Quanti modi ci sono per fissare la memoria di quella cosa labile, effimera, che è il teatro? Tanti, specie oggi, con i mezzi di riproduzione e moltiplicazione digitale. In questi mesi di pandemia ne siamo stati sommersi, spesso con l’effetto di creare nostalgia per quella cosa semplice, arcaica ma contemporanea (contemporanea proprio perché arcaica) che è lo spettacolo dal vivo. Il libro però rimane uno strumento insostituibile per un pensiero retrospettivo che induce il ripensamento e la progettazione; anche se quando si parla di libro le opzioni sono molte.
In questi stessi giorni due volumi tornano a smuovere le figure dei due principali registi italiani degli anni scorsi, Giorgio Strehler e Luca Ronconi. Non potrebbero essere più diversi (i libri, come i due artisti). Giorgio Strehler. Il ragazzo di Trieste (La nave di Teseo, pp. 440, euro 20) è un’accurata, appassionata biografia divisa in sette parti, scandite ognuna in cinque atti come una commedia classica, con un Sipario finale: l’ha scritta Cristina Battocletti, giornalista per la “Domenica” del “Sole 24 ore” e critica cinematografica. Regìa Parola Utopia. Il teatro infinito di Luca Ronconi (Quodlibet, pp. 376, euro 22), con la cura di Roberta Carlotto, autrice Rai e operatrice culturale, e del critico Oliviero Ponte di Pino, è la raccolta degli atti di un incontro durato tre giorni dedicato al regista dell’Orlando furioso nella Scuola d’estate di Santacristina, il centro teatrale che lui stesso aveva fondato, con Carlotto, tra le colline umbre.
Il visionario di Trieste
Cristina Battocletti racconta il regista e l’uomo Strehler, dall’infanzia alla morte improvvisa, il Natale del 1997, fino ai conflitti per la successione, riuscendo a disegnare, in un libro che si fa leggere come un romanzo, la personalità a tutto tondo di un protagonista dello spettacolo e della vita civile dell’Italia del dopoguerra. Un artista inquieto, che fa del teatro la sua vera casa, il luogo dove reinventa la realtà, staccandosi dalle questioni quotidiane, proiettandosi in un buio che squarcia con la magia di luci ricercate con cura e con l’umanità degli attori, scavata, provocata, esplorata, trasformata.
La prima infanzia triestina, l’essere rimasto orfano di padre, il trasferimento a Milano, il rapporto con la madre musicista servono a definire una personalità che ha molto dell’eterno fanciullo o adolescente, che vuole ridisegnare, reinventare il mondo secondo i propri desideri. Ma definiscono anche un carattere instabile, iracondo o poetico, incapace di serbarsi fedele a una sola donna, un narciso che cerca l’affetto, l’apprezzamento, delle donne e di tutti, e che per affermare le proprie idee, anzi per le proprie visioni, non esita a scontrarsi con il mondo.
Naturalmente – questa è storia nota – è anche un giovane e poi un uomo impegnato: prima nella fronda al fascismo, poi nella Resistenza. La sua grande idea, di un teatro che sfugga dalla maledizione degli spettacoli abborracciati degli ‘scavalcamontagne’, i comici girovaghi, la realizza appoggiandosi a quello che dal 1947 al 1968 sarà il suo alter ego, Paolo Grassi, il regista (anche lui) e il critico che si trasforma nell’organizzatore del Piccolo Teatro, “il teatro d’arte per tutti”, la creatura che vede la luce nel 1947, inaugurando in Italia la stagione del teatro pubblico.
Sfilano spettacoli ormai storici, come Arlecchino servitore di due padroni, che conquista il pubblico tanto da rimanere in repertorio fino a oggi, di tanto in tanto ripensato, reinventato dal suo creatore. Battocletti ci racconta la particolare fedeltà a Goldoni, un Goldoni rinnovato, sottratto a crinoline e cinguettii, portato, come nel Campiello o nelle Baruffe chiozzotte, a una materialità che è quella dei luoghi poveri. Appare Bertolt Brecht, l’autore d’elezione, con i successi dell’Opera da tre soldi con Tino Carraro e Milly, ripresa poi nel 1972 con Domenico Modugno e la compianta Milva, che Strehler plasma, facendola diventare attrice di rara forza. Anche un altro cantante, Massimo Ranieri, diventa grazie a lui interprete fino.
