Fu a Pietroburgo che apparve la denuncia, nero su bianco, il 24 marzo 1930, nell’edizione serale della Krasnaja Gazeta (Gazzetta Rossa) che titolava: “Una strega in cattedra”. La strega sbattuta in prima pagina si chiamava Marija Judina, ebrea di nascita ma cristiano-ortodossa per libera conversione e per costumi. Infatti vestiva di nero, come una monaca, a parte le scarpe da ginnastica. Portava sempre una piccola croce di legno appesa al collo. Pare avesse l’abitudine di coricarsi in una vasca da bagno, il che, fra tante scemenze scritte sul suo conto, non era una calunnia, viste le ristrettezze in cui viveva. Farsi della vasca da bagno uno scomodo letto era comunque preferibile alla coabitazione forzata dalla penuria di alloggi.
Solo qualche anno prima, lo stesso giornale l’aveva definita “la futura stella del pianismo mondiale”. Nel cuore di tanti era già una stella. Il veleno dell’articolista paralizzò di paura il direttore del Conservatorio di Pietroburgo, dove Marija Judina insegnava, amata dagli allievi e stimata dai colleghi, invidie a parte. Questo direttore, che certo non era nato col cuore d’un leone e avrebbe potuto essere chiamato compagno Abbondio, la licenziò, con tutta probabilità preventivamente, nel silenzio vigliacco di quasi tutti i colleghi, proprio come di lì a poco sarebbe accaduto ad altri professori ebrei, ‘stavolta non in Russia, bensì nel “bel paese là dove ‘sì suona”. Ovviamente il licenziamento di Marija Judina non fu a causa razziale – dopotutto Karl Marx era nipote del rabbino capo di Treviri – bensì paranoico-demenziale. Unica voce contraria fu quella del suo maestro, Leonid Nikolaev, che protestò, forse sommessamente, visti i tempi in cui la gente spariva come per magia, ma protestò.
All’accusa di stregoneria bisognerebbe aggiungere quella di eresia, perché Marija Judina trasgrediva i canoni musicali dell’ortodossia socialista, preferendo alla tradizione compositori come Bartòk, Hindemith, Stravinskij. Chissà cosa mai avrebbe pubblicato quel giornale, specializzato nella caccia alle streghe, se in redazione avesse avuto una sfera di cristallo con cui poterla spiare nel futuro! Perché tre anni dopo – racconta Giuseppina Manin – Marija Judina si ritrovò a compiere una missione clandestina nel sottosuolo di Mosca per conto di uno che di lì a poco sarebbe stato arrestato con l’accusa di spacciare “l’oppio dei popoli”. In verità era del puro genio, ciò che costui spargeva a piene mani. Egli era un Leonardo da Vinci, in quanto a ingegno. Era padre Pavel Florenskij, uno spirito libero, grande amico e riferimento sicuro di Marija Judina.
In procinto di partire per “la terra sconosciuta da cui nessun viaggiatore ritorna”, l’aveva arruolata in una sorta di catena di San Sergio di Radonež, il monaco più venerato in Russia (insieme a Serafino di Sarov). Le sue reliquie correvano il pericolo di venire profanate. Il primo anello della catena era stato lo stesso padre Florenskij, nel 1919, quando Lenin, non avendo abbastanza problemi da risolvere, aveva aggiunto un capitolo al “Che fare?” dedicandolo alla necessità di sradicare la superstizione nel paese dei soviet. Così era cominciata la caccia alle reliquie. Proprio lui, il grande Lenin, che un giorno, suo malgrado, e malgrado l’opposizione della moglie, sarebbe stato imbalsamato, l’unico advocatus conciato come la mummia d’un faraone (se il Presidente dell’Ordine delle “coscienze prese a noleggio” è a conoscenza di un altro caso, me lo comunichi e sarà mia cura fare ammenda e rettificare). “Così s’osserva (in Lenin) lo contrappasso”, mi viene da dire. Ma ritorniamo a padre Pavel Florenskij, primo anello della catena mediatica.
Saputo della persecuzione in arrivo, nottetempo, nella cattedrale di San Sergio di Radonež, egli era sceso con due complici nella cripta del santo monaco, aveva scoperchiato la bara d’argento e, dopo una preghiera, con un coltellaccio lo aveva decollato. Al fine di ingannare l’ispezione cimiteriale degli inquisitori delle reliquie, prevista per il giorno seguente, i nostri cospiratori avevano sostituito la testa di San Sergio con quella di un principe, il quale però nemmeno se ne accorse, poiché anche lui era già morto.
Questo trafugamento a fine devozionale e precauzionale ci racconta Giuseppina Manin e forma, già di per sé, un piccolo gioiello nel romanzo. Per cui passo e chiudo l’episodio con l’ultimo anello della catena salvifica: l’inconsapevole Marija Judina che, molti anni dopo, avrebbe preso la sotterranea moscovita con la testa di San Sergio celata in una borsa, sotto la verdura, precisamente i porri. Con grande sollievo consegnò la borsa a chi le era stato indicato, in una certa stazione del metrò. E con quale stupefazione apprese, alla fine dell’avventura, quel che aveva clandestinamente trasportato! Immaginiamoci se l’avesse fermata la milizia, o magari l’NKVD, padre del KGB: come spiegare che non era poi una strega, ma solo una pianista devota. Però sono certo che mai e poi mai avrebbe fatto la spia denunciando Pavel Florenskij. Questa volta però, forse, non l’avrebbe salvata nemmeno quel santo estimatore che aveva al Cremlino. Intendo Stalin che una sera l’aveva ascoltata alla radio interpretare il concerto per pianoforte e orchestra in la maggiore K 488 di Mozart e ne era rimasto incantato, stregato dal suo tocco magico. Stalin aveva subito telefonato in teatro spargendo il terrore, questa volta forse suo malgrado. Chiese se c’era una registrazione del concerto e il ricevitore gli rispose “senz’altro, compagno Stalin!”. Non era vero. Il concerto era stato trasmesso in diretta. Per cui l’orchestra fu richiamata a squilli di tromba e anche la concertista. Il mattino seguente, Stalin aveva il suo disco registrato.
