Jean-Luc Nancy è morto. Aveva ottantuno anni. Non riesco a scrivere queste righe senza pensare al primo incontro con lui, e anche ai successivi. Era venuto all’Università Statale di Milano per una conferenza. Aveva parlato a lungo e a lungo aveva risposto alle domande degli studenti. Teneva accanto a sé un bicchiere e una bottiglia d’acqua. Sorseggiava incessantemente. Una parola, un sorso d’acqua, una parola, un sorso d’acqua. Un’infinita disponibilità strappata a un’infinita arsura. Mi spiegò poi che lottava con le conseguenze di un trapianto di cuore che gli aveva regalato una seconda vita. Gli aveva regalato, insieme all’immunosoppressione necessaria al trapianto, un tumore, che riusciva a tenere a bada faticosamente. Anche qui, strano nodo, una seconda vita che scontava a ogni passo una minaccia, e forse viveva a ogni passo di quella minaccia. Quella sete incessante era il sintomo di questa sua condizione.
Stava scrivendo un libro, sull’esperienza del trapianto. Lo intitolò poi L’intruso. Tentava di portare al concetto, come diceva il suo amato Hegel, quello che gli era capitato: il cuore di un altro piombato improvvisamente al cuore del suo corpo. Il cuore di un’altra, in effetti. Il cuore di una donna africana morta in un incidente, se non ricordo male. Quante differenze tutte stratificate, tutte sovrapposte, l’una che sposta l’altra, l’una che mette in movimento l’altra, l’una che decostruisce l’altra. Forse ricordo male, sono in viaggio, non ho i miei libri a portata di mano. Allo stesso tempo, L’intruso porta il concetto all’altezza di quello che gli era capitato, a Nancy, e forse anche al concetto, all’atto del concepire. Un atto che non era più indipendente, se lo era mai stato, da quel corpo singolare che lo attuava, da quel corpo di cui era uno degli atti, insieme e allo stesso titolo del dormire, del fare l’amore, dell’ascoltare la musica o le parole degli altri, tutti temi ai quali Nancy ha dedicato altrettanti piccoli libri.
La giornata alla Statale si concluse con una dedica che Nancy mi scrisse su un suo libro, L’offerta sublime, su cui stavo lavorando per la mia tesi di dottorato: Di tutto cuore, con l’amicizia di uno scambio ormai lungo. Strano scambio, io avevo preso moltissimo e non gli avevo dato nulla. “Di tutto cuore” dice bene la legge di questo scambio che non è uno scambio, di questo rapporto che si fa quasi senza rapporto. Anche il suo maestro Jacques Derrida, quanto aveva lavorato su questo strano scambio che è il dono, su questa differenza che non è tra qualcosa e qualcosa, ma è una specie di differenza senza cose presupposte, una differenza da cui dipendono tutte le cose che pensiamo siano presupposte, identificate in se stesse, coincidenti col loro perimetro. Derrida, poi, forse era un maestro, per Nancy, forse non esattamente. Era senz’altro un compagno di strada di dieci anni più vecchio, uno che aveva aperto una certa strada, quella che metteva al centro il problema della differenza e della decostruzione, cioè del gesto teorico che mostra al cuore delle identità, delle concrezioni, delle costruzioni, un sommovimento più profondo, quasi una vibrazione, un gioco di piccoli spostamenti e piccoli equilibri, un reticolato regolatissimo di smottamenti. Strada che Nancy aveva imboccato quasi in contemporanea e con un’autonomia crescente. Verrebbe da dire contromano, se vogliamo tenere fede alla metafora stradale, e se vogliamo pensare a certe reazioni stizzite di Derrida di fronte alle uscite di Nancy.
A differenza di Derrida, Nancy dava corpo alla differenza. Tanto quanto Derrida cercava di sottrarglielo in ogni modo. Ebraismo inesauribile del primo, fondo cristiano-cattolico inesauribile del secondo, per quanto rigettato? Dare corpo alla differenza, forse è una buona formula per dire qualcosa dei tanti percorsi che Nancy ha tracciato dentro a quella galassia che si chiama decostruzionismo. Anche qui mi assale un ricordo, uno di quei ricordi che nel corso del tempo non sappiamo più da dove vengano, tante volte ci siamo tornati e siamo tornati al fatto di esserci tornati. Nancy lo scrive e lo racconta da qualche parte, o forse lo scrive e lo racconta lo stesso Derrida. Il quale, un giorno, avrebbe detto a Nancy: caro Jean-Luc, lo sai, vero, che i titoli dei tuoi libri sono sempre più magniloquenti, sono ormai al limite della paranoia. Si riferiva, credo, a un libro intitolato Il senso del mondo. E in effetti, dire che un certo libro andrà a esporre niente meno che il senso del mondo, è qualcosa che sta a metà strada tra l’audace e il folle, e certo è qualcosa che rigira la decostruzione, parola chiave di Derrida, contro se stessa. La rigira forse anche nel senso che ne fa tutto il giro, e alla fine la usa paradossalmente, la usa per costruire. Derrida sottraeva, scarnificava, e Nancy dava corpo a quella sottrazione. In mano sua quella scarnificazione prendeva corpo. Quello strano fenomeno che chiamiamo “senso” è forse questo prendere corpo di una sottrazione o da una sottrazione, secondo Nancy.
