Presentato con qualche polemica alle Giornate degli Autori durante l’ultima Mostra del Cinema di Venezia, Marcia su Roma è strutturato in un modo che potremmo definire – si parva licet – a prosimetro. Diretta dal regista e critico cinematografico irlandese Mark Cousins, ormai celebre in tutto il mondo per i suoi monumentali documentari di taglio storiografico (The Story of Film: an Odyssey, del 2011, supera all’incirca le 15 ore; Women Make Film: A New Road Movie Through Cinema, del 2020, ne dura 14), la docu-fiction contrappunta riprese “dal vero” e di finzione prodotte nel 1922 a un monologo interpretato da Alba Rohrwacher e a scorci della Roma attuale. Nella peculiare indagine storico-cinematografica di Cousins, narrata in inglese in voice over e articolata in sei capitoli, questi tre registri si alternano per tutta la durata del film.
Il primo registro, il più vasto per numero di testimoni, è quello del found footage, il documentario di montaggio che sfrutta materiale cinematografico e fotografico d’epoca. In particolare, è scelto e analizzato – meglio: sezionato – alla moviola il film A noi! Con le Camicie Nere dalla sagra di Napoli alla conquista di Roma, sorta di instant movie diretto da Umberto Paradisi e prodotto dal Partito nazionale fascista. Gli fa da contraltare il coevo È piccerella, della regista napoletana Elvira (Coda) Notari, tra le autrici più significative del muto italiano. Quest’ultima pellicola è espressione di un’Italia sottoproletaria e caotica che Cousins pone quale alternativa alle coreografie ordinate degli squadristi, spesso filmati in plotoni disciplinati. Denominatore comune tra le due pellicole è proprio l’ambientazione nella città vesuviana, che Paradisi ritrae nella fase dell’ammassamento fascista, prodromo del minaccioso viaggio verso la capitale.
Non manca il confronto con le produzioni internazionali distribuite al cinema esattamente cento anni fa. Si citano gli hollywoodiani Giorno di paga (Payday, C. Chaplin), Nanuk l’esquimese (Nanook of the North, R. Flaherty), la produzione tedesca Gli stigmatizzati (Die Gezeichneten) del regista danese C.T. Dreyer e il monumentale La rue del francese Abel Gance. A questi film, prodotti nel fatale 1922, seguono pellicole espressione dei due grandi totalitarismi novecenteschi, da un lato il sovietico La corazzata Potëmkin (1925, S.M. Ėjzenštejn), dall’altro il nazista Il trionfo della volontà (Triumph des Willens, 1935) diretto da Leni Riefenstahl.
Del dopoguerra italiano sono scelti, soprattutto per il loro significato di revisione socio-politica del passato fascista, Il conformista (1970) di Bernardo Bertolucci, il dimenticato Il delitto Matteotti (1973, Florestano Vancini, con la perturbante performance di Mario Adorf nel ruolo di Mussolini), l’immancabile Salò (1976) pasoliniano, Una giornata particolare (1977) di Ettore Scola e la produzione albanese Sketerre ’43 (1980) di Rikard Ljarja dedicata all’occupazione italiana dello stato balcanico. È infine valorizzato Il potere, il misconosciuto lungometraggio di Augusto Tretti prodotto nel 1972, ovvero cinquant’anni dopo la marcia squadrista.
Queste pellicole sono di volta in volta affiancate a materiali di non-fiction, cinegiornali e documentari prodotti dall’Istituto Luce e all’estero, che narrano i momenti notevoli del ventennio fascista: è mostrato tra l’altro Hailé Selassié, l’esiliato imperatore etiope, mentre viene fischiato all’assemblea ginevrina della Società delle Nazioni dai giornalisti italiani, con l’intento di impedirne il discorso. Segue la carrellata di documenti filmici che dimostrano la fortuna del format mussoliniano, replicato da Salazar in Portogallo, da Hidaka in Giappone, da Franco in Spagna, sino al debutto del tragico partner in crime Aldof Hitler.
In questo mosaico formato da tessere di varia pezzatura e importanza, il film tenta di mettere ordine in un caos di eventi drammatici e tragici. Purtroppo non tutto funziona. Per illustrare la tragica vicenda del rapimento del socialista Matteotti, ad esempio, Cousins utilizza una sequenza del film di Vancini: peccato che le immagini scelte a corredo mettano in scena il linciaggio di un (peraltro riconoscibile) Piero Gobetti.
Al resoconto documentario dell’epopea mussoliniana si alterna un secondo registro: il monologo intimista interpretato da Alba Rohrwacher, ripreso in primo piano e a colori. Una cronaca che si fa storia, tratteggiando una graduale presa di coscienza destinata a trasformarsi in delusione dopo un inizio carico di aspettative. La figura femminile rappresenta una testimone ideale e al tempo stesso una vittima del regime, necessario contraltare al fallocentrismo misogino fascista.
