vita. Il primo passaggio del film sulla rete Nazionale segnerà, secondo Minuz, una tappa fondamentale nel processo di ricezione dell’opera stessa, destinata da lì in poi a rassomigliare sempre più a una cartolina, a un «marchio glamour, sinonimo di eleganza e frivolezza».
Anche la presenza di Mastroianni sembra inserirsi a pieno titolo nell’ottica “nostalgica” suggerita dal film di Scola: lo spettatore ammira Mastroianni con lo stesso sguardo con cui osserva l’Italia a colori degli anni del boom economico. In un film puntellato e scandito cronologicamente da elementi volti a richiamare un’idea di italianità (dal Neorealismo di Vittorio De Sica alla Liberazione, dal Mike Bongiorno di Lascia o raddoppia? al cineforum, dalle “mezze porzioni abbondanti” alla speculazione edilizia), ecco che anche Mastroianni, Fellini e La dolce vita stessa finiscono col partecipare attivamente alla costruzione della storia culturale italiana.
Avvolti dall’effetto flou – giustamente indicato da Emiliano Morreale come «una delle figure retoriche del “cinema della nostalgia” degli anni Settanta» – i ricordi a colori di Scola anticipano in un certo senso la dicotomia «souvenir/fossile», di cui parlerà Jacqueline Reich a proposito di due film del tardo Fellini come Ginger e Fred (1986) e Intervista (1987). Il caso di Intervista è forse il più interessante «viaggio intertestuale» messo in atto da Fellini e Mastroianni, ma anche una tra le più toccanti e malinconiche “rimpatriate” cui si accennava poc’anzi; un film che allo «spettacolo delle macerie» sostituisce le macerie dello spettacolo (come avviene nello stesso Ginger e Fred) e che fa scontrare, senza mezzi termini, immagini del passato e corpi del presente.
Divo ormai sul viale del tramonto, costretto a prestare il proprio volto a spot pubblicitari di prodotti smacchianti, in Intervista Mastroianni indossa nuovamente i panni del «Mandrake di Frosinone», apparso per la prima volta sulle pagine di uno speciale di “Vogue” del dicembre 1972, curato dallo stesso Fellini. E nel film è proprio Mandrake/Mastroianni, al fianco di una giunonica Anita Ekberg, a far apparire il passato con un semplice colpo di bacchetta: è sufficiente una formula magica (“Bacchetta di Mandrake il mio ordine è immediato: fai tornare i bei tempi del passato”) perché improvvisamente, su un telo bianco, compaiano le ombre cinesi ancestrali di Ekberg e Mastroianni, dalle quali prendono vita le immagini de La dolce vita. In sottofondo, le musiche di Nicola Piovani si rifanno esplicitamente a quelle composte da Nino Rota, mentre la voce ormai roca di Mastroianni reinventa e doppia con esiti insoliti le battute recitate da Marcello Rubini.
Tutto, nella sequenza, ruota attorno all’evidente decadimento fisico dei due divi; le battute tra Ekberg e Mastroianni si soffermano sui presunti lifting dell’uno o sull’aria da “gladiatore” dell’altra, ma la nostalgia per i tempi andati e lo sconforto lasciano presto il posto a quell’idea di un passato che in fondo è anche, come ricorda ancora Morreale, «caricatura di se stesso e […] del presente». In Intervista siamo in sostanza all’interno di un tempo sospeso, in cui l’impotenza e la disfunzione erettile possono essere facilmente risolti, ancora una volta, grazie a una filastrocca come quella pronunciata da Mastroianni/Mandrake al momento della sua entrata in scena: «Problemi sessuali? Niente paura c’è Mandrake. Con due colpi di bacchetta la tua fava torna eretta».
Siamo evidentemente molto lontani, almeno da un punto di vista cronologico, dagli anni del Bell’Antonio diretto da Mauro Bolognini nel 1960; ma non siamo forse troppo distanti da quell’idea di mascolinità deficitaria che, in fin dei conti, ha caratterizzato le interpretazioni dell’attore fin dagli albori. Già poco dopo l’uscita della Dolce vita, infatti, Pietro Germi offre a Mastroianni la possibilità di dismettere momentaneamente i panni del latin lover e indossare quelli del barone Cefalù, protagonista di Divorzio all’italiana (1961); un personaggio, quello del barone, che sovverte apertamente i tratti tipici del latin lover à la Marcello Rubini e punta a far emergere, in chiave comica, tutta l’inettitudine del cosiddetto “gallo”. Il paragone tra i due ruoli interpretati da Mastroianni non è legato unicamente all’estrema vicinanza, in termini temporali, tra le due pellicole; come è risaputo, infatti, l’opera di Fellini viene astutamente omaggiata da Germi all’interno di Divorzio all’italiana, ed è lo stesso barone a introdurre e a descrivere quel «film sensazionale» giunto finalmente in paese, preceduto da un «gran rumore di scandalo, da echi di polemiche, proteste, anatemi ed osanna».
Nel libro-intervista di Charlotte Chandler, Fellini definisce l’amico Mastroianni non tanto un alter-ego vero e proprio, quanto piuttosto un «contorsionista», in grado di adattarsi perfettamente alle esigenze e alla volontà del regista; mentre nelle conversazioni raccolte da Giovanni Grazzini, lo descrive così:
delicato, disponibile, intelligente, entra nei personaggi in punta di piedi, senza chiederti mai nulla, senza nemmeno aver letto il copione […]. Si lascia truccare, vestire, pettinare senza fare obiezioni, domandando soltanto le cose strettamente indispensabili; con lui è tutto morbido, pacato, disteso, naturale, una tale naturalezza che gli può permettere a volte di dormire durante le riprese dove lui è in scena, magari in primo piano.
Nelle parole di Fellini emerge insomma quella che lo scrittore Tommaso Pincio ha recentemente definito «l’aristocratica mollezza» di Mastroianni, quell’eleganza e indolenza che del resto è caratteristica essenziale anche del personaggio della Dolce vita. Il reporter con occhiali scuri e sigaretta in bocca, l’amatore e conquistatore che batte i locali notturni: un’immagine che Mastroianni stesso tentò fin da subito, per quanto inutilmente, di demolire.
Nota bibliografica
Franca Faldini, Goffredo Fofi (a cura di), L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti 1960-1969, Feltrinelli, Milano 1981
Id., Il cinema italiano d’oggi 1970-1984 raccontato dai suoi protagonisti, Mondadori, Milano 1984
Marcello Mastroianni, Mi ricordo, sì, io mi ricordo, a cura di Francesco Tatò, Baldini & Castoldi, Milano 1997 (volume tratto dal film omonimo di Anna Maria Tatò)
Jacqueline Reich, Beyond the Latin Lover: Marcello Mastroianni, Masculinity, and Italian Cinema, Indiana University Press, Bloomington 2004
Emiliano Morreale, L’invenzione della nostalgia. Il vintage nel cinema italiano e dintorni, Donzelli, Roma 2009
Antonio Costa, Federico Fellini. La dolce vita, Lindau, Torino 2010
Andrea Minuz, Viaggio al termine dell’Italia. Fellini politico, Rubbettino, Soveria Mannelli 2012
Tommaso Pincio, Pulp Roma, Il Saggiatore, Milano 2012
Charlotte Chandler, Io, Federico Fellini, Milano, Rizzoli 2020 (ed. or. 1995)
Federico Fellini, Intervista sul cinema, a cura di Giovanni Grazzini, Laterza, Roma-Bari 1983 (nuova edizione: Sul cinema, Il Saggiatore, Milano 2020, con uno scritto di Filippo Tuena).