Nell’album fotografico del regista compare Ottavia Piccolo, giovanissima: è Cordelia e il Fool nel Re Lear cosmico, ancora con Tino Carraro, spettacolo del rientro a Milano nel 1972 dopo la fuga in seguito alle contestazioni subite nel ’68. Vediamo l’aerea Giulia Lazzarini, Ariel volante nella Tempesta, e tanti altri attori amati, modellati, in molti casi portati alla maturità piena. Ricordiamo ancora Ornella Vanoni, sua amata per un periodo negli anni ’50; Valentina Cortese, altro grande amore e altra attrice che subisce il suo fascino, abbandonando per lui gli splendori di una carriera lanciata perfino verso Hollywood; Andrea Jonasson, sua penultima moglie, l’incontro con lei come una folgorazione, un’ossessione: sarà protagonista dell’Anima buona del Sezuan e l’Ilse della terza edizione dei Giganti della montagna. Nell’elenco degli attori aggiungiamo poi Franco Graziosi, il Mefistofele dell’infinito, pressoché integrale Faust degli ultimi anni; prima ancora Gianni Santuccio e Lilla Brignone, Marcello Moretti, l’Arlecchino, e Ferruccio Soleri che ne prende il posto alla morte, conservando la maschera (e l’agilità) ben oltre gli 80 anni.
Il teatro per Strehler è passione e rifinitura estrema, che negli ultimi anni viene accusata di estetismo e manierismo; è gioco e gioia ed è precisone poetica che lascia spazio però all’improvvisazione, proprio quella dei comici italiani: anche se questo aspetto emerge soprattutto nelle prove, lunghe, perfezioniste, una ricerca continuamente insoddisfatta a trovare un’alchimia tra tutti gli elementi della scena. È lotta contro il buio. L’autrice cita: “Là nel buio delle platee del mondo io cerco disperatamente di vincere il buio del mondo con le mie sole mani”. È prometeico forgiare per incantamento. E la magia tornerà non solo nella parola resa scena ma anche nel teatro lirico, onorato con numerosissime messinscene, guidate anche dalla sua perizia musicale.
Siamo in un teatro che, a differenza delle avanguardie (chiamiamo così per semplicità vari fenomeni variamente etichettati negli anni), parte sempre dal testo, ma vive sulla scena, per rendere nella creazione del regista autore tutta la profondità dell’opera e dello scrittore.
Battocletti crea un libro leggibile, rinunciando forse a fermarsi su qualche dettaglio, sorvolando su molti spettacoli, puntando sull’uomo e anche sui suoi macroscopici difetti, a partire da un ego debordante che lo rende inviso a molti e ad altri affascinante, fino a fargli perdere, per esempio secondo Giancarlo Dettori, il rapporto con la realtà. Fino alle accuse che, da un certo punto in poi, gli vengono rivolte: dal Galileo di Brecht, criticato dal potere politico, ad alcuni protagonisti del ’68, che mettono lo stesso Strehler sul banco degli imputati come “tradizione”, fino alle accuse di aver distratto in modo illegale fondi della Comunità Europea. E poi c’è la lunga storia, una storiaccia, del nuovo teatro, da lui richiesto, promessogli e costruito a rilento, con una consegna continuamente rimandata, con polemiche con le amministrazioni e specialmente con la Lega Nord. Gli ultimi anni, vissuti con una nuova compagna e moglie, Mara Bugni, li trascorrerà ‘in esilio’ a Lugano per questi ultimi contrasti, fino alle tristi, sempre, questioni ereditarie post mortem.
Strehler sarà seppellito, secondo le sue volontà, nella Trieste dove era nato ma dove aveva vissuto per pochissimi anni, i primi. Perché, si chiede Battocletti, visto il suo attaccamento a Milano? “La risposta – si illumina – me l’ha data Maria Grazia Gregori: “Voleva stare vicino alla mamma””.
Ecco, il libro è una girandola infinita di informazioni, di interpretazioni e di spunti che rinunciano, deliberatamente mi sembra, all’approfondimento (e all’uso degli apparati specialistici), per scelta di freschezza narrativa, per provare a penetrare e a rendere totalmente l’uomo e l’artista.
