Commissari e carabinieri, commissarie e “carabiniere” (o carabinieresse? Chiederò alla Boldrini!), magistrati e magistrate, preti e suore… Mancano all’appello solo, da quel che so, le fiction sulla guardia di finanza, la protezione civile e le piccole sorelle dell’esercito di Gesù, e poi il quadro telenarrativo sull’argomento “eroi in divisa, toga e tonaca” potrebbe considerarsi quasi completo. Nella tv italiana c’è un gran pullulare di racconti televisivi dedicati a figure sociali familiari, a simboli istituzionali immarcescibili che in fin dei conti ci fanno stare bene e ci ricordano la nostra stessa vita: durante le processioni del santo patrono in prima fila ci sono il prete, il sindaco e i carabinieri; e poi viene il popolo. Lo stesso accade in tv.
Ma tutti questi personaggi televisivi oscillanti tra il “sacro” e il laico hanno un’importante caratteristica che li accomuna: agiscono in un’Italia che non esiste. Loro stessi non esistono, sono quasi impersonali nel loro essere al di sopra del reale; rappresentano spesso l’Italia che vorremmo. Non è un fatto nuovo: anche i personaggi di Giovannino Guareschi agivano, se le davano e si agitavano in un’Italia abbastanza irreale e perfettamente divisa in due blocchi, quello cattolico e quello comunista; sappiamo però che la realtà era molto più complessa e variegata, tragica e poco romantica. I personaggi di questi encomiabili e a volte gradevoli prodotti televisivi nostrani appartengono a un’Italia ideale e idealizzata, o forse sarebbe più corretto dire stilizzata, asciutta, semplificata per ragioni non solo di sceneggiatura (anche se in alcuni casi sarebbe più corretto parlare di scemeggiatura, dal momento che certe stilizzazioni rasentano l’offesa intellettiva dello spettatore). C’è come un bisogno, da parte di registi e produttori, di assicurare al pubblico un prodotto predigerito, di trasporre in maniera teatrale – ma su scenari non teatrali bensì realistici – una narrazione nata già semplificata dalla penna degli autori: la semplificazione della semplificazione. È chiaro che il risultato finale non può che essere un prodotto lineare, pulito, pur nella complessità delle trame e delle indagini che quelle tentano di raccontare alla voracissima casalinga di Voghera che attende le sue fiction in prima serata come un premio di fine giornata.
Fiction che di fatto hanno sdoganato (o stanno continuando a sdoganare) la provincia italiana, anzi la provincia è diventata il centro della nazione (ma solo in televisione perché politicamente e amministrativamente la provincia è da sempre abbandonata a sé stessa); in uno scenario tranquillo, quasi candido, naturale, silenzioso, scarnificato, in solitari borghi invidiabili, dove è facile ritrovare una dimensione umana ormai persa e un dialogo con l’altro (collega o criminale che sia), la provincia ritorna a essere il centro del paese e delle passioni umane, dei più inconfessabili traffici interiori dell’umanità. Il significato più intimo dell’esistenza umana passa dalla provincia, e noi che insistevamo a cercare la movida e la confusione, il senso stesso del nostro essere sociali tra un mojito e un papeete, in luoghi scontati e quindi inflazionati. Peccato, però, che quella provincia non esista, che sia solo il frutto di un processo di idealizzazione che passando, quasi sempre, dalla narrativa alla sceneggiatura televisiva, arrivi a un telespettatore bisognoso di scenari ancestrali, di schemi esistenziali primordiali, ridotti a componenti primari del quotidiano, di un mondo suddiviso con semplicità tra pochi personaggi, lontani dal bailamme sociale della realtà. Ci attacchiamo alla vita dei protagonisti ma in realtà cerchiamo l’originalità perduta della nostra esistenza, i suoi quattro elementi. Ad andare in scena, nel corso di queste fiction, non sono le persone, anche se vediamo e in seguito ricordiamo i volti dei nostri attori preferiti che diventano “di famiglia”, bensì gli archetipi da loro personificati, le strutture valoriali, la saggezza istintiva che non possediamo, le leggi universali che muovono il mondo, soprattutto quello provinciale che diventa così il primum movens della nostra società, addirittura della nostra etica, anche se c’hanno fatto sempre credere che è la città il centro di tutto ciò che conta veramente, il luogo dove tutto accade, il cuore delle idee e vortice dei fatti. Un mondo destrutturato, controllabile e controllato, e di conseguenza adattabile, più della realtà, alle esigenze della narrazione. È un mondo che risponde pienamente all’appello di una piuttosto recente moda glocal – esacerbata da una ricerca post-pandemica e virologicamente sessantottina del “piccolo centro” da cui dedicarsi a un fortunatissimo (e quindi per pochi) smart working – che valorizza la piccola dimensione, l’intimità sociale, ed eleva all’ennesima potenza il “colorito locale” rendendolo universale, innaturalmente universale.
La “fiction provinciale” è diventata, direbbe forse Orhan Pamuk, il “museo dell’innocenza” dell’italiano medio: oggetti ripescati da epoche idealizzate e che istillano nel telespettatore una naturale nostalgia per una personale epoca d’oro (o è d’oro solo perché è passata?), i piatti della tradizione gastronomica locale, i luoghi del cuore (il dove preciso non è importante perché è un dove mentale, un “dove qualunquista” in cui ognuno di noi si può ritrovare), la comicità dei dialoghi familiari, il buonismo e il politically correct per non offendere la sensibilità in prima serata (salvo poi guardarsi in seconda o terza serata i pornazzi in rete), gli scorci ancora naturali in un’Italia assediata dal cemento e deturpata dal dissesto idrogeologico, il simpatico dialetto che raggiunge proprio tutti nell’intimità del tinello domestico, il bisogno di una giustizia di quartiere in un paese incapace di fare politicamente una seria riforma della giustizia, i rapporti genuini con tipologie antropologiche in via d’estinzione (la vecchietta che fa il pane o la ricotta nella propria cucina…). Il commissario che interagisce con l’ortolano e che fa tanto quotidianità, rasserenando gli animi di chi si immerge nella visione di questi prodotti; la commissaria “bona” con lo stendino per i piatti in pieno salotto; le avventure di preti-detective e suore incasinate che sembrano essere uno spot eterno all’8 per mille alla Chiesa cattolica.
D’altronde il termine “fiction” deriva da finzione, e noi appunto fingiamo di non saperlo, perché ci piace così, perché abbiamo bisogno di questa catarsi collettiva trasposta dal teatro al tubo catodico, perché è così che vogliamo farci raccontare le nuove storie dell’era moderna e contemporanea.