Cousins insiste infatti sul machismo del dittatore, sulla similitudine tra la messinscena del regime, nelle fasi trionfanti e autocelebrative, con la sublimazione di una supposta potenza sessuale. Una potenza che è però alterata, così dichiara testualmente il narratore, dagli effetti erettili del Viagra (!). Un riferimento chiaro e inequivocabile a un sostanziale artificio: la facciata circense del regime mussoliniano. Non è certo una novità (la memoria corre subito all’Eros e Priapo di Gadda), ma l’autore sembra accontentarsi proprio di questi “effetti dopanti”, ovvero dalla superficialità voluta e nutrita dal regime. Una lettura che pare trovare ragione nell’evocativo obelisco celebrativo del capo del fascismo, tutt’ora in piedi negli spazi del Foro italico (già Foro Mussolini); ma che lascia tuttavia in sospeso, convitato di (altrettanta) pietra, l’aspetto del consenso popolare, autentico e comprovato da decenni di analisi e studi.
E, a proposito di stereotipi storiografici, non può mancare il riferimento a Gabriele D’Annunzio, colto in un supposto ruolo di “precursore” della marcia su Roma, prontamente subordinato alla vicenda pubblica di Mussolini. In questo caso è rappresentato come un duce “che non ce l’ha fatta”, sconfitto sul filo di lana dai fascisti, che proprio grazie alla marcia avrebbero impedito il complotto golpista con a capo il Vate organizzato per il 4 novembre, anniversario della vittoria italiana nella Guerra mondiale. Chiunque conosca minimamente le vicende che riguardano il poeta, sa che l’immediato dopoguerra e l’impresa fiumana non sono questioni che si possano liquidare facilmente, tanto più utilizzando il filtro mussoliniano; ma certo, riporre D’Annunzio tra i cattivi della storia è assai più semplice e risolutivo.
Ancor più insidiosa, tuttavia, è la tesi avanzata da Cousins rispetto all’attuale panorama socio-politico italiano (ancora pre-elettorale, ça va sans dire): argomento sdrucciolevole, se non pregiudiziale. Dal punto di vista formale, questa tesi corrisponde ad alcune vedute “rubate” alla vita della Roma odierna. Immagini colte da un obiettivo nascosto, un occhio che spia, quintessenza del cinema come pratica voyeuristica: uno stratagemma che però sembra accontentarsi del proprio compiacimento.
Cousins insiste sulla guerra tra fazioni contrapposte che si esprimono a colpi di slogan fascisti e antifascisti scritti sui muri romani; si sofferma sui mosaici inneggianti al duce che ricoprono superfici pubbliche, parte del paesaggio urbano attuale; pedina alcuni tifosi della Lazio, limitandosi ad alludere simpatie estremiste. Infine si sposta all’EUR, luogo simbolico e cinematografico che ha avuto più vite, soprattutto nel dopoguerra, nonostante le origini legate all’abortita Esposizione Universale del 1942: pensiamo alle scorribande dell’Anitona protagonista di un celeberrimo quanto bizzarro kaijū felliniano (Le tentazioni del dottor Antonio, in Boccaccio 70, 1962), o a Pasolini, che addirittura vi prese casa.
Confessando il proprio disagio, il regista decide di riprendere in modo sghembo le linee rette del cosiddetto Colosseo quadrato (una strizzata d’occhio alla cancel culture?), a mo’ di esorcismo storico nei confronti di una struttura architettonica definita “conformista”. Cousins indugia su alcuni esempi di restauro di recenti decorazioni fasciste, si sofferma su tombini con tanto di fascio littorio in rilievo: pare asserire che, in fondo, agli italiani di oggi va bene tenersi le scorie del passato ingombranti a causa di una sottovalutazione del fascismo storico, che proprio per questo rimarrebbe una sorta di tumore tanto quiescente quanto pericoloso.
Dopo aver messo a disposizione dello spettatore un essenziale florilegio di dichiarazioni di personalità straniere, fatalmente sedotte dal dittatore italiano (dal celebre plauso pubblico pronunciato da Churchill all’intimo omaggio a Mussolini inviato da Freud), Cousins cala il documentario nella contemporaneità, tessendo parallelismi tra alcune personalità politiche di ieri e di oggi.
I legami talvolta appaiono pertinenti e documentati, talaltra più pretestuosi: Mussolini è rappresentato come una sorta di materiale radioattivo sottovalutato soprattutto da chi se ne serve senza conoscerlo (lo dimostra Donald Trump, che ne cita un motto per comporre un incauto tweet). Il film spinge poi la corrispondenza ieri/oggi sino a Putin e ai leader di estrema destra dell’Europa contemporanea (tra cui spiccano Marine Le Pen e Giorgia Meloni), ponendo tutti su uno stesso piano inclinato che condurrebbe verso una democrazia a bassa intensità. Una tesi improntata a un’omogeneizzazione un po’ grossolana, che livella le differenze storiche e non sembra cogliere le peculiarità del presente.
Per quanto basato su un presupposto convintamente antifascista, con il suo incedere compassato e severo Marcia su Roma sembra rivolgersi quasi esclusivamente a un pubblico di area anglofona, e più in particolare a chi non ha un pregresso totalitario nella propria storia recente. O perlomeno così viene da pensare, davanti all’insistita incredulità di Cousins ogni volta che tra i marmi della capitale italiana s’imbatte in qualche relitto scultoreo e architettonico sopravvissuto al passato fascista. Uno sguardo straniero e straniato insomma, a tratti persino “orientalizzante” ed esotizzante, sulla Storia italiana.