L’utopia del non-metodo
Di tutt’altro tenore già nella concezione è il libro dedicato a Ronconi. Quanto quello di Battocletti è una scrittura originale e personale, tanto l’altro è un montaggio, accorto, di materiali e sguardi diversi, che cerca di rendere attraverso una visione caleidoscopica le molteplicità del regista. I contenuti di tre tavole rotonde, dedicate ai tre argomenti del titolo, la regìa, la parola, l’utopia, delineano, per approssimazioni successive, la figura del regista. Chiarisce Claudio Longhi, per vari anni suo assistente e ora suo successore alla direzione del Piccolo Teatro: a proposito dell’operare di Ronconi piuttosto che di un metodo si deve parlare di un “non-metodo” di lavoro, aperto, attento a attuare “quella operazione sempre nuova che è la messa in scena di un testo”, cogliendo ogni volta le peculiarità, le unicità, dell’opera considerata. Longhi, in quell’intervento introduttivo, afferma che piuttosto che di “regia critica”, come Claudio Meldolesi aveva definito quella della generazione del dopoguerra, bisogna parlare di “regia ermeneutica”: “Ronconi parte da un commento monomaniacale del testo, dalla volontà di annullarsi nell’oggettività del testo, nella sua datità (quella del testo, non la volontà dell’autore) per poi capovolgere questa full immersion nell’oggettività testuale in un’interpretazione, quindi in un attraversamento soggettivo del testo, spesso totalmente spiazzante rispetto alle abitudine fruitive degli spettatori”. Insomma, si immerge nel testo per lanciarsi poi in un’interpretazione di creazione libera.
Tale interpretazione, ricordano gli interventi successivi, vive nello spazio, nell’invenzione per ogni testo di uno spazio scenico peculiare; si sostanzia nella pratica di laboratorio, come nel caso di quello di Prato, che affrontava i testi come problemi di comunicazione; si dispiega nell’analisi della parola e della frase, che viene smontata, rallentata, straniata avrebbe detto Brecht (e c’è un passaggio del libro di Battocletti con Strehler al lavoro sul testo nel periodo ‘brechtiano’ che fa tornare in mente questi procedimenti).
Il volume chiama in causa altri registi – coetanei come Peter Stein, più giovani come Federico Tiezzi e Antonio Latella – per investigare il senso che ha avuto la parola regia nel secondo novecento e quello che ancora conserva. Interroga la scenografa Margerita Palli, che sottolinea, ancora, l’importanza della lettura spaziale dei testi per Ronconi. Viene richiamata la sua opera, ampia, di regista lirico, con invenzioni come la palude Stigia dell’Orfeo di Monteverdi, realizzata al teatro Goldoni di Firenze riempendo la platea di acqua, o come il celebratissimo Viaggio a Reims di Rossini già multimediale, vera e propria reinvenzione drammaturgica di un’opera scomparsa dal canone.
Lo stesso impianto ha la sezione del libro dedicata alla parola: riflessioni generali sull’uso della parola in certi lavori di Ronconi, indagine – di contesto – con alcuni drammaturghi di oggi, per capire dove vada la scrittura per il teatro, e infine interviste ad attori di diversa generazione che hanno lavorato con Ronconi, Paola Bacci, Massimo De Francovich, Lucrezia Guidone, Manuela Mandracchia, Franca Nuti, Massimo Popolizio, in una parte molto viva, dove la testimonianza toglie al volume qualsiasi freddezza analitica. La sezione ribadisce quello che già il libro a cura della compianta critica Maria Grazia Gregori, Luca Ronconi. Prove di un’autobiografia (Feltrinelli), affermava, per bocca dello stesso regista e per testimonianze: Ronconi, a dispetto di quello che si soleva affermare, amava gli attori, faceva di tutto per valorizzarne l’opera e la presenza.
La terza sezione è dedicata alle sfide utopiche: il Laboratorio di Prato, con i suoi propositi di amplissimo respiro e i suoi esiti solo parziali, per molte questioni, compresi i condizionamenti della politica territoriale; Infinities, lo spettacolo sull’infinito scientifico e fantascientifico, da un testo dello scienziato John Barrow, creato come un’infinita connessione di stanze dove si ripetono con variazioni le stesse scene, ogni volta davanti a spettatori differenti, realizzato in un ambiente post industriale come gli ex laboratori di scenotecnica della Scala alla Bovisa; il Gabbiano, anzi Un altro Gabbiano, l’opera di Čechov destrutturata e ricostruita con attori di esperienza, altri più giovani e allievi. Il volume è chiuso da un commosso ricordo in versi di Giuliano Scabia, convocato qualche anno prima per la rappresentazione al Centro Santacristina di alcune scene di un suo testo. Lo scrittore mescola rapporto teatrale e ricordi personali, aprendo squarci di memoria sulla Biennale del 1975 diretta da Ronconi e scene degli ultimi anni, quando il regista lavorava affaticato dalla malattia.
