Ha scritto Maurice Blanchot che è solo nella morte che il defunto comincia a rassomigliare a sé stesso, sino ad arrivare ad affermare che “il cadavere è la propria immagine”. I vivi sarebbero del tutto privi di somiglianza. Eppure, se c’è stato un uomo che ha costruito da vivo la propria somiglianza, questo è stato Silvio Berlusconi. Per lui l’immagine era tutto, così ha lungamente modellato il proprio corpo per essere l’immagine più perfetta di sé. Con una intuizione formidabile ha compreso che doveva in ogni caso e in ogni momento avere quella immagine che si legava per lui all’essere un Capo, sia che fosse il proprietario di una società immobiliare come di una televisione commerciale, il fondatore di un partito personale come il Presidente del Consiglio dell’Italia.
Avere un’immagine è necessario se si è, o si vuole essere, un capo, senza immagine non c’è il Capo. Italo Calvino l’aveva scritto in anni non sospetti, quando ancora nessuno avrebbe immaginato che dopo il corpo del Duce avremmo avuto il corpo di Berlusconi al centro della nostra vita politica, come in quella immaginaria. Parlando a memoria dei copricapi di Benito Mussolini, dalla tuba di Primo ministro all’elmetto del combattente della Seconda guerra mondiale, lo scrittore ligure riconosceva l’importanza dell’uso del corpo e in specifico l’immagine del corpo per costruire un leader politico.
Una lezione che Berlusconi aveva ben chiara sin dagli anni Sessanta quando si faceva fotografare da Alberto Roveri negli uffici della Edilnord in posa da uomo d’affari: capello lungo, nonostante l’incipiente calvizie, e le mani incrociate l’una sopra l’altra in segno di forza. Il sorriso era già stampato sul suo viso, un sorriso che partiva più dagli occhi che non dalle labbra, perché è stato con lo sguardo che Silvio ha comunicato prima di tutto sé stesso e ha sedotto i propri interlocutori. Prima della parola viene l’immagine, quella fotografica, per quanto Sua Emittenza con le parole ci sapesse fare da perfetto pubblicitario di sé stesso: “bisogna avere il sole in tasca”, diceva ai suoi venditori. E infatti è stato col corpo che ha comunicato sé stesso a un paese abbacinato da questo uomo piccolo, decisamente bruttino, con due orecchie grandi coperte, fin che ha potuto, dai capelli, anche quelli persi ma ripiantati sul capo, poiché i capelli sono stati per lui il segno di un potere, così da non potervi mai rinunciare al prezzo di una chirurgia estetica che l’aveva reso negli ultimi due decenni della sua vita una sorta di mummia inespressiva dal colorito brunito.
L’essere in vita è stato il senso stesso del suo essere: a qualunque costo e in qualsiasi modo, sino a questo giorno in cui non ha potuto rimandare l’incontro con la fissità di sé, quella che inseguiva da sempre in immagine e che alla fine l’ha raggiunto nello stato finale che per tutti è la morte.
La spiegazione del fascino esercitato da questo uomo di cultura media, di media altezza, di media intelligenza, ma dotato di una formidabile ambizione che confina con l’astuzia, da un lato, e con la spregiudicatezza, dall’altro, e che è tutt’uno con il cinismo, un cinismo senza confini se non quelli posti dalla sua stessa esistenza condotta sempre ignorando i limiti imposti dall’essere un uomo in carne e ossa, che l’immagine ogni volta trapassa col suo potere di alterare il rapporto con la realtà.
Le immagini sono quanto di più permanente ci sia, perché il loro potere agisce nella mente di chi le ha osservate ben al di là della loro stessa presenza. Si chiama immaginario, e dell’immaginario sociale e politico italiano negli ultimi trent’anni Silvio Berlusconi è stato il padrone: l’uomo delle apparenze. Il mondo stesso è apparenza, e senza l’apparenza non ci sarebbe nulla: né quadri né fotografie, né cinema né realtà virtuale. Il potere si esercita attraverso l’immagine come sanno le religioni iconiche, il cattolicesimo in primis, mentre nel mondo aniconico del protestantesimo, e prima ancora dell’ebraismo seppur diversamente, a governare i singoli e le nazioni è altro: il potere, il denaro, l’idea d’un dio terribile che certifica il destino di ciascuno in forme imperscrutabili.