Scrisse di suo pugno a Marija Judina un semplice biglietto di ammirazione e di ringraziamento. Sapendola “in povertà sua lieta”, ricca di sola fama, Stalin aggiunse ventimila rubli, dei quali Marija Judina fece subito buon uso donandoli a scopo di carità al pope della sua parrocchia, San Nicola dei Fabbri, la chiesa di Tolstòj. E di seguito scrisse a Stalin:
“Iosif Vissarionovič, vi ringrazio per il vostro aiuto. Pregherò per voi giorno e notte, chiedendo al Signore di perdonare i grandi peccati che avete commesso nei confronti del popolo e del Paese. Il Signore è misericordioso e vi perdonerà. Quanto al denaro, l’ho dato alla chiesa che frequento. Marija Veniaminovna Judina”.
Ci vuole del candore sovraumano, più che del coraggio umanamente inteso, per indirizzare una tale lettera alla reincarnazione di Boris Godunov, lo zar che forse in cuor suo Stalin ammirava. Credo che nessuno degli amici problematici di Marija né alcun altro dissidente avrebbe mai osato scrivere una simile lettera. Non ci avrebbero neanche pensato. E invece, cosa sarà mai passato per la mente di Stalin leggendo la risposta al suo gesto, tutto sommato, ammirato e cortese? Giuseppina Manin cerca di immaginarlo e credo immagini qualcosa di verosimile: Stalin potrebbe aver veduto in Marija Judina “l’artista che vede quel che gli altri non vedono, che grida quel che gli altri tacciono. Nessuno deve toccarlo, perché questo non verrebbe mai perdonato”. In una parola, una jurodivaja, una pazzerella di Cristo.
“Marija ha le stimmate della jurodivaja, la versione femminile jurodivyj, lo stolto di Cristo, un carattere chiave in quel paese di pazzi che è la Russia… I suoi jurodivyj, Judina, Šostakovič, i miracolati dell’arte che osano sfidarlo a costo della vita, Stalin li difende, anche contro il parere dei cortigiani troppo zelanti. Quando hanno provato ad arrestare Pasternak si era opposto intimando: ‘è un beato, un abitante del cielo, non toccatelo’”.
E grazie al cielo non lo fecero, altrimenti un editore comunista, Giangiacomo Feltrinelli, un giorno che allora appariva lontano e impossibile a divenire, non avrebbe potuto pubblicare Il dottor Zivago!
Ma Stalin è una cosa e lo stalinismo persino qualcosa di peggio, dove un collega che vuol farti le scarpe può farti la pelle, dove un vicino invidioso del tuo appartamento può farti arrestare, dove qualunque canaglia ti può denunciare e credersi un piccolo Stalin. Potremmo chiamarla emulazione socialista, non fosse vero, quel che scrivo soprattutto a proposito di certi vili caratteri umani, in qualunque epoca e sotto qualsivoglia regime. Marija Judina, anima grande e generosa, fece buon uso non solo dei rubli di Stalin ma soprattutto dei talenti che il cielo le aveva donato. Come quando suonò, con tutta la sua anima dolente, per Maxim Gor’kij, affinché lo scrittore più considerato, influente e politicamente affidabile del tempo intercedesse per Michail Bachtinche era stato condannato a dieci anni alle Isole Solovki. Così poi scrisse:
“Quel giorno ho capito fino in fondo quel verso del mio amato Dante: ‘…e come è duro calle lo scendere e ‘l salire per l’altrui scale…’ Ho suonato tutto quello che mi chiedeva: Bach, Schumann… Alla fine mi ha baciato la mano. A quel punto ho capito che Bachtin era salvo. Almeno dal gelo delle Solovki…”.
Fra i tanti personaggi e tanti volti che Giuseppina Manin evoca (tanto per usare un termine caro agli spiritisti!), richiama in vita e a cui dà voce, ce n’è uno che vorrei a mia volta evocare, in queste mie impressioni di lettura, questa mia emozione, più che recensione. Si tratta della nobile anima dell’allievo che Marijaavrebbe dovuto sposare, per puro e reciproco amore: Kirill Georgevic Saltikov. Ma poiché “quando l’uomo fa progetti Dio ride”, come recita un amaro e un po’ blasfemo proverbio yiddish, la bella storia fra Marija e Kirill finì tragicamente, benché “più forte della morte” sia l’amore.
Complice la Notte, l’appassionante romanzo sulla vita di Marija Judina, è l’affresco di un mondo che sembra passato ma che in fondo permane e sempre sarà, sino alla fine dei tempi. Un mondo di grandi speranze e tragiche delusioni, di raro eroismo e tanta viltà, della bellezza contro le brutture, della verità contro la menzogna, della musica delle sfere celesti contro la cacofonia dilagante qui sulla terra, una terra insanguinata dove, a Dio piacendo, di tanto in tanto, di rado e sempre più raramente, nasce una strega come Marija Judina che lascia la sua impronta, come a giustificare agli occhi del cielo la nostra esistenza, o la nostra povera sopravvivenza.