Il film presentato all’ultima Mostra del cinema di Venezia è un capolavoro: ritrae un momento del teatro partenopeo a cavallo tra ottocento e novecento, una città, un attore e la sua dinastia, raccontando come lo spettacolo popolare abbia generato quel genio della profondità e del divertimento che è stato Eduardo De Filippo. Un teatro popolare d’arte, verista, drammatico, “vero”, contrappongono gli intellettuali Bracco, Bovio, Di Giacomo, Murolo e altri al teatro comico di Scarpetta, fatto di pochade tradotte dal francese, profondamente napoletanizzate negli ambienti e nei tipi; scritte da un autore attore che a sua volta aveva tolto la maschera al Pulcinella di Petito borghesizzandolo in Feliciello Sciosciammocca, figura di giovane piccolo borghese un po’ furbo, un po’ stordito, un po’ alla moda, un po’ costretto agli espedienti…
Il fatto che un film così divertente, con un ritmo magicamente insieme teatrale e cinematografico, avvolgente e pieno di fili tematici, con attori trascinanti, non abbia vinto nessun premio alla Mostra fa pensare che le sue virtù siano state considerate i suoi limiti dalla giuria internazionale: in primo luogo la napoletanità e l’italianità, la teatralità (ma registi e attori di teatro sono oggi tra i migliori del nostro cinema, da Martone a Emma Dante e Rezza-Mastrella fino a campioni formatisi sul palcoscenico come Giuseppe Battiston o a giovani ‘anfibi’ come Leonardo Lidi). E poi: il ritratto interiore nascosto da rutilanti maschere comiche e da eccessi esistenziali, lo sguardo a una Napoli Belle Époque che travalica il quadro storico per porre questioni ancora attuali (il pubblico, il consenso, la differenza dell’arte e la rottura tra “avanguardia” e tradizione), il rapporto tra un padre-padrone, le “mogli” di una famiglia allargata e i figli, declinato nell’ambiente particolare del teatro.
Queste sono tutte virtù assolute. Con una supervirtù, se così posso dire: il film è interpretato da varie generazioni di attori di quella città teatralissima che è Napoli, leoni del teatro di giro e di quello indipendente, giovani forgiatisi nelle serie televisive e promesse di una scena che cerca sempre nuove strade mantenendo un gusto particolare per l’osservazione e il ritratto di umanità: dai “vecchi” di Teatri Uniti, l’impresa geniale di Martone, Servillo, Neiwiller (e Angelo Curti) a Cristina Dell’Anna, la splendida madre dei De Filippo, formatasi tra un Posto al sole e Gomorra; dal bisnipote d’arte Eduardo Scarpetta a maestri della scena come Gianfelice Imparato, Maria Nazionale, Gigio Morra; da Chiara Baffi a Iaia Forte e Roberto De Francesco; da Paolo Pierobon, uno dei pochi attori non napoletani, nella parte di un estenuato, invasato D’Annunzio, e dalle vestali del Vate interpretate da Lucrezia Guidone e Elena Ghiaurov, truccate come personaggi di un quadro espressionista evocanti la Famiglia Addams, a Lino Musella come Benedetto Croce, che difenderà Scarpetta nella causa intentatagli dalla Società degli Autori per plagio della Figlia di Iorio trasformato in Il figlio di Iorio, dimostrando come si tratti di lecita parodia, con un’urticante scena in cui il filosofo, serafico e algido, demolisce davanti a un compreso e abbastanza allibito Scarpetta la commedia difendendone la liceità.
Gli aggettivi si possono sprecare per l’interpretazione superba, insieme esuberante, umana, dolente e divertita di Servillo, sempre di più un gigante, ma ogni plauso meritano anche i costumi di Ursula Patzak, la sceneggiatura di Martone e Ippolita Di Majo, il montaggio di Jacopo Quadri, la scenografia di Giancarlo Muselli, il trucco di Alessandro D’Anna, la fotografia di Riccardo Berta, che disegna il teatro come luogo ombroso, brunito di miserie e stupori oltre la realtà, e le case, le ville, la città, i tribunali come posti di vivide apparenze (qui il cast completo).
