La bozza incompiuta de Il Castello, il terzo e ultimo romanzo di Franz Kafka, si conclude a metà di una frase. Tuttavia, non è sempre stato così. Infatti, Max Brod, amico ed esecutore testamentario di Kafka, curò la prima edizione del ’26, ma pensò di “presentare, in una forma accessibile, un’opera anticonformista e disturbante, non ancora terminata: ogni sforzo era atto all’esclusione di qualsiasi elemento che avrebbe enfatizzato la sua natura frammentaria”. Con questo obiettivo, Brod ridusse di quattro quinti il romanzo in fase di revisione. Alla fine, Brod tornò sui suoi passi e nella seconda edizione ripristinò quasi interamente il lavoro dell’amico. Sfortunatamente, in quel periodo, tutta l’opera letteraria di Kafka finì nella lista nera del Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori e così quell’edizione, di certo più fedele, non raggiunse mai il grande pubblico, almeno non fino alla caduta del Reich. Intanto però, al di fuori della Germania, gli affezionati di Kafka crescevano grazie alle traduzioni di Willa ed Edwin Muir, basate sull’edizione originale de Il Castello, che presentava il romanzo come un’opera completa e non come un insieme di frammenti.
Lo stato in cui Kafka ha abbandonato Il Castello è rappresentativo di tutta la sua opera. Nella sua vita, ha pubblicato qualche testo su periodici, una raccolta di racconti e ne aveva preparata un’altra che venne pubblicata postuma. Lasciò incompleta la stragrande maggioranza del suo lavoro con un biglietto in cui implorava Brod di bruciare ogni parola che avesse scritto. Brod però, si rifiutò di adempiere alle ultime volontà di Kafka e approcciò gli scritti incompiuti come fece con Il Castello, rimaneggiando e omettendo.
Nei decenni successivi, generazioni di accademici e traduttori hanno contestato il “Kafka” raffinato ideato da Brod. La centralità della frammentazione nel lavoro di Kafka era chiara almeno dal 1949, quando Maurice Blanchot affermò che “tutte le principali storie di Kafka sono frammenti, e la totalità del suo lavoro è propriamente un frammento”. Ma questa versione, negli ultimi vent’anni, ha preso piede nel mondo anglofono: per esempio, con le traduzioni di Harman de Il Castello, o anche quella de Il Processo di Breon Mitchell. Anche Michael Hofmann, traduttore e poeta, è un sostenitore del Kafka più grezzo e nel 2004 decise di intitolare la sua traduzione Amerika o Il disperso, trovando un compromesso fra il titolo originale scelto dall’autore e quello invece con cui era stato presentato al pubblico scelto da Brod.
The Lost Writings (letteralmente: Gli Scritti Perduti) raccoglie 74 frammenti – di cui alcuni più lunghi di due facciate e molti inconclusi – dello scrittore boemo curati da Reiner Stach, autore della definitiva biografia in tre volumi di Kafka. Nella postfazione, Stach sostiene che “la fragile e frammentaria qualità” dell’opera di Kafka è stata tanto influente da “farci prendere seriamente il frammento letterario”. Infatti, la gran parte dei lavori di Kafka sono rimasi nascosti: quasi mai tradotti o stampati, a mala pena letti, e quindi, anche se non completamente assenti, “persi”. La tesi di Stach, tuttavia, è assai pretenziosa e ignora la maggior parte della storia della letteratura: da Saffo e Virgilio, fino alla saggistica modernista con Kierkegaard e, quasi un secolo prima che Kafka nascesse, con Friedrich Schlegel, il quale scherzava sul fatto che “molte opere antiche si sono ridotte a frammenti. Molte opere contemporanee sono frammenti già nel momento in cui vengono scritte”. Tuttavia, è innegabile l’essenzialità di Kafka per l’apprezzamento del “frammento” da parte dei modernisti e dei postmodernisti. Data la spiacevole oscurità di molti dei testi più frammentari, il compito di Stach e Hofmann è di primo rilievo: far emergere una selezione di questi pezzi da quella che Stach stesso definisce la “gigantesca base” dell’“iceberg”, ossia l’opera di Kafka.
