Quando Jules Borelli incontra Arthur Rimbaud, il 9 febbraio del 1887, il poeta non è più poeta da tanto tempo, è sul fronte di un disastro finanziario. Per oltre un anno, tra Aden e Tagiura, ha progettato un viaggio nello Scioa, in Etiopia centrale; lo scopo: vendere armi a Menelik, sovrano di rara scaltrezza, impegnato in una lunga lotta contro il Regno d’Italia. Il viaggio accade tra mille difficoltà, troppi ritardi, 34 cammellieri, 30 cammelli, oltre duemila fucili, per lo più di scarso conio. Menelik fa girare a vuoto Rimbaud, dice di non aver bisogno dei suoi servigi, infine acquista le armi a prezzo stracciato.
Arthur Rimbaud lavora tra Aden e Harar dal 1880, viaggia, in forme sfrenate, dal 1875; due anni prima, abbandonata nei magazzini dell’editore Poot, a Bruxelles, l’edizione di Une Saison en enfer, specie di monito e di congedo, di hic et nunc, di aut aut, di Monte Analogo.
Jules Borelli conosce Rimbaud ad Ancober, una delle capitali del Regno di Scioa. Ufficialmente è lì anche lui, insieme a un socio di passaggio, per vendere armi all’elusivo reggente; in realtà la sua missione è esplorativa, geografica: giungere nei recessi etiopi, fin dove alcun occidentale si è sporto. Borelli aveva con sé una lettera di Menelik, fregiata con il simbolo dell’Impero d’Etiopia, il superbo Leone di Giuda.
“Un nuovo arrivato. Rimbaud, mercante francese, giunto con la sua carovana da Tagiura. Noie e guai non gli sono stati risparmiati. Ogni volta il medesimo programma: condotta malvagia, avidità e tradimento dei propri uomini, vessazioni e privazioni, tracotanza dei cammellieri. Il nostro connazionale vive ad Harar. Conosce l’arabo, parla l’amarico e l’oromoo. È instancabile. L’attitudine ad apprendere le lingue, la grande forza di volontà, l’inesausta pazienza lo rendono uno tra i viaggiatori più esperti”.
Segue la cruda verità dei giorni: “Gli Isa-Somali hanno massacrato Baudet, secondo sottoufficiale al comando del Pingouin, e otto marinai della flotta”.
Rimbaud e Borelli si sondano, si studiano, fanno amicizia. Sono quasi coetanei – Borelli, classe 1852, è di due anni più anziano –, entrambi spiritati da un sogno, più o meno sopito. Borelli viene da Marsiglia, da una famiglia altoborghese di origini piemontesi. Se Rimbaud molla, ragazzino, la provincia per tuffarsi a capofitto nella capitale, Borelli lascia Parigi – dove i genitori lo avevano inviato a studiare – per il mondo intero. Quindicenne, s’imbarca come mozzo su una goletta con destinazione San Francisco, da lì trova un ingaggio su una baleniera, valica lo stretto di Bering, torna in Francia nel 1873, quando Rimbaud è a Londra, insieme a Verlaine. Da lì Borelli, senza altra ispirazione che il vagabondaggio verso luoghi insoliti, salpa per le Mauritius, poi arriva in India; passa il capo di Buona Speranza, attracca a Sant’Elena, poi lo troviamo in Madagascar, infine nel Caucaso, in Russia. Lo sconvolge la visione del Sahara. Grazie alle dritte del fratello più grande, Octave – giureconsulto specializzato in questioni finanziarie, dal 1879 alla corte del Chedivé d’Egitto –, si fa concedere, da parte del Ministro dell’istruzione pubblica, il permesso di avventurarsi nell’Africa orientale.
“Il modo come il connazionale aveva vissuto l’avventura e come l’aveva superata, il coraggio nell’affrontare da solo un viaggio tanto periglioso, fu per Rimbaud il migliore passaporto presso Borelli. Per avere vinto tante prove, gli fu facile capire che aveva davanti a sé un uomo dotato di una rara forza di carattere e di energia e ne fu subito conquistato”.