Berlusconi, il più cattolico dei politici italiani, ben più dei democristiani che lo hanno preceduto nella costruzione del miracolo italiano. Silvio era un uomo degli anni Sessanta che ha saputo inventare gli Ottanta senza dover pagare pegno alla Chiesa o al potere religioso, perché la sua religione è stata quella della televisione e del consumo di immagini, premessa indispensabile per il consumo degli oggetti e delle cose. La televisione possiede un potere captativo irrefrenabile, la televisione come intrattenimento, come incultura, come “Colpo grosso” e le altre innumerevoli trasmissioni che Silvio e la sua corte di immaginatori ha saputo creare e far prosperare: “l’immaginazione al potere”, era scritto sui muri del Maggio parigino del 1968.
In una sua frase Hannah Arendt, costretta dal nazismo a incontrare il regno del Capitale in terra, emigrando forzatamente in America, ha siglato il senso stesso del potere berlusconiano, quello dell’uomo medio, comune, dell’everyman: “La società moderna, nella sua disperata incapacità di formulare giudizi, è destinata a prendere ogni individuo per ciò che egli stesso si considera e si professa e a giudicarlo su questa base”. Berlusconi considerava sé stesso un gigante, non aveva il minimo dubbio, sia che facesse deviare il decollo degli aerei su Milano 2 per costruire la sua città ideale del neocapitalismo, sia che convincesse Bettino Craxi a consegnargli le chiavi della televisione commerciale su scala italiana. Era convinto che il potere di persuasione è superiore alla realtà stessa, e che questa la si può modellare così come ha fatto col proprio corpo. Il Corpo, poi, è diventato lui stesso il dio della contemporaneità con tutto quello che comporta.
Così l’ex imprenditore edile si è presentato all’appuntamento con la Storia forte dell’assenza di giudizio dei suoi simili e con la convinzione che l’immagine che stava costruendo di sé sarebbe stata più forte e potente di qualsiasi altra forza in campo. Una cosa di sicuro ha compreso seppure in modo intuitivo, mai profondo: la natura biopsichica dell’Italia, il paese della mamma, dell’eterno femminino, dell’immaturità, della credenza e dell’illusione. Una natura profondamente radicata nel nostro paesaggio, nel clima, nella forma stessa dell’Italia, lo Stivale che Berlusconi ha indossato senza colpo ferire, come se nessuno potesse arrestarne l’irresistibile ascesa. Se nel Medioevo esisteva la credenza taumaturgica dei Re di Francia, capaci di guarire dalle scrofole la pelle dei sudditi, nella modernità, nel capitalismo, non può funzionare in modo analogo il tocco del Re Mida di Arcore e delle sue televisioni: il sogno di diventare belli e ricchi nel corso di una notte soltanto? Certo, c’era stato lo star system di Hollywood, il divismo così acutamente analizzato da Edgard Morin, ma che con i medesimi ingredienti si potesse fabbricare un leader politico, questa è stata la novità imposta di Berlusconi. Certo, c’era stato Mussolini con la sua politica dell’immagine, ma quella era una dittatura custodita dalla polizia segreta con carcerazione, confino e assassinio politico. Berlusconi è stato un uomo dei tempi nuovi, così nuovi che lui stesso non è stato sempre in grado di anticiparli e dirigerli. Tanto quanto è stato innovativo nella comunicazione, tanto è stato anche un uomo del passato. Forse proprio in questa commistione di futuro e passato, sta il segreto della sua durata nel tempo. Come ha scritto Morin una star è bella perché è una star – basta guardare i cantanti per capirlo –, perciò una volta fabbricata la star sarà sempre bella. Una cosa così semplice che si stenta a credere che possa funzionare. Invece ha funzionato e anche a lungo.
Cosa dire ora che il corpo del Capo ha cessato di vivere? Che era già un corpo morto? E non perché alimentato e conservato oltre sé stesso nella lotta con la malattia. Non è questo il tema principale che la scomparsa di Berlusconi ci pone. Nella società postmoderna nulla più scompare a causa della fine o della morte, ha scritto Jean Baudrillard, piuttosto “per proliferazione, contaminazione, saturazione e trasparenza”. La morte, che pure batte implacabile alle porte, è stata da sempre esclusa dall’ordine dell’immaginario di Silvio Berlusconi. Morte e scomparsa sono due modalità diverse di “cessare d’essere”, ha scritto Zygmunt Bauman parlando della politica dell’immortalità del contemporaneo. Berlusconi è entrato nel regno warholiano della ripetizione: “Nel mondo in cui lo scomparire ha sostituito il morire, l’immortalità si dissolve nella malinconia della presenza, nella monotonia dell’interminabile ripetizione”. Il corpo del Capo resterà presso di noi nonostante che Silvio abbia preso congedo. Era proprio quello che voleva diventando Immagine.