Nel 1928 Italo Svevo suggerì a Giulio Cèsari, in una strana forma in terza persona, alcune righe per la stesura di un profilo biografico, un modo ulteriore per conoscere le sembianze e appianare le crepe della sua natura di artista e della sua stessa identità, lui ebreo triestino di origini italiane e austriache (forse ungheresi), all’anagrafe Aron detto Hector Schmitz, poi Ettore e, infine, ma non del tutto considerati i vari pseudonimi con cui si firmerà, Italo Svevo: «Per comprendere la ragione di uno pseudonimo che sembra voler affratellare la razza italiana a quella germanica, bisogna aver presente la funzione che da quasi due secoli va compiendo Trieste […] di crogiolo assimilatore degli elementi eterogenei che il commercio e anche la dominazione straniera attirarono nella vecchia città latina». Che Trieste sia stato un «crogiolo» fa parte ormai del pensiero comune (Bobi Bazlen non era per esempio d’accordo, sottolineando che, a differenza di ciò che accade in un crogiolo dove gli elementi più disparati si fondono, a Trieste la fusione non è mai avvenuta) e resta indubbia l’importanza degli «accostamenti» e degli «incontri» (sono sempre parole di Bazlen che tra l’altro fu tra i principali mediatori, assieme a Joyce e Montale, del successo di Svevo) che la città offrì a Svevo e che lo trasformarono, sin da Una vita, nello scrittore che oggi tutti conosciamo (o, meglio, che dovremmo conoscere).
Per comprendere questo valore, oltre all’opera di Svevo che possiamo leggere con i migliori paratesti possibili (quelli di Lavagetto e dei suoi allievi), arrivano adesso in libreria le lettere dello scrittore triestino (pubblicate da Il Saggiatore con la cura attenta e precisa di Simone Ticciati) che partono dal 1885 per arrivare ai giorni che precedono la sua morte. Come suggerisce Federico Bertoni, altro importante curatore e interprete delle opere sveviane, nel suo accurato e appassionato saggio introduttivo, in queste lettere ritroviamo i due personaggi che costituiscono l’uomo (e d’altronde lo stesso Svevo aveva scritto che «un letterato sa sempre di essere composto di due persone»), da una parte il borghese Ettore Schmitz, dall’altra lo scrittore Italo Svevo. Questo appare evidente già solo scorrendo l’indice dove si potrà notare come le lettere fino all’inizio degli anni Venti siano indirizzate quasi tutte alla moglie Livia Veneziani e alla famiglia, lettere che non soddisferanno chi cerca di scoprire le ispirazioni e la poetica di Svevo in quanto «sono estremamente avare di indicazioni su letture, serate a teatro, riflessioni sulla letteratura o giudizi su altri scrittori». Sono lettere che però hanno il pregio di mostrare il lato famigliare dell’esistenza di Svevo e, in particolare, il rapporto con la moglie, portando il lettore a conoscere le varie sfumature che assume la relazione, aspetti che però pian piano vengono mangiati dalle tematiche del viaggio e del lavoro, lettere che aiutano quindi anche a correggere alcuni luoghi comuni rispetto alla girandola lavorativa che precede l’ingresso di Svevo nell’industria dei suoceri. Sono d’altronde le lettere che corrispondono al cosiddetto periodo del «silenzio» sveviano (seppure in realtà Svevo in quegli anni continui a scrivere molti e differenti testi; Maurizio Serra, nel suo saggio Antivita di Italo Svevo, ha invece definito lo Svevo di quegli anni come «il fuggitivo»), cioè gli anni che vanno dalla pubblicazione di Senilità (1898) a quella di La coscienza di Zeno (1923), cioè dalla seconda delusione editoriale all’esplosione del successo.
