Abbiamo visto L’intervallo regia d Leonardo Di Costanzo.
A cosa servono i Festival del Cinema oggi? Tolti i tappeti rossi, qualche festa con i divi, qualche intervista con attori e produttori e, in Italia, seguire per qualche giorno la polemica di qualche anziano regista che si lamenta per non aver vinto un premio meritato, ma all’unica sana necessità: far vedere qualche piccolo film che altrimenti non avrebbe alcun lancio e forse
distribuzione nelle sale e riuscire a far vedere alcuni bel film asiatici o africani che sono diventato l’unico sale filmico possibile. Tutto il resto è chiacchiericcio vaniloquioso, un trionfo di conformismo corretto. E il Festival del Cinema di Venezia ha rispettato questa mission e ha tradito tutti coloro che si riempiono la bocca del glamour di festival come quello di Cannes e affini.
Questo piccolo e delicato film, passato nella rassegna Orizzonti, sceglie di raccontare una storia non storia, ambientarla in un luogo non luogo e decide di rendere minimalista una situazione e un contesto che potrebbe essere tutt’altro, quasi da tragedia greca. Utilizza due sceneggiatori delle nuove leve come Maurizio Braucci (Gomorra e Reality) e Mariangela Barbanente (L’Orchestra di Piazza Vittorio), si serve di uno dei migliori direttori della fotografia come Luca Bigazzi (vincitore di ben sei David di Donatello, per Lamerica, Romanzo criminale, Il divo, tra i vari) che usa la macchina a mano, qualche timido piano sequenza e luce non artificiale, e sceglie un impianto linguistico naturalistico facendo parlare i due protagonisti in lingua napoletana di oggi (ci sono i sottotitoli ma non per tutto il film). C’è da segnalare anche il luogo dell’azione che diventa parte fondante della storia e non solo scenografia, l’ex ospedale psichiatrico: un luogo da fine del mondo, lugubre al punto giusto e potenzialmente creatore di tanti possibili sviluppi narrativi che un certo cinema indipendente americano avrebbe utilizzato con maggiore forza fantastica.
La storia è ambientata nell’estrema periferia di Napoli, tra palazzoni fatiscenti e angoli infestati da topi. Dove la camorra domina con personaggi senza alcun carisma ma con un senso della violenza naturale. Lui si chiama Salvatore (il debuttante Alessio Gallo), ha diciassette anni, è soprannominato “O scemo” e “O chiattone” (il grassone), è orfano di madre e lavora con il padre vendendo granite di limone con un suo carretto. Lei si chiama Veronica (la debuttante Francesca Riso), è ‘na guagnuncella di quindici anni, graziosa, dal carattere fiero e dalla vita già un po’ disgraziata. Si incontrano in un luogo fatiscente e vengono ‘chiusi dentro’: lui è obbligato da qualche camorrista a sorvegliarla e lei deve essere controllata per un mattino perché forse ha fatto uno sbaglio e forse dovrà essere punita. Due giovani adolescenti senza arte né parte, senza grandi sogni (lui vorrebbe fare il cuoco, ma non sa da dove iniziare, lei nemmeno questo), senza speranze e forse nemmeno con un futuro certo. In questa giornata, questi due ‘uccelli’ di gabbia che potrebbero anche scappare dal loro destino ma che come gli uccelli chiusi non sopravvivono al volo, si incontrano, si scontrano – sarà lei più decisa e aggressiva a provocare lui, un vero bonaccione remissivo e senza carattere -, si accettano con il passare delle ore mentre in cielo passano gli aerei che partono e atterrano a Capodichino, una specie di invito alla fuga e alla possibilità di volare: ma per andare dove? Sono cresciuti senza ali e senza speranze. Rinchiusi tra le mura diroccate dell’ex ospedale psichiatrico passano il tempo tra corridoi con i topi, sottoscala allagati e un bosco che è un invito a lasciarsi alle spalle le macerie di vite senza valore. Ma poi scende la sera e viene Bernardino ‘o camurrista, non uno con la faccia da criminale, ma un altro essere senza qualità che ricorda fisicamente un po’ don Raffaele Cutolo da giovane, corpo macilento, bassino, con gli occhiali, e la sicurezza di un uomo senza alcuno scrupolo e senza un lungo futuro. E così nel finale non cruento ma sicuramente senza alcuna speranza, tutti tornano da dove sono venuti. Tutti attori di una rappresentazione che chissà chi ha creato.
Una buona opera prima, dove narrativamente ci si discosta dalla retorica dei criminali pazzi o simpatici, l’autore sembra quasi dirci che nessuno dei protagonisti ha scelto di essere quello che è ma lo ha solo subito e accettato. Ben diretto – anche se parte un po’ lento, ma questa è la maledizione del Cinema italiano che vuole essere ‘corretto’ – ottimamente fotografato ed anche il montaggio è da segnalare. Quello che ci è sembrato un difetto è il bisogno degli autori di seguire una coerenza fino in fondo lasciando un qualcosa di ‘fantastico’ per strada che avrebbe migliorato l’evoluzione della storia, come ad esempio quando i due ragazzini sono nel bosco e perdono per qualche minuto il peso del mondo e escono dalla loro realtà per lasciarsi andare a quella leggerezza di cui avrebbero tanto bisogno.