Il 25 settembre del 1972, a Buenos Aires, Alejandra Pizarnik sceglie di uccidersi, con una dose letale di Seconal. Aveva compiuto 36 anni in aprile. Tra i suoi ultimi testi, un appunto, un’unghiata: “non voglio andare/ nulla più/ che fino al fondo”. Dieci anni prima, a Parigi, spesso accompagnata da Julio Cortázar, aveva fatto amicizia con il gran teatro della cultura europea. Traduceva autori congeniali: Artaud, Michaux, Bonnefoy. Aveva stretto un legame arcangelico con Cristina Campo, sviluppatosi in uno scambio epistolare di rara intensità, che è un doppio assassinio non pubblicare. Le sue poesie, con il tempo, sono diventate ‘di culto’; così il libro spesso riedito in Italia, “La figlia dell’insonnia” (Crocetti). Nell’introduzione a “Albero di Diana” (1962), Octavio Paz scrisse che “L’albero di Diana è trasparente e non proietta ombra. Possiede luce propria, scintillante e breve. Nasce nelle terre riarse”. Pare una descrizione di Alejandra, che tutto divora, a tutto è inappetente, inarca il destino di chi ha luce propria. In attesa di una degna edizione dei diari e del tomo che raccolga l’intera opera poetica, proponiamo delle schegge da “Prosa completa” (Lumen, 2002; introduzione di Ana Nuño): traduzione e cura sono di Mercedes Ariza.

Cadere fino a toccare il fondo ultimo, desolato, fatto di un vecchio silenzio e di figure che dicono e ripetono qualcosa che allude a me, non capisco cosa, non capisco mai, nessuno capirebbe.

Quelle figure, disegnate da me su un muro, invece di sfoggiare la sublime immobilità che prima era il loro privilegio, adesso danzano e cantano perché hanno deciso di cambiare la propria natura (se la natura esiste, se il cambiamento, se la decisione…).

Per questo ci sono nelle mie notti voci nelle ossa e anche, ed è questo che mi affligge, visioni di parole scritte ma che si muovono, combattono, danzano, versano sangue; poi le vedo andare con le stampelle, in brandelli, corte dei miracoli dalla a alla z, alfabeto di miserie, alfabeto di crudeltà… Quella che avrebbe dovuto cantare si arcua nel silenzio, mentre nelle loro dita si sussurra, nei loro cuori si mormora, nella loro pelle un lamento non cessa…

(Occorre conoscere questo luogo di metamorfosi per capire perché mi affliggo in una maniera così complicata.)

1964

Tragedia

Con il fruscio degli occhi delle bambole mossi dal vento così forte che li faceva aprire e chiudere un po’. Io mi trovavo nel piccolo giardino triangolare e prendevo il tè con le mie bambole e con la morte. Ma chi è quella dama vestita di blu con la faccia blu e naso blu e labbra blu e denti blu e unghie blu e seni blu con i capezzoli dorati? È la mia maestra di canto. Ma chi è quella dama dai velluti rossi con la faccia come un piede che emette particelle di suoni e poggia le sue dita sui rettangoli di madreperla che scendono e si sentono suoni, gli stessi suoni? È la mia professoressa di pianoforte e sono sicura che sotto i suoi velluti rossi non ci sia nulla, è nuda con la sua faccia come un piede e così andrà a spasso le domeniche in un grande triciclo rosso con un sedile di velluto rosso stringendo quel sedile con le gambe sempre più strette como pinze fino a che il triciclo gli si infilerà dentro e mai più si vedrà.

1966

La verità del bosco

Come un golfo di soli questo spazio ermetico e trasparente: una sfera di cristallo con il sole dentro; con un corpo dorato (un assente, caro tu) con una testa dove brillano gli occhi più blu davanti al sole nella sfera trasparente.

L’azione si svolge nel deserto e tanto sola attraversai la mia infanzia come cappuccetto rosso il bosco prima dell’incontro feroce. Tanto sola portando un cesto, quanta innocenza, quanto decoro e quanta disposizione, ma ci divorarono tutti perché e poi a cosa servono le parole se non possono constatare che ci divorarono? – disse la nonna.

Il bosco non è verde ma è nel cervello. La nonna diede alla luce mia madre che a sua volta mise al mondo me e tutto grazie alla mia immaginazione. Ma lì, nel mio piccolo teatro, il lupo le divorò. In quanto al lupo, lo ritagliai e lo incollai sul mio quaderno di scuola. Insomma, in questa vita mi devono ancora la festa.

“Ma a questo chiami vita?” disse la nonna.

1966

*

Schizzo

Assomiglio a certi animali che vivono soltanto di notte.

Chiedo solo una cosa, ed è tutto: guarda il chiarore, il sole.

Non mi mancano gli occhi per constatare che qui il sole è sole, il verde è verde e quando questo diventa rosso, è rosso.

Non è necessario comprendere molto. Ti amo. Cos’altro potei fare se non estrarti dalla notte?

Mi hai preso dalla notte?

Avevo un coltello e lasciai che il mio gesto continuasse al posto della mia lingua.

Ho verificato quanto possa somigliare a un maiale un uomo in agonia.

Esattamente come un maiale, dissi.

Ma lui non rispondeva e guardava con occhi abbruttiti. Guardava prima il sole e dopo me.

1970

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