Carlo Zaghi, “Rimbaud in Africa”, Guida, 1993, p. 350
Il legame tra Borelli e Rimbaud si consolida nel regno di Menelik, al cospetto di una disfatta. Insieme, rincorrono Menelik a Entotto; nel frattempo, il sovrano è andato alla guerra. Borelli racconta la visita presso alcuni monaci (melouksi) alle pendici del monte Zuqualla: “Sparsi su un lato della montagna, recitano preghiere, si riuniscono per condividere i canti. I loro digiuni sono frequenti e rigorosi. Non hanno regole, non sono vincolati da alcun voto: quando a qualcuno cessa di piacere la comune esistenza, si ritira tra i monaci, sul monte”. Borelli, in cambio di “pane e birra”, offre al priore di quell’eremitaggio un’immagine di Santa Caterina.
Il 30 aprile, da Entotto, Borelli si rimette in marcia, “finalmente autorizzato”, con Rimbaud. “Il mio teodolite è ingombrante, ma non lo perdo di vista, temo possa rompersi. A seconda della natura del sentiero, lo faccio caricare su un mulo o portare da un uomo”. Il viaggio dura tre settimane, sotto il sole estenuante e defezioni continue – “sei uomini mancano all’appello: tiriamo qualche colpo di fucile, accendiamo un vasto fuoco, alimentato da alberi morti e erba secca”, appunta l’esploratore l’8 maggio. Borelli è affascinato dagli elefanti, dall’autorevolezza delle guide, dall’avvenenza del leone: “La paura del leone spesso ci inebria, ci tiene svegli, ad alimentare fuochi sempre più ampi”. Il cibo è scarso: “Gli abitanti delle capanne rifiutano di condividere con noi quel che hanno; ci facciamo bastare il durokch, una specie di pane essiccato al sole, che si conserva a lungo e si sbriciola appena arriva alla bocca”. Non è raro, la sera, ascoltare “l’infernale concerto delle iene: bestie spesso di grossa taglia, feroci, che attaccano l’uomo quando è isolato” (19 maggio).
Il 21 maggio, Rimbaud e Borelli si lasciano, “ai margini di una foresta, sulle rive dello Yabatta, il più piccolo dei tre laghi prossimi ad Harar”. L’esploratore fa una tappa a Karamile, piccolo villaggio dove fu assassinato, nel 1880, Édouard-Henri Lucereau, geografo e avventuriero francese, autore di Trois voyages dans l’Afrique occidentale: Sénégal, Gambie, Casamance, Gabon, Ogooué, immortalato in una fotografia, presso l’Hotel de l’Univers di Aden, proprio con Rimbaud. Borelli procede nei suoi viaggi esplorativi: ascende il Wechacha, scala il Dandi, un vulcano inattivo, soggiorna a Gimma; studia la struttura idrografica di quella zona di Etiopia.
Il 25 settembre, ad Harar, incontra ancora Rimbaud, “mi offre un’ospitalità cordiale”. Insieme, osservano la pioggia: “Durante la notte, gli acquazzoni sono memorabili”. Le note di Borelli rendono ragione del clima umano di quei luoghi: “Gli abissini odiano tutti gli europei e non perdono occasione, quando ne hanno l’opportunità, di far loro del male”. Riesce a partire da Harar, verso Jaldessa, grazie alla generosità di Rimbaud che “mi fa trovare cammelli pronti”. Non si vedranno mai più. Il fratello di Borelli, Octave, pubblicherà sul giornale del Cairo di cui è responsabile, “Le Bosphore égyptien”, alcune note di viaggio di Rimbaud.
Quando, presso Quantin, a Parigi, Borelli raccoglie il suo Journal de mon voyage, resoconto di quattro anni di esplorazioni, sotto il titolo Éthiopie méridionale, Rimbaud, piccolo commerciante ad Aden, comincia a soffrire di un insostenibile male al ginocchio. È il tardo 1890: Borelli viene nominato cavaliere della Légion d’honneur per i servigi geografici resi alla Francia. L’anno dopo, Rimbaud è trasferito all’ospedale Conception di Marsiglia, dove morirà, dopo mesi massacranti. Marsiglia: la città natale di Borelli, principio di precipizi; chissà se l’esploratore ha fatto visita all’antico amico, chissà se è venuto a sapere del suo male.