Splendidi soni i tre ragazzi che interpretano i fratelli De Filippo bambini: Marzia Onorato (Titina), Alessandro Manna (Eduardo), Salvatore Battista (un Peppino selvaggia forza della natura). Il film è anche la storia di Eduardo, e quindi di quella trasmissione che avveniva sulle tavole del palcoscenico, perché “la nostra libertà sta là sopra”, si sente dire nel film. Subito all’inizio, con qualche licenza poetica rispetto alla cronologia reale, vediamo il piccolo Eduardo che scruta dalle quinte la recita di Miseria e nobiltà, con la sorella travestita da piccolo Peppiniello. Toccherà poi a lui, poi a Peppino, interpretare quel personaggio, con l’investitura segnata, a tormentone nel film, dalla frase “Vicienzo m’è pate a me”, in un’assunzione di eredità che comprenderà anche il rifiuto del ruolo dello “zio”, soprattutto da parte del poco addomesticabile Peppino, cresciuto a balia, in campagna. Vediamo il giovanissimo Eduardo intento a ricopiare copioni e a provare a scriverne di propri: in quella gabbia, il palcoscenico, nel confronto con quella paternità padronale misconosciuta troviamo in fondo l’ammirazione e la devozione contrastate, e sempre una forma di libertà profonda, quella dell’ascolto e dell’immaginazione, che porterà il futuro grande De Filippo a spostare l’invenzione teatrale più vicino alla realtà, alla vita, trasfigurate.
Il film, ancora sulle note di Indifferentemente (la sprezzatura vitale e il veleno dell’attore cannibale?), si chiude con ritratti fotografici di Eduardo e dei suoi fratelli e di Eduardo in camerino: è la trasformazione dell’eredità, è fusione del teatro popolare del padre e del teatro popolare d’arte vagheggiato e non realizzato dagli intellettuali, un’eredità assunta da Martone, Servillo e compagni e ancora mutata, con creatività, guardando il passato, la storia, con una forte passione e pulsione nel tempo che viviamo.
Molto ancora ci sarebbe da dire, da raccontare su questa meravigliosa creazione, ma facciamolo dire a Toni Servillo.
Come hai costruito il personaggio di Eduardo Scarpetta? Non credo esistano troppi documenti visivi su di lui.
Esiste una grandissima quantità di materiale fotografico, per cercare un primo approccio alla sua fisicità. Non sono ricorso a particolari espedienti per dare la rubiconda gioiosità del personaggio. Vedendo una sua foto attaccata allo specchio dal truccatore il primo giorno di riprese per verificare l’efficacia della capigliatura, perché lui aveva una zazzeretta che come tanti attori intorno ai cinquant’anni aveva il vezzo di tingersi di nero, mi sono accorto che aveva un naso importante, un po’ a patata. Ho chiesto al truccatore di andare a comprare una di quelle tettarelle di silicone che si usano per far prendere il latte ai neonati. L’ho tagliata a metà, l’ho attaccata al naso e il naso si è allargato. Dato che non mi dava fastidio l’ho tenuta per tutte le riprese. A parte questo e altri dettagli, fisicamente non ho fatto molto altro.
Hai usato la sua autobiografia, Cinquant’anni di palcoscenico?
Sì: è piena di fatti molto romanzati, ma anche di elementi riscontrabili, reali. Ripercorre la sua origine legata alla miseria, gli inizi al San Carlino, lo spodestamento di Petito, la morte in palcoscenico di Petito, l’ultimo Pulcinella, a cui lui assiste e la nascita della maschera che lui si augurava lo sostituisse, Don Felice Sciosciammocca, che come tutto il suo teatro andava incontro a un pubblico molto diverso da quello di Petito. Il teatro di Petito si svolgeva nelle baracche costruite intorno a piazza Municipio; era una scena di attori girovaghi che poi cercavano scritture per un periodo lungo combattendo con la miseria, di derivazione schietta dalla Commedia dell’Arte, tant’è vero che Eduardo nella prefazione a un libro molto bello del marito della figlia di Scarpetta, Maria, accennando al fatto che il padre è stato un riformatore, racconta che quegli attori si incontravano al San Carlino e dicevano: “Dimane ce vedimme e ci cuntammo ‘u fatt’”, il testo: vale a dire che basavano le loro esibizioni su quattro o cinque argomenti che decidevano là per là e poi improvvisavano tantissimo. Come nel meraviglioso film Molière di Arianne Mnouchkine, quando Molière va per incontrare il grande attore italiano Scaramouche e lo vede riunito insieme ai suoi attori, uno con le braccia sulle spalle dell’altro alla maniera di una squadra, e confabulare. Non capisce sul momento cosa stiano facendo, e gli spiegano che quella è una prova all’italiana, nel senso che gli attori si stavano accordando su un canovaccio da affidare poi all’improvvisazione. Questo era il teatro che Scarpetta ereditava, che ha fatto con Petito, un teatro frequentato dal popolino, di basse pretese. Siccome la sua ascesa corrisponde anche a quella di una classe piccolo o medio borghese napoletana, di piccoli imprenditori, commercianti, professionisti durante la Belle Époque, lui inventa Sciosciammocca, che esula dai contesti schiettamente popolari per introdursi in ambienti più piccolo borghesi o borghesi tout court. Per cui lui adatterà le pochade francesi a ambienti napoletani. La sua figura è stata importante per vari motivi, come sottolinea Eduardo: eliminare la figura del suggeritore, mantenersi fedeli al testo scritto, lavorare sulla memoria e non più solo sul teatro all’improvviso.