Anche questo libro, se vogliamo, approfondisce pochi spettacoli, rispetto a una carriera durata dagli anni ’60 agli anni ’10 del secondo millennio (ma rimanda agli ampi materiali contenuti nel sito lucaronconi.it; così come documentazione degli spettacoli prodotti al Piccolo da Strehler si può rintracciare sul sito del teatro, piccoloteatro.it). Vengono citate varie creazioni, dal celebrato Orlando furioso all’Orestea, a Utopia, e via avanti fino ai monumentali Ignorabimus al Fabbricone di Prato e a Gli ultimi giorni dell’umanità al Lingotto di Torino, al Pasticciaccio brutto di via Merulana a Roma, al Progetto Domani per le Olimpiadi invernali di Torino del 2006, a Lolita e all’ultimo Lehman Trilogy al Piccolo. Il libro li nomina, li ricorda, offre sprazzi, restituendoci comunque, con questo caleidoscopio di notizie, inserite nei contesti di quegli anni e confrontati con i nuovi problemi del teatro di oggi, una vita, una carriera, una militanza, una creatività analitica e appassionata che dalla tradizione, servendosi dello strutturalismo, porta in territori spesso inesplorati, che da altri di generazioni più giovani saranno ritenuti una nuova, forse ingombrante, tradizione.
Un commiato, con lanterna
Un nome ricorre nei due libri. Il nome di una persona discreta ma decisa nelle proprie passioni, una critica teatrale, Maria Grazia Gregori, attenta alla carriera e alla vicenda di Strehler, da sempre spettatrice partecipe dell’avventura del Piccolo, amica del maestro triestino e poi di Ronconi. Sue, e di altri critici e osservatori del teatro, sono notizie che Battocletti usa per penetrare la personalità di Strehler.
A lei, scomparsa in aprile, è dedicato il libro su Ronconi. Lei aveva raccolto in lunghi incontri le memorie di Ronconi sul finire degli anni ’80, quando il regista era direttore a Torino. L’impulso era venuto da un altro amico di entrambi, il critico Franco Quadri, che le aveva chiesto di scrivere un volume per la sua casa editrice, la Ubulibri. Le registrazioni effettuate erano diventate nel 2019 il libro Feltrinelli già ricordato, Luca Ronconi. Prove di un’autobiografia, con la cura di Giovanni Agosti che aveva ricostruito, in nota, tutto quello che il regista non diceva in quelle conversazioni e la sua carriera successiva agli anni torinesi.
Maria Grazia Gregori, critica sull’Unità, quando quel giornale aveva chiuso e quando l’attività critica sulla carta stampata appariva ormai avviata sul viale del tramonto, aveva continuato ancora a essere ostinata osservatrice e narratrice della vita delle scene sul sito delteatro.it. E la militanza nel teatro di ogni giorno la completava con lo sguardo storico alle vicende dei palcoscenici, come docente alla scuola Paolo Grassi. Alla fine degli anni ’70, in pieno sbocciare delle contestazioni alla figura del regista, aveva pubblicato con Feltrinelli Il signore della scena, un’antologia dedicata all’attore e alla regia, con interviste a registi, tra i quali Strehler e Ronconi. Al Piccolo Teatro aveva dedicato un libro nel 1997, per il cinquantenario della sua fondazione. Spettatrice attenta e sempre presente con curiosità, viaggiava anche in territori lontani da quei capisaldi della sua estetica teatrale.
Per il terzultimo Patalogo, quello del trentennale (2007), alla richiesta di Franco Quadri di scrivere qualcosa sul futuro del teatro, si chiedeva: “per chi per cosa si fa ancora teatro? E poi: dove sta andando questo nostro teatro all’apparenza senza costrutto?” E analizzava, velocemente, data la natura dell’intervento richiesto, i fallimenti della politica, la necessità della memoria, la trascuratezza dell’informazione che stava dimenticando, cancellando, la critica. E concludeva: “Il coraggio si addice al teatro. Domani, più di oggi e molto più di ieri. Per fortuna ci sono ancora, malgrado tutto, dei gruppi, dei teatri, degli artisti che mettono davvero in gioco se stessi come Diogene con la sua lanterna. Ci sono dei versi di Eliot che dicono ‘Non smetteremo mai / di esplorare, / e alla fine di tutto / il nostro esplorare / ritorneremo al punto / da cui siamo partiti / e conosceremo / quel posto / per la prima volta’”.
Questi due libri così diversi forse questo sono: lanterne di Diogene per scoprire le possibilità di futuro esercitando la memoria.