«Il colore non è un tema della filosofia» mi rispose sbrigativamente anni fa un professore di filosofia dell’università di Berlino. Rinunciai a consegnargli il testo, battuto a macchina la settimana prima, e cambiai argomento. Eppure mi rimaneva, inespressa, l’obiezione che con gli scritti dei filosofi sul colore avrei potuto riempire più di un quaderno. Oggi penso: interi scaffali di librerie.
Limitiamo il discorso al tema del linguaggio. Limitiamolo ulteriormente alla filosofia contemporanea e partiamo da una citazione di Nietzsche sul blu in Aurora.
426. Cecità cromatica dei pensatori. Quanto diversamente i Greci hanno veduto la natura, se siamo costretti a riconoscere che i loro occhi erano ciechi per l’azzurro e il verde, e invece del primo vedevano un bruno più scuro, in luogo del secondo un giallo (giacché designavano con la stessa parola, per esempio, il colore dei capelli bruni, quello del fiordaliso e del mare meridionale, e con la stessa parola il colore delle piante più verdi e della pelle umana, del miele e della resina gialla: sicché, stando alle testimonianze, i loro grandissimi pittori hanno ritratto il loro mondo solo col nero, il bianco, il rosso e il giallo).
Nietzsche salta a piè pari il dibattito dei suoi tempi sul carattere fisiologico o meno della cecità al blu degli antichi greci. Appare evidente che fisiologicamente vedessero le cose blu, ma diversi erano i nomi che davano al colore delle cose, diversi i loro criteri di classificazione, come oggi appare chiaro dagli studi, a cui ho fatto più volte riferimento, di Maria Fernanda Ferrini. Ma l’interesse di questa citazione sta nel prosieguo, nel fatto che Nietzsche considera questo «difetto» dei greci un merito: l’azzurro e il verde non sono colori, per così dire umani, ed è su questo difetto che «è cresciuta rigogliosa la giocosa leggerezza, tipica nei Greci, con cui essi vedevano i processi naturali come divinità e semidei, cioè come figure in forma umana».
È quindi un processo necessario ridurre il numero di colori che esistono nella realtà, ridurre la natura all’umano, per poter vedere «dentro le cose armonie di colori che hanno un grande fascino e possono costituire un arricchimento della natura». Una parziale cecità cromatica diventa presupposto di una comprensione più ricca e approfondita. Jacques Le Rider, un po’ troppo sbrigativamente, considera questo passaggio un argomento tipico della decostruzione del linguaggio da parte di Nietzsche, del suo relativismo e scetticismo (Jacques Le Rider, Les couleurs et les mots, Presses Universitaires de France, 1997, p. 374). Va osservato però che i nomi dei colori non sono un’invenzione del tutto arbitraria, non è fatta da un singolo soggetto, il soggetto questa volta è il popolo greco.
Nei Beiträge zu einer Kritik der Sprache, pubblicati nel 1901 e 1902 a Berlino, Fritz Mauthner, scrittore ebreo-boemo di lingua tedesca, utilizza l’esempio del colore per sostenere l’impossibilità della parola di catalogare in qualche modo il mondo, di collegare insieme in modo stabile le nostre sensazioni, di andare oltre la metafora e il malinteso. La mancanza della parola blu nella lingua e nella rappresentazione dei popoli antichi – nei Veda e negli Avesta, nella Bibbia, nel Corano e nei poemi omerici – testimonia il carattere storico e, secondo lui, casuale della formazione dei nostri concetti di colore.
Lo conferma il fatto che gli uomini hanno individuato, nel corso della storia, negli infiniti passaggi di sfumature dell’arcobaleno, tre, quattro o sette colori; e in quest’ultimo caso è prevalsa l’analogia con le note musicali. Lo stesso termine violetto, a differenza degli altri colori fondamentali, mantiene ancora il carattere di metafora (il colore della viola) a testimonianza della sua origine più recente.
Anche riguardo la tradizione secondo la quale gli antichi pittori greci e romani usavano solo quattro o cinque colori Mauthner lascia in sospeso la domanda se davvero essi avessero sulla tavolozza solo quattro colori e non li mescolassero poi come nella pratica dei moderni artisti. Così in natura non ci sono colori “mescolati” (Mischfarben), il verde non è mescolanza di giallo e di blu. Il mondo, come l’arcobaleno, contiene infinite gradazioni e, nel corso del tempo, l’uomo sceglie, con un procedimento casuale, solo alcuni tratti che via via si articolano e si complicano: così il blu è più giovane del rosso.
Allo stesso modo i nuovi colori della moda parigina di allora, il color crema o il fraise écraisé, non sono ancora entrati nella lingua degli scrittori e dei poeti, non sono ancora diventati metafore inconsce come tutte le altre parole del linguaggio (Beiträge, ed. 1999, II, pp 683-689). La parola intesa come metafora, come nel testo di Nietzsche Verità e menzogna e forse derivata proprio dalla lettura di questo scritto (o della comune lettura dell’opera di Gustav Gerber sul linguaggio come arte), lascia intravedere uno sguardo derisorio e scettico che propone un esempio curioso a dimostrazione dell’inganno del linguaggio: «wenn Blaubeeren grün sind, sind sie rot» (Beiträge, ed. 1999, II, p. 492). Per liberarsi dalla gabbia del linguaggio l’uomo dovrà andare oltre la parola, lo scetticismo di Mauthner lo porterà a una mistica senza Dio, nella quale, come non vi sono nomi adeguati per le cose del mondo, non vi è nome per un Dio.
Franz Marc, Cane sdraiato nella neve, 1910.
Già in questi pochi accenni si può capire perché Wittgenstein nel Tractatus scrive che «tutta la filosofia è “critica del linguaggio”. Ma non nel senso di Mauthner» (4.0031). Ci sono molte analogie tra il pensiero di Mauthner e la riflessione di Wittgenstein, molte le metafore che costui riprende dai Beiträge, come l’immagine della scala che si deve buttare dopo esserci saliti o il paragone tra il linguaggio e la città. Al tempo del Tractatus, la costruzione logica del rapporto tra linguaggio e mondo è però molto lontana dallo scetticismo radicale di Mauthner e il riferimento all’aspetto mistico ha un senso del tutto diverso; dagli scritti successivi di Wittgenstein, dalla fine degli anni Venti in avanti, si potrebbe dire invece che i due hanno praticato la critica del linguaggio nel medesimo senso, come scrive il critico Gerson Weiler.
Torna il tema del colore che qui accenno soltanto. Esso assume particolare importanza proprio nella revisione del Tractatus: “A è rosso e nel contempo A è blu” è una contraddizione logica? A partire da questa domanda ne sorgono molte altre che vengono riprese nell’ultimo testo che l’autore dedica interamente al nostro tema: Osservazioni sui colori (trad. it. di Mario Trinchero, introduzione di Aldo Gargani, Einaudi, Torino 1981). Perché non riusciamo a pensare a un verde che dà sul rosso?
Perché non esiste un bianco trasparente? Perché il grigio non è luminoso? Logico ed empirico si confondono e si scambiano di posto, la ricerca non pretende una conclusione finale, si ferma sugli esempi, sui giochi del linguaggio, sulle diverse regole che vigono nella grammatica del colore, sulla possibilità di pensare concetti diversi da quelli consueti. Si ha la sensazione che la filosofia consista proprio in questo continuo domandare, in questa ricerca di un “giusto” piano del discorso, una giustezza che molto assomiglia a quella del colore giusto che il pittore ha cercato a lungo per completare il suo quadro.