È qualcosa che si ritrova anche in Corpus, l’altro libro famoso di Nancy, destinato a una circolazione ben più ampia di quella che i libri di filosofia conoscono solitamente. Anche nella forma, il libro si presenta come un “corpus”. Insieme di opere, scritti, documenti, testimonianze, oggetti che stanno insieme e non stanno insieme, un’eterogeneità non priva di insistenze, e quasi di quella sistematicità di cui l’insistenza è un’allusione se non una promessa. Corpus non è un trattato, un “libro”. Non si va da un capitolo all’altro, non c’è un unico stile, non c’è un’unica voce che parla dall’inizio alla fine, non c’è un’unica tesi di cui attraversiamo premesse e implicazioni. Sono schegge che da tante prospettive avvicinano il cuore sfuggente del problema, sono tentativi di toccare ora da un lato ora dall’altro quella strana cosa che è il corpo, di toccarlo ora con una mano, ora con un piede, ora con una parola, ora con la lingua. Del resto una certa sensualità, forse anche questa cristiana e cattolica, oltre che discendente dal suo amato Nietzsche, è sempre presente nelle pagine di Nancy, e l’erotismo, il godimento, il sesso, sono anche loro sempre presenti nello sfondo o nel primo piano dei suoi discorsi. Qui i suoi antecedenti, spesso convocati e discussi, a volte appena accennati, sono Bataille e Lacan, al quale aveva dedicato, in presa diretta con lo svolgimento del suo celebre Seminario, un libro scritto a quattro mani con l’amico di una vita Philippe Lacoue-Labarthe, che Lacan, altrettanto in presa diretta, sempre nel suo Seminario, aveva registrato con rispetto misto a dispetto: Il titolo della lettera, era il 1973. Ecco, se questo è il modo in cui Nancy parla del corpo, non è anche il corpo stesso, e non è quello che alla fine dice Nancy del corpo stesso? Che i nostri corpi non sono se non dove vengono toccati e perché vengono toccati? O carezzati, baciati, leccati? E naturalmente colpiti, trafitti, feriti?
Poi c’era stato, nel 2006, il magnifico convegno che l’Università di Strasburgo, dove Nancy era entrato come assistente nel 1968, aveva indetto per i vent’anni del suo libro La comunità inoperosa. Ci eravamo rivisti con molto affetto, e lì si era ritrovata tutta una comunità di giovani, allora, ahinoi, studiosi di tutta Europa, a festeggiare quel libro che con enorme acume ed enorme successo aveva tratto le estreme conseguenze di una lunga stagione di filosofia politica e di filosofia tout court. Possiamo condividere qualcosa, oltre al fatto, o se non il fatto, che c’è dell’incondivisibile, che abbiamo attraversato e decostruito in ogni modo i fantasmi della condivisione? È possibile stare insieme, raccoglierci insieme intorno all’impossibilità dello stare insieme e del gesto del raccoglierci? Tanti tragitti della democrazia, tante impasse di quello che pomposamente si chiama l’Occidente, tante poste in gioco di quella che è la nostra contemporaneità più bruciante (leggi: Afghanistan) hanno a che vedere con questo bordo estremo in cui l’Occidente incontra se stesso ed espone a se stesso il suo limite, o espone a se stesso il fatto nudo e crudo che quel se stesso è un limite, una soglia. Con tutta la precarietà di questa che non si sa se chiamare conclusione o apertura, inizio o finale di partita. Con tutta la fragilità di questa soglia, che le nostre democrazie non sanno se assumere o mettere in questione, democrazia essendo forse la tensione tra l’assumere e il mettere in questione quella soglia. Con tutto il tremore che comporta il nostro stare su quella soglia. Tremore, a proposito, è una parola chiave di Nancy, per esempio nella sua magnifica lettura di quello che in università si chiama sempre “il filosofo di Stoccarda”: Hegel. L’inquietudine del negativo (tradotto in Italia da Cronopio grazie alle cure di Antonella Moscati, e tanto l’editore e quanto la traduttrice sono stati e sono dei crocevia indispensabili per la diffusione italiana di Nancy e in generale per la comprensione del suo pensiero).
Ecco, questa soglia, questo pensiero del corpo che è sempre un corpo in bilico, questa indagine dei luoghi in cui prende corpo il tremito di un bilico indecidibile, questa consistenza che si spalanca tra l’assumere un limite che abbiamo visto e incarnato fino al midollo e il fare uso di quel limite vedendo anche altro, facendo di noi stessi anche qualcosa d’altro da quella cosa che incarniamo fino al midollo: ecco uno dei pensieri più difficili, più aporetici, più problematici, più paralizzanti, che Nancy ci lascia. Nancy ha portato all’estremo il punto in cui siamo, l’ha visto e mappato con tutto l’acume del mondo, e forse ci ha anche guardato attraverso. Decostruire, e costruire col decostruire o col decostruito, è possibile? Possiamo fare altro e meglio che decostruire? Stiamo già facendo altro, stiamo già costruendo? Stava già, anche Nancy, costruendo? Nancy segna il punto in cui la differenza prende corpo, in cui la differenza diventa affermativa? È per questo che Derrida lo amava e ne diffidava, e si chiedeva, in un lungo e impegnatissimo e tormentatissimo omaggio all’amico più giovane, con una strana inversione dell’ordine consueto degli omaggi e dei magisteri, come e dove diavolo arrivare a Toccare Jean-Luc Nancy (altra traduzione meritoria, Marietti 2019)?