Nel 1830 Eugène Delacroix dipinge La Libertà che guida il popolo: il quadro diventò subito un’icona, un grido. La ragazza con le poppe di fuori – specie di formosa Giovanna d’Arco, senza formalismi cristici – innalza con la destra la bandiera di Francia, nell’altra ha un moschetto; la seguono, sbigottiti, orde di maschi con sciabole, pistole, fucili. Il suolo è fitto di cadaveri, che Delacroix ricalca da Géricault, esperto in scempio. Quell’anno, a Parigi, Carlo X era stato rovesciato: al suo posto, tra le figurine monarchiche, era asceso Luigi Filippo, detto, appunto, “dei Francesi”. Chiamarono quei giorni di rivolta la “Rivoluzione di luglio”: il papà di Luigi Filippo, Luigi Filippo II d’Orléans, aveva appoggiato la Rivoluzione francese. Fino a essere ghigliottinato, durante il Terrore. Amen.
Nel 1830 Georg Büchner aveva diciassette anni, terminava gli studi e l’anno dopo sarebbe andato a studiare a Strasburgo. L’aria rivoluzionaria lo galvanizzava: quando fu costretto a rientrare nel Granducato d’Assia, nel 1833, impiantò la sua ansia di rivolta. Gli stati tedeschi erano retto da aristocrazie abili nel sopruso; le ribellioni contro privilegi feudali e imposizioni fiscali, in seguito alla ‘rivoluzione’ di Francia, venivano sopite nel sangue. Le Lettere di Büchner – edite da Giometti & Antonello – descrivono l’impeto del geniale scrittore, che fa di violenza e odio una categoria, per così dire, etica:
“La mia opinione è questa: se vi è qualcosa che può essere d’aiuto nella nostra epoca è la violenza. Sappiamo bene cosa possiamo aspettarci dai nostri regnanti. Tutto ciò che essi hanno concesso fu strappato loro dalla necessità. E persino queste concessioni ci furono gettate lì come un atto di grazia da noi mendicato e come un miserabile giocattolo per bambini, per far dimenticare a quell’eterno babbeo che è il popolo la corda troppo tirata” (Strasburgo, 5 aprile 1833).
Büchner studia a Giessen, è anticlericale, pieno di stoiche inquietudini, non sopporta i fumi filosofici, i sofismi accademici: “Mi butto a capofitto nella filosofia. Questo linguaggio artificiale è orribile, secondo me bisognerebbe trovare per delle cose umane anche delle espressioni umane”, scrive ad August Stöber, nel dicembre del 1833. Più che la filosofia, lo affascina la politica – “La situazione politica potrebbe farmi impazzire. Il povero popolo trascina paziente il carro sul quale i prìncipi e i liberali rappresentano le loro scimmiesche commedie. Io ogni sera dico la preghiera ai lampioni e alle corde” –, così si affilia al pastore Friedrich Ludwig Weidig, eroe ribelle, noto per le posizioni radicali. Nel 1832 il pastore aveva partecipato alla manifestazione di Hambach, in cui 30mila tra artigiani, studenti, contadini “rivendicavano in primo luogo unità nazionale e libero mercato”. Il parlamento di Francoforte rispose “sopprimendo la libertà di stampa e dichiarando illegale qualunque associazione o assemblea che si prefigga finalità politiche” (Marina Bistolfi). Weidig, vigilato dalla polizia del granducato come sovversivo, esacerbò le proprie convinzioni: Büchner sarà il suo profeta.