Diciamo, quindi, che la costruzione del personaggio Scarpetta è quasi totalmente tua, perché si basa su pochi documenti.
Sì, ma aggiungiamo che poi c’è una memoria… È chiaro che uno cerca di fare appello nella propria mente agli attori che ha visto recitare. È inutile negare che c’è un’influenza soprattutto di Peppino, in quanto straordinario mamo, più vicino ai funambolismi e alla comicità schietta, popolare, irresistibile del padre, grandezza di comico che Eduardo stesso gli ha sempre riconosciuto. Ma c’è un’influenza anche di Mario Scarpetta, con cui sia io che Martone abbiamo lavorato, il padre dell’Eduardo Scarpetta che nel film interpreta Vincenzo Scarpetta… Mario ha lavorato con me nel mio Le false confidenze; io l’ho visto recitare nei testi del suo avo.
Il film mi sembra anche un omaggio a tutta la tradizione del teatro napoletano.
Insisterei fino a un certo punto su questo argomento, perché penso si possa equivocare che la nostra e quella di Mario sia un’operazione di recupero. Non lo è. Noi tratteggiamo un mondo che non c’è più, la maniera in cui si organizzava la società intorno a un idolo e il racconto della parabola di questo idolo, dal massimo del successo alla crisi: la sua mania di riduzioni vuole a un certo punto parodiare il grande poeta d’Italia e là il processo che gli intentano si incrocia con l’insofferenza che avevano per lui poeti napoletani come Russo, Bovio o Di Giacomo, che tentavano l’avventura teatrale non con gli stessi esiti di Scarpetta e però propugnavano un teatro d’arte, non per quel tipo di classe cui si rivolgeva Scarpetta, ma di schietta derivazione popolare.
Tu hai interpretato molti ruoli d’attore, Viviani, Eduardo, Molière, Jouvet… Quale hai sentito come più congeniale?
Devo dire che l’esperienza dell’approfondimento di una figura fondamentale per la storia dell’attore come Louis Jouvet ha esercitato su di me un’enorme fascino, per la capacità che aveva di essere popolare nel cinema e però nel teatro arrivare a una sofisticazione intellettuale che guardava a tutte le arti, con una comicità onnivora, una grande amore per la letteratura, un territorio del quale si nutriva continuamente, l’interesse per un filosofo e mistico come Gurdjieff… Mi ha influenzato il suo impegno nel disciplinare il mestiere dell’attore e dargli nobiltà. Ma anche l’impegno in questa direzione di Eduardo De Filippo, che porta al teatro napoletano un livello di sofisticazione e di approfondimento culturale enormi.
Nel film Eduardo mi sembra un coprotagonista. Qui rido io si apre con lui bambino che guarda avidamente la scena dalle quinte e si chiude con le immagini di lui adulto in camerino. C’è un ascolto intenso, che sembra uno dei segreti della sua arte.
Quello che ci affascinava di Scarpetta era raccontare come un attore nell’esercizio del suo mestiere celebrasse la vita. Una vita che consuma tra il palcoscenico e gli interni della sua casa in una maniera indistinta, dando l’impressione che ci sia una continuità tra il sipario e i tendaggi dei salotti. Non sappiamo se sta recitando in camera da letto o se invece è più vero quando è in palcoscenico. Questa è la cosa che affascinava di più, la vicenda che metteva al centro un attore che nell’esercizio del suo mestiere, così avidamente perseguito, celebra la vita, con i pranzi, con le mogli, i figli legittimi e illegittimi, con l’erotismo… Naturalmente a tutto questo Eduardo bambino assiste e Eduardo grande ne fa tesoro. Perché uno degli argomenti che io trovo più affascinanti di questo film è proprio il racconto di questi bambini che poi saranno i De Filippo, che debuttano nella vita quasi contemporaneamente al loro debutto in palcoscenico.
Anche se c’è qualche licenza cronologica, perché Eduardo nasce nel 1900 e Scarpetta si ritira dalle scene nel 1909…
Eduardo viene messo in palcoscenico dal padre quando aveva quattro-cinque anni. Credo che non ci sia cosa più efficace per capire cosa questo vuol dire di una frase famosa dell’autore di Filumena Marturano: “Fuori dal palcoscenico mi sento uno sfollato”, come se il territorio della propria libertà, il luogo dove muoversi con assoluta sicurezza, forza, determinazione, sia il teatro, che coincide con la scoperta della vita. Questo è uno degli argomenti più interessanti della vicenda che Martone ha voluto narrare. Io, in buona sostanza, per rispondere ancora alla prima domanda, ho affrontato questo personaggio col desiderio di raccontare un attore che attraverso il suo mestiere celebra in maniera dionisiaca la vita.
