Abbiamo visto Sister (L’Enfant d’en haut) regia di Ursula Meier.
Il Cinema svizzero oggi non ha molta fortuna, nemmeno nei festival. E’ un cinema marginale, poco conosciuto dal pubblico e schiacciato tra costi alti di produzione e influenze dei Cinema di confine (quello tedesco, italiano e soprattutto francese). Negli Anni Settanta alcuni registi riuscirono a produrre dei film importanti e anche amati dal pubblico europeo dell’epoca. Possiamo ricordare Claude Goretta (L’invito; La merlettaia con una giovane ma già bravissima Isabelle Huppert; La morte di Matteo Ricci con il nostro Gian Maria Volontè), Alain Tanner – anche lui nato nel 1929 – (Jonas che avrà venticinque anni nel 2000, film mito degli Anni Settanta, con una giovane e deliziosa Miou Miou e con il grande Jean-Luc Bideau; Gli anni Luce, Gran Premio Speciale della Giuria a Cannes; Terra di Nessuno),
e non possiamo non ricordare il drammatico e importante La barca è piena diretto da Markus Imhoof e giunto in Italia nel 1981 o Bankomatt di Villi Hermann con l’immenso attore svizzero Bruno Ganz e un cast tecnico e d’attori italiano. Ma il maggiore successo svizzero è stato Die Schweizermacher (I fabbrica svizzeri) di Rolf Lyssy, girato nel 1978, mentre buon successo ha ottenuto la commedia noir Beresina e gli ultimi giorni della Svizzera di Daniel Schmid uscito nel 1999. Uno dei film più conosciuti è Höhenfeuer, di Fredi Murer. Mentre Les Petites Fugues del 1979 è stato eletto miglior film svizzero di tutti i tempi.
Adesso giunge in Italia (era già uscito in giugno ma è stato riprogrammato in questi giorni) Sister – Orso d’Argento al Festival di Berlino 2012 – della regista quarantenne Ursula Meier, alla sua opera seconda dopo Home del 2008, una parabola sulla difficoltà di trovare il proprio posto nel mondo, e una serie di cortometraggi di successo. Sister è un film che mostra troppi debiti narrativi con il Cinema della purezza e della castità del Dogma 95 e ancora di più, in particolar modo, col cinema de fratelli Dardenne da cui ha imparato la tecnica senza trovare una via propria originale e non mostrando alcuna discontinuità narrativa.
La storia è ambientata sulle Alpi svizzere nella stagione sciistica. Un ragazzetto dodicenne di nome Simon (un bravo e convincente Kacey Mottet Klein, al suo terzo film) vive nelle case popolari in una vallata industriale e sottoproletaria, non va a scuola e passa il tempo da solo sui campi di sci a rubare tutto quello che può prendere, guanti, sci, cappellini e giubbotti, per poi rivenderli e così poter comprare da mangiare e vivere: si è così professionalizzato che ruba anche su commissione attrezzature di marca. Perché Simon non ha più i genitori (ma sarà così?) e vive con una sorella più grande Louise (la brava e carina Léa Seydoux, modella e attrice di registi come Garrel, Tarantino, Gitai, Ruiz, tra i tanti), una giovane donna con poca voglia di lavorare, con tanti uomini che le girano intorno e spesso assente da casa. Una ragazza silenziosa quasi borderline che si lascia trascinare dalla vita. La storia procede orizzontale, senza particolari sorprese, tra momenti d’affetto tra i due fratelli, litigi e il bisogno d’affetto che cerca il ragazzetto con madri borghesi che sciano e con un cameriere che diventa quasi un suo complice nel ricettare oggetti rubati. Bella e drammatica la scena in cui Simon paga la sorella perché vuole dormire abbracciato a lei e dura quella in cui si inventa (?) davanti a un fidanzato della ragazza meno coatto di altri che lui non è il fratellino ma è suo figlio, facendoli così separare.
Il film è una storia di frontiera, di limite ultimo, una funivia mette in contatto il fondovalle povero e desolato con i campi di sci innevati e con le belle giornate che riscaldano i ricchi borghesi in vacanza; una casa tiene assieme due fratelli sbandati che altrimenti si perderebbero nella solitudine; i rapporti umani che di umano hanno solo l’apparenza e l’egoismo. Insomma una ricerca e una consapevolezza che i sentimenti sono alienati e dolorosi. Questa crediamo sia l’intenzione narrativa della Meier, ma il film non va oltre una cronaca naturalistica di fatti che si ripetono nella secchezza stilistica e nel taglio di montaggio. Narrativamente corre parallelo e sulla falsa riga di un film dei fratelli Dardenne o del Loach degli anni novanta, cercando di coniugare durezza, poesia e sguardo oggettivo, ma senza trovare una propria originalità e forse anche finalità, cadendo a volte in un compiaciuto estetismo.