In effetti, Büchner partecipa alle riunioni segrete ordite da Weidig e ne diventa, di fatto, l’intelligenza armata. L’esordio narrativo di Büchner è l’opuscolo ll Messaggero dell’Assia, che incita alla rivolta, ed è un attacco diretto, dirompente, contro il granducato. “Chi dice la verità viene impiccato e persino chi legge la verità potrebbe essere punito da giudici spergiuri… I peggiori furfanti sono oggi in tutta la Germania, perlomeno nel granducato, i più vicini ai principi… Per lunghi anni vi siete chinati nei campi spinosi della schiavitù; per tutta la vita avete scavato la terra, allora scaverete la fossa ai vostri tiranni”. Il pamphlet alterna un’accurata sintesi del sistema fiscale dell’Assia, dimostrandone l’ingiustizia, a toni biblici, incita la sommossa, immediata, usando l’esempio della Rivoluzione francese. L’esito del banditismo editoriale pare scontato: il governo granducale riesce, grazie a una spia infiltratasi nell’associazione segreta di Weidig, a sabotare l’impresa. Un amico di Büchner, Karl von Minnigerode, viene beccato con un centinaio di copie del pamphlet e messo in arresto; Büchner raggiunge Darmstadt e poi Salisburgo, la polizia del granducato perquisisce il suo alloggio, sequestra libri, carte, documenti.
Dalla delusione politica nasce la vita letteraria di Büchner, che nel 1835 pubblica La morte di Danton, testo di cupi scintillii, pieno di frasi epigrafiche – “Il mondo è il caos. Il nulla è il nascituro dio del mondo” – e di frustrazione civica – “Non serve a nulla, tutto è ancora come prima, le case, il vicolo, il vento soffia, le nubi passano. Dobbiamo subire” –, che fu ovviamente incompreso. Da qui, dalla sovversione soffocata, nascono quei personaggi indelebili di Büchner, tra ignavia e agnizione, Leonce (“Io non sono nulla, nulla, non mi va neppure di ammazzarmi: è troppo noioso”), Lenz (“Il mondo gli si era manifestato chiaramente, e in lui un agitarsi e un brulicare verso un abisso al quale lo trascinava una forza inesorabile. Ora frugava dentro di sé”), Woyzeck (“La luce pare un ferro insanguinato… Dev’essere una bella cosa la virtù, signor capitano. Ma io sono un poveraccio”). Inabili, incapaci, setacciati dalle ombre, idioti, in una lussuria di ingenuità, i personaggi di Büchner, corsari di un’era in disastro, ricordano i profeti sinistri, Giona, che fugge da Dio, “s’imbarca… lontano dal Potente”, Isaia, incapace a parlare, “uomo di labbra impure”.
Büchner morì a 24 anni, nel febbraio del 1837, di febbre tifoidea. “Il coraggio giovanile è svanito”, aveva scritto, qualche giorno prima della morte, alla fidanzata. Il pastore Weidig, compagno di cospirazioni, più volte arrestato, si ammazza venti giorni dopo la morte di Büchner. Che c’insegna Büchner? Che la letteratura nasce da una rivolta mancata, che è, infine, una cospirazione contro le convenzioni. Troppo facile. Al concetto ne sommiamo due, desunti dalle lettere. Intanto, il diritto all’odio. L’odio come poetica, energia mentale, salvezza etica.
“L’odio è permesso altrettanto quanto l’amore, ed io lo coltivo nella misura più piena contro coloro che disprezzano. Vi è un gran numero di costoro che, in possesso di una ridicola esteriorità che si chiama cultura, o di una morta cianfrusaglia che si chiama erudizione, sacrificano la gran massa dei loro fratelli al loro egoismo dispregiatore”.
Poi. La derisione. “Mi chiamano un derisore. È vero, io rido spesso; ma non rido di come è un determinato uomo bensì soltanto del fatto che egli è un uomo, cosa alla quale già a priori egli non può rimediare, e quindi rido di me stesso perché anch’io condivido il suo destino. La gente chiama questo ‘derisione’, non sopporta che ci si produca come buffone e si dia loro del tu”. Büchner ricorda Democrito, che ride dei suoi concittadini, gli abitanti di Abdera, “Uomini stolti, che pagano per la loro malvagità, per l’avarizia, l’ingordigia, l’inimicizia, le insidie, gli inganni, l’invidia”, che “praticano la menzogna, onorano la licenza, disobbediscono alle leggi” e vivono credendo di essere padroni della vita. Gli abderiti incaricano Ippocrate di risolvere il riso di Democrito, folle ai loro occhi; il sommo medico capisce che tra i cittadini l’unico sano è proprio Democrito, che li deride e ride della sorte dell’uomo. La derisione è il rimedio: rido di te, riconoscendomi te. I denti a volte sono chiodi, altri un pianto.