Sebbene Stach non rinneghi alcune istanze “brodiane” – “la selezione cerca soprattutto di essere accessibile” e di presentare “testi leggibili e fortemente avvicinabili,” scrive – The Lost Writings rinuncia a ogni infrastruttura organizzativa che possa orientare il lettore; siano i titoli, i paragrafi o l’indice. Infatti, oltre alla selezione degli scritti di Kafka e alla postfazione, c’è solo un indice in cui è elencata la prima riga di ogni testo. Un approccio minimalista che getta il fruitore immediatamente nel mondo di Kafka.
I vari testi potrebbero essere suddivisi in gemme e schegge: le prime complete, le seconde interrotte, ma tutte dotate del proprio peculiare tipo di oscurità. All’interno di questo schema, il libro si apre con una gemma; le poche frasi, che costituiscono il resto del racconto, abbozzano la scena, dettagliando la complicata situazione che si presenta. C’è un narratore predato, che giace “al suolo vicino alla base di un muro mentre si contorce nell’agonia, tentando di scavare nella terra umida,” e un cacciatore di fianco a lui, che lo “schiaccia a terra appoggiandogli gentilmente il piede sulla schiena,” e poi i cani, già stanchi di giocare col narratore e “impazienti per il prossimo comando”, e infine l’autista del veicolo in cui il narratore viene caricato con “mani e gambe legati” e “la testa e le braccia che penzolano dal finestrino”.
Questa prima parabola sull’impossibilità di reagire si inserisce quasi balbettando nella successiva: un’altra gemma, la cui cornice e andamento sono completamente diversi, ma caratterizzata dalla stessa dinamica predatoria. Ora il narratore è la figura crudele e potente rappresentata prima dal cacciatore.
“Allora vuoi lasciarmi? Beh, tanto vale. Dove andrai? Dove ti sentirai lontano da me? Sulla luna? Nemmeno lì è abbastanza distante, e non ci arriverai mai. E allora perché tutta questa fatica? Non preferiresti sederti in un angolo tranquillo, da qualche parte? Un angolo caldo e buio? Non mi senti per caso? I tuoi sentimenti per la porta. Allora, dove sono? Da quel che ricordo, in questa stanza non c’è alcuna porta”.
L’assenza di uscite e le porte invalicabili sono un tema ricorrente in tutta la raccolta: la presenza inutile di un portale non fa che aumentare la sensazione di intrappolamento. In una “scheggia” invece, un branco di animali torna a casa dopo aver rubato dell’acqua da uno stagno, ma solo per essere inseguiti da aguzzini armati di frusta fino a inoltrarsi nella “galleria ancestrale, dove la porta è stata sbattuta e noi siamo stati abbandonati”. E ancora, questa volta in una “gemma”, il narratore si trova in “una stanza di dimensioni normali e illuminata appena da una luce elettrica”. “C’erano delle porte,” osserva, “ma se venivano aperte, ci si ritrovava davanti a un muro scuro fatto completamente di roccia a non più di un palmo dallo stipite, che si espandeva in alto e di lato a perdita d’occhio. Non c’era nessuna via d’uscita”.
Questa stessa soffocante frase, “nessuna via d’uscita” è presente anche in un altro testo, un dialogo fra un interlocutore senza nome e uno scimpanzè chiamato Red Peter, strappato dalla giungla natia dagli uomini, che alla fine imparerà ad imitare. Il primate è anche narratore di Una relazione per un’Accademia, uno dei pochi racconti terminati e pubblicati quando Kafka era ancora in vita. “Ho paura che non capiate cosa intendo per ‘via d’uscita’,” dice rivolgendosi ai lettori nella traduzione di Willa e Muir, lasciando dedurre che tipo di libertà repressa stia cercando. In The Lost Writings invece, un Red Peter scoraggiato racconta il momento della sua cattura, prima del quale non “sapeva cosa volesse dire: avere una via d’uscita”. Poi continua e dice di non essere stato chiuso in “una gabbia con quattro pareti di sbarre metalliche;” ma in una gabbia in cui “le pareti erano solo tre ed erano legate al petto, poiché il petto costituiva la quarta parete.” Tutto dipende dalla quarta parete. Nella cosmologia di Kafka, le pareti sono solo tre però. La cosa spaventosa è che la propria esistenza costituisce la barriera finale.
