In principio era Anna Karenina. Anzi, il principio era proprio l’inizio di Anna Karenina, troppo celebre per essere citato ancora una volta, ma facciamolo comunque: «Tutte le famiglie felici si assomigliano; ogni famiglia infelice è infelice in modo particolare». Così lo cita in un suo saggio sull’Aforisma narrativo Giuseppe Pontiggia, che quest’anno ricordiamo nel ventennale della scomparsa: un anno sovraffollato, diciamo la verità, tra il centenario della nascita di Calvino, il centocinquantesimo dalla morte di Manzoni e il cinquantesimo da quella di Gadda, per lasciare spazio adeguato a uno scrittore che avrebbe meritato più attenzione e più lettori, collocato com’è in quella linea mediana, lontana tanto dallo sperimentalismo quanto dall’ossessione lessicale, spesso rimpianta come poco praticata dalla nostra letteratura. A dire il vero, un po’ di sperimentalismo Pontiggia l’ha sfiorato, e ultimamente gli è stato riconosciuto anche per il primo romanzo, La morte in banca, che aveva iniziato a scrivere non ancora ventenne e che gli aveva guadagnato l’incoraggiamento di Vittorini. Ora lo trovate presentato come modello tra i primi di «romanzo aziendale», e sottoposto nientemeno che all’