Sono diverse le testimonianze di commercianti ed esploratori che hanno incrociato Arthur Rimbaud nella sua vita africana. Ugo Ferrandi, esploratore novarese, massone, che attraversò Eritrea e Somalia, ricorda, nel 1913, il Rimbaud “arabista e poliglotta dottissimo” che “spiegava e commentava il Corano gli indigeni”. Giovanni Battista Olivoni, operario ad Harar nel 1890, ricorda un Rimbaud “spaventosamente magro, abbronzato” con “abiti mal fatti, enormi per lui”, “tenuto per abile commerciante, uomo astuto e danaroso”. Della vita africana di Rimbaud sappiamo tutto, giorno per giorno: la setacciamo per rintracciare la nostra defezione alla vita più che il suo tradimento alla poesia. Secondo alcuni, è l’Africa il coronamento della poetica di Rimbaud, la sua superba realizzazione. Eppure, Aden non è un Eden, Harar non è Katmandu, l’Africa rimbaudiana non è l’India di Hermann Hesse né la Tangeri dei beat. L’Africa di Rimbaud non è neanche il cuore di tenebra di Conrad, il senso dell’insensatezza, il magnetico magistero dell’orrore, orrore. Tutto pare poco romanzesco, poco poetico, bensì brutale, come lo è la vita, come chi vuole ferrare i cavalli del fato. Su Rimbaud in Africa (Guida, 1993) ha scritto uno studio minuzioso e straordinario per mole documentaria – sono 910 pagine – lo storico Carlo Zaghi (1910-2004). Tirando le conclusioni, vien fuori una verità “ridotta e modesta”, riassunta così:
“Rimbaud in Africa, nel campo dei commerci e delle esplorazioni non ha né il peso, né lo spessore, né l’importanza che la sorella Isabella gli attribuisce; né ha lasciato orme profonde nel campo della ricerca geografica, né ha realizzato la fortuna economica ch’essa gli attribuisce… Come viaggiatore, un Sotiris, un Sacconi, un Borelli, e un Traversi, che nell’Ogaden e nei paesi galla toccarono estremi fino allora non ancora raggiunti, e che restano, gli sono nettamente superiori… La verità è che in Africa Orientale, al Harar come allo Scioa, Rimbaud è un isolato e, come commerciante e viaggiatore, protagonista di un’avventura senza storia. C’è in lui qualcosa d’inafferrabile che lo distacca e lo distingue da tutti quelli che gli sono accanto”.
Che in questa solitudine, in questo status di avventuriero senza storia, di figura inafferrabile, realizzata in “quel suo eterno riserbo” sia l’autentica poetica di Rimbaud, sarà il lettore a dirlo. Ogni frase, appiccicata ai piedi di Arthur, prende il volo di un romanzo.
Isolato dal resto degli scaltri, audaci europei in cerca di fortune nell’Africa incontaminata, Rimbaud, tuttavia, intuì il bagliore di un amicizia con Borelli.
“Schivo, riservato, quasi timido, Rimbaud, pur parlando molte lingue (l’inglese, l’italiano, il tedesco, lo spagnolo) e molti idiomi africani, non fece mai sentire a nessuno il peso della sua cultura. È singolare però che appena viene a contatto con uomini che sente al suo livello culturale, vere e rare anime solitarie in mezzo ad un mondo tanto aspro, ecco che la sua vita vibra e si apre. Siamo lontani, è vero, dalle confessioni spontanee, dagli abbandoni; ma è sufficiente a far sentire all’interlocutore d’essere in presenza di un individuo d’estrazione diversa dal mondo circostante. Il suo incontro con Borelli è illuminante al riguardo”.
Anche la vita di Jules Borelli, in qualche modo, è segnata da uno scisma inesorabile. Ritornato a Marsiglia, nel marzo del 1892 attraversa il Mediterraneo su uno iole, dalla città francese fino a Roma. Ne trae un ciclo di conferenze, De Marseille à Rome en canot. Compiva quarant’anni, non viaggiò più. Preferì ritirarsi nella dimora di famiglia, chiamata per gioco “Château Borelli”, sulle colline di Saint-Tropez. Si diede alla pittura di paesaggi, preferiva Cézanne, Gauguin, Henri Rousseau. Non gli importava esporre né esporsi. Nel 1928 fu costretto a vendere il maniero; morì a Marsiglia nel 1941, pluriottantenne – il suo amico Rimbaud era morto cinquant’anni prima. Tutti, ormai, lo onoravano come il più grande poeta di Francia – quanto a lui, preferiva l’uomo, l’amico, quel ragazzo perduto, in Africa.