E infatti nelle lettere che seguono il 1923 troviamo uno Svevo diverso, risorto, «come Lazzaro» chiosa Bertoni, protagonista di una vita nuova e diversa. Si fanno infatti più rare le lettere famigliari e la vita privata quasi scompare dalle corrispondenze: le lettere adesso sono invece indirizzate a nuovi interlocutori, gli scrittori e i critici che hanno aiutato Svevo a raggiungere il successo che, adesso, meritatamente si gode. In questa parte finalmente si parla di libri (suoi e degli autori da lui ammirati), delle recensioni, delle nuove edizioni e dei progetti futuri, si parla dell’Ulisse di Joyce e della Recherche di Proust, in un flusso nuovo che sembra corrispondere a un’inedita tranquillità letteraria che garantisce a Svevo di poter parlare di tutto e con tutti (a Joyce comunica di aver preso l’Ulisse e che si farà aiutare nella comprensione dal fratello, a Sylvia Beach invece che firmerà con piacere una petizione per fermare la pubblicazione statunitense dell’Ulisse senza l’autorizzazione dell’autore, «il danno arrecato a Joyce è come se fosse fatto a me», ma dell’Ulisse scriverà anche, nel 1927, che è «un mistero» e che «la lettura del libro è durata così tanto che quando sono arrivato alla fine avevo dimenticato l’inizio»). Bertoni riassume bene questa dicotomia epistolare, sottolineando come questa sembri replicare «testualmente la scissione di fondo tra Ettore Schmitz e Italo Svevo», protagonisti di un libro differente: «prima il lungo, e spesso monotono, talvolta ossessivo duetto epistolare con Livia che scandisce la vita del buon borghese, marito, padre di famiglia e uomo d’affari; poi, negli ultimi anni, la partitura polifonica di un vero e proprio carteggio intellettuale in cui registriamo, dall’interno, le reazione dello tesso protagonista a uno dei più stupefacenti casi letterari del Novecento».
Ma cosa riceve in più rispetto agli scritti di Svevo il lettore di queste lettere? È una domanda lecita, visto anche la natura particolare di questo epistolario, e a cui si può rispondere prendendo in considerazione due piani diversi. Innanzitutto c’è la possibilità di affrontare utilizzando strumenti ulteriori la sua opera, si può scartare dalla spesso troppo offuscata definizione di scrittore/bancario/dirigente e della vulgata dello scrittore non consapevole di se stesso (per quanto già gli studi di Lavagetto indirizzino verso una lettura di questo tipo) attraverso un percorso che unisce la vita e l’opera. Questo binomio è poi l’altro piano del discorso interessante e che rende entusiasmante seguire la vita di Svevo attraverso queste lettere, perché si troveranno interessanti chiavi interpretative sommerse in questo Zibaldone, così lo definisce Bertoni. Quando Svevo, nel 1903, scrive alla moglie per esempio «quando mi faccio la barba mi guardo in specchio con grande ammirazione. – Bravo, caro Ettore, bravo! Adesso dovresti cambiare di nuovo mestiere per vedere quanti altri piccoli talenti sono in te», chi sta parlando? È il borghese? È lo scrittore che mette in scena se stesso come personaggio? È la porosità della letteratura che si impossessa della vita stessa? Non si tratta di una questione facilmente eludibile, soprattutto se consideriamo come il materiale di queste lettere, filtrato dal romanzesco o reimmaginato, si trasformi in materiale per La coscienza di Zeno.
Non è secondario ricordare che il romanzo capolavoro di Svevo narra di un anziano bugiardo che scrive allo psicoanalista la sua storia, con l’intento di ingannarlo. Il suo racconto è così ricco di aneddoti che lo stesso narratore/scrittore Zeno/Svevo finisce per non vederne più i confini e individuare quelli che dividono il vero dal falso; le sue menzogne sono nascoste, mimetizzate nel testo, eppure affiorano quelle lacune e quelle smagliature che hanno il compito di rendere identificabili atti mancati e lapsus, mezzi attraverso i quali la menzogna viene tradita e a affiorano i funzionamenti reali dell’inconscio. Concentrandosi sul complicato rapporto tra scrivere la propria storia e l’affermazione rilasciata dal protagonista che dichiara che «con ogni nostra parola toscana noi mentiamo», si arriva a un punto di non ritorno, riassumibile nella frase che dice Zeno: con tutte le parole non vere, si può creare un «mondo nuovo». Queste lettere ci lasciano nel dubbio e ci permettono di immergerci con rinnovata curiosità nel mondo sveviano e di stare con piacere, ancora una volta, ai giochi illusori che la letteratura, «ridicola e dannosa cosa» costruisce. Come nella lettera che nel 1927 Svevo scrive a Cyril Ducker dove si ritrova, ancora, quella stessa e ineludibile ambiguità: «lo scrittore deve scrivere – annota in una lettera del 1927 – ogni sera la storia della sua giornata. È l’unico modo per ottenere una grande sincerità, la qualità più importante, credo».