Quest’assenza di una quarta parete tormenta come un fantasma tutto The Lost Writings. L’impedimento non è espresso attraverso la situazione fisica in cui si trovava il protagonista, che non è “in una cella, poiché un lato era completamente aperto”, ma nella percezione che ha della propria situazione: l’assenza della quarta parete serve solo per accentuare il fatto che il personaggio non provi nemmeno a scappare.
In altri frangenti, Kafka descrive la struttura della sconfitta di sé stessi in altri modi. In un frammento, il narratore dice di essere misteriosamente incapace di stare con la ragazza che ama. “Era come se fosse circondata da un anello di uomini armati con le lance protese in ogni direzione,” racconta inizialmente, ma poi torna sui suoi passi e dice “anch’io ero circondato da uomini armati, ma le loro lance puntavano all’indietro, verso la mia direzione. Non appena avanzavo verso la ragazza, venivo immediatamente colpito dalle lance dei miei stessi uomini e non potevo più andare avanti”. Anche l’abnegazione di sé stessi è un tema che viene snocciolato. “So nuotare proprio come tutti gli altri,” dice il narratore per poi attorcigliarsi nel suo stesso ragionamento, “solo che sono dotato di una migliore memoria, e quindi non riesco a scordarmi di quando non sapevo nuotare. Per questo motivo, saper nuotare non mi è di nessun aiuto, quindi, in ultima analisi, non riesco a nuotare”.
Fatto salvo per qualche stralcio, i brani che compongono The Lost Writings non offrono nessun nuovo o più approfondito spunto su Kafka rispetto ai suoi scritti più estesi e familiari. Compressi e spogliati di quella complessità che distingue il Kafka canonico, questa selezione rivela la frammentarietà di tutta la sua opera, compresi i lavori meno frammentari. È incredibile come, lette una dopo l’altra, queste briciole letterarie prendano forma e inizino ad assomigliare sempre di più a La metamorfosi o a Il processo che, nonostante la maggiore coesione e il dinamismo narrativo, seguono la stessa struttura di The Lost Writings: ogni brano è una progressione episodica di situazioni disagianti, una sequenza di aspirazioni fallite, terribile e sublime. Blanchot aveva intuito quasi tutto: “Forse Kafka voleva distruggere le sue opere, visto che gli sembravano condannate a fomentare la confusione universale. Quando percepiamo il caos in cui la sua scrittura ci raggiunge: ciò che ci viene recapitato, ciò che resta nascosto, la discontinua luce che viene proiettata su questo o quel brano, le manciate di testi rimasti incompiuti e dai quali iniziare e ancor di più da suddividere… quando vediamo il suo silente lavoro invaso da opinionisti, questi libri impubblicabili che invece vengono pubblicati senza soluzione di continuità… iniziamo a chiederci se Kafka stesso non avesse previsto un disastro del genere in questo trionfo”.
Così tante borse di studio sono state assegnate per Kafka, per capire cosa fare della sua visone disperata e ferita – desiderosa di un dio assente, in lotta continua con le contraddizioni del giudaismo moderno, codarda davanti al padre o all’amante, disperata fra le viscere di una burocrazia imperscrutabile, veggente del totalitarismo – che è diventato facile dare per scontata l’austera stravaganza della sua opera, come se avessimo già capito l’esperienza di deferente impotenza che Kafka evoca. The Lost Writings turba questa sicurezza mettendoci ripetutamente e immediatamente in contatto con i dubbi personali di Kafka, che brillano in ogni ellissi fra parentesi, piazzata alla fine di ogni brano nel momento in cui l’ultima frase si interrompe. Questi segni svelano la quarta parete, in qualche modo implicita in tutti i testi di Kafka. Non (solo) i suoi personaggi, ma Kafka stesso ha bisogno di “una via d’uscita”. The Lost Writings ci aiuta a restare con lui, fra le sue invalicabili porte.
la traduzione è di Giacomo Zamagni