Inviò il primo libro, tra gli altri, a Gabriele d’Annunzio; Miguel de Unamuno elogiò quelle poesie nette, nude, selvatiche, di insidiosa nitidezza; nella casa di Montevideo ospitò due celebrità: Federico García Lorca e Juan Ramón Jiménez. “Anche la stanza più lontana della mia casa è per me un luogo inaccessibile. Sono dolcemente prigioniera, ed è inutile che tenti la fuga, il volo. Il mio destino è il mondo attraverso il vetro della finestra”, scrisse a un giornalista declinando l’invito a compiere un tour di letture che avrebbe toccato Madrid, Israele, la Colombia.
In Sudamerica, Juana de Ibarbourou diventò, nonostante lei, un mito; in Italia – rispetto alla Storni, alla Mistral – non la conosce nessuno. Nata a Melo, in Uruguay, da antica schiatta spagnola, idealizzò la propria infanzia, si trasferì a Montevideo a vent’anni, accasata a un alto militare, Lucas Ibarbourou. “L’infanzia fu il mio paradiso: non sono mai più tornata a Melo, perché è impossibile ripetere il paradiso, recuperarlo. Vive con me, mi conforta nelle ore buie… Lì la mia anima tornerà quando sarà il mio turno, e Dio concederà a questa eterna insonne il sonno più lungo, pacificato”, scrisse. Morì il 15 luglio del 1979, vecchia, incupita, tuttavia con gli onori che si riservano a un capo di Stato – e che a nessun altro artista saranno mai più riservati. Cinquant’anni prima, aveva ricevuto il titolo di “Juana de América”, durante una festa pubblica, inolvidable, come ricordò lei, nel Palacio Legislativo di Montevideo, dove ha sede il parlamento; la politica s’inchinò alla poesia e le fu donato un anello, che significava “il mio fidanzamento con l’America”. Seguirono infiniti riconoscimenti, che accolse con audacia e imbarazzo; dal 1959 fu costantemente nominata dal Nobel. Dipendeva dalla morfina; aveva bisogno della festa perché finisse, per rimpiangerla; il figlio, Julio César, era un giocatore compulsivo: per sanare i debiti contratti, la poetessa dovette vendere la villa di famiglia. Nel 1950 pubblicò un libro dal titolo esemplare, Perdida.
In una prosa raccolta in El cántaro fresco (1920), racconta di un giardiniere che cogliendo l’acqua dal pozzo, ruba la luna “rotonda, luminosa, in modo quasi matematico fissa sopra l’ostia nera dell’acqua”. “Nel pozzo la luna è scomparsa, non restano che fili di luce, una moltitudine. Il giardiniere ha sfilacciato la luna. Con calma, come un dio rozzo, incolpevole, torna lungo il sentiero con il secchio pieno di luna e di acqua, mentre in fondo al pozzo, l’oscurità torna a cagliare la moneta bianca”. In molti hanno tentato di rubare “Juana de América”; lei è rimasta così, inflessibile, morta e ricomposta, sfilacciata e ricostruita, come la luna nel pozzo.
*
Il pozzo
Muschio sul vecchio
marciapiede in rovina:
l’abbiamo eletto
per dire l’amore.
L’acqua ci guarda dal fondo
invidiosa, scavata, forse:
è muta e immobile.
“Non voglio che l’acqua ci veda
mentre mi abbracci. Forse si contorce
per la tortura. Chi può amarla?”
“Stupida: di notte la baciano gli astri”.
*
La promessa
Tutto l’oro del mondo
diluito nella luce arcana.
Sulle cime degli alberi
sanguina il crepuscolo.
Un amore imprevisto, la mia mano
unita alla tua, bruna, forte.
Eravamo Booz e Rut prima
dell’era perfetta che cinge la casa.
“Mi amerai?”, mormori. La promessa
vibra sulle labbra, lenta e grave.
Fu un Amen – in quell’istante
lo scatto della preghiera è scoccato
sulla campana dell’eremo.
*
La vita
Amato: se muoio, non portarmi al cimitero
scava una tomba per terra, vicino al fiume
clamore di voliere distrutte
accanto all’orazione dell’acqua.
A terra, amato, dove il sole
scalda le ossa e gli occhi
mentre guardo la lampada
selvaggia del tramonto rosso.
A terra, amato. Lascia che il transito
sia il più corto. Prevedo
la lotta della carne che risale
per sfasciarsi negli atomi del vento.
Che le mie mani siano inquiete
come talpe che scavano
tra le ombre del passato.
Seminami. E lancia dei semi
voglio che le radici crescano
come una scala tra le ossa rattrappite:
salirò a sorriderti nei gigli.
*
L’anima che ti dono è nuda
come una statua svelata.
Nuda con l’impudenza
di un frutto, di una stella, di un fiore
di tutto ciò che conserva l’infinita
serenità di Eva, prima della maledizione.
Di tutte le cose,
frutti, astri, rose
che non si vergognano del sesso
senza veli, per cui non esiste veste.
Nuda e aperta per
l’ansia di amare.