C’è stato un riavvicinamento tra te e Martone?
Il nostro rapporto non si è mai interrotto. Nel momento in cui lui nel 1999 ha preso la direzione del Teatro di Roma, noi abbiamo continuato nell’attività di Teatri Uniti. Ma ci siamo sempre guardati, cercati, interessati l’uno al lavoro dell’altro. Tant’è vero che – come lui ha raccontato – gli è sembrato naturale affidarmi questo personaggio nel momento in cui ha pensato al film.
Ci sono due citazioni di altri grandi attori comici in Qui rido io. Una di Charlot, con quell’immagine di Scarpetta di spalle, col bastone da passeggio, leggermente piegato, davanti a Castel dell’Ovo; l’altra di Totò nella scena dei maccheroni di Miseria e nobiltà. Che rapporto c’è stato con queste figure.
Io credo che un attore comico, un re della risata come Scarpetta, appartenga tutto a quella famiglia di grandi comici che finiscono per avere un repertorio di comportamenti comuni, che si concretizza nella loro maschera. Poi ognuno di loro ha naturalmente un tratto particolare, personale, che lo distingue dall’altro. C’è nella famiglia di questi generatori formidabili di risate qualche cosa, un diapason, da cui partono, una nota che li fa appartenere a un’unica famiglia, verso la quale siano riconoscenti per generazioni. Dunque un modo di camminare, di atteggiarsi, un modo di cercare una comicità con il pubblico. Quindi mi sembra naturale si possa ravvisare qualcosa che li ricorda e li accomuna. Nello specifico Mario ha voluto che quando si citava Miseria e nobiltà ci fosse un omaggio esplicito a Totò e ai maccaroni messi in tasca. Noi non sappiamo se lo faceva anche Scarpetta, non abbiamo una documentazione in questo senso, Per quanto riguarda invece l’ingresso in scena di Eduardo Scarpetta nel ruolo di Sciosciammocca in Miseria e nobiltà io mi sono documentato sulla versione di Eduardo De Filippo e lui entrava in quella maniera che sembra un po’ charlottesca, perché doveva raccontare che faceva molto freddo, e io credo che i comici abbiano interpretato la miseria del freddo sempre alla stessa maniera.
Un’ultima annotazione. Un ruolo molto importante nel film lo ricoprono le vicende familiari di Scarpetta. Lui appare come un padre padrone, ma nello stesso tempo siamo portati in una vita differente da quella dei normali borghesi, in quella libertà della “microsocietà degli attori” di cui parlava uno studioso come Claudio Meldolesi.
Questo è un argomento che è venuto fuori molto in sede di presentazione del film. Io credo che chi conosce la storia del teatro, delle famiglie teatrali, delle tribù teatrali, sappia perfettamente che esiste un codice morale che è chiuso dentro il recinto della loro vicenda umana, diverso da quello costituito dalla società con le sue regole. A me non sorprende. Conosciamo bene la vicenda di Molière, dei rapporti con la moglie e con la figlia di sua moglie. È evidente che il teatro, per la sopravvivenza della sua dimensione, sceglie una forma di coesistenza che è diversa da quella che stabilisce la società borghese, quindi con regole che da fuori possono essere giudicate immorali e che sono attribuibili a una microsocietà che ha le sue leggi. D’altronde mi domando: se gli artisti non vivessero qualche irregolarità, da dove nascerebbe la spinta del nostro interesse nei loro confronti?
Siamo attratti da quello che non abbiamo, da ciò che vorremmo essere?
Scarpetta ha una forza, una vitalità, un’ossessione, una capacità di azzannare la vita che lo ha reso unico e lo ha fatto essere uno straordinario aggregatore di energie, di entusiasmi, di gioia, di comicità, intorno cui si è stretta un’intera città, per parlare di Napoli. Quando mi chiedevi in che modo ti sei avvicinato al personaggio: io ho guardato a Scarpetta come a un animale, un animale nel senso del predatore. L’animale non va a caccia in maniera indistinta, traccia un territorio, lo limita, e all’interno di quel limite opera la sua caccia. Ovviamente il limite entro cui andava a caccia quest’uomo affamato di vita era la sua famiglia, la sua tribù, la sua città, i suoi atti, il suo repertorio. Dentro quello si muove con le leggi di questo modo di agire, che noi troviamo per certi aspetti non giustificabile e non sono qui io a giustificarlo: ma non mi metto neppure nella condizione di giudicarlo, adesso, da una prospettiva storica completamente diversa.
Cos’è stato per te interpretare questo personaggio e questo film?
Tante cose. Ma soprattutto è stato poter raccontare uno spaccato di una straordinaria civiltà teatrale e di una città con la quale ho un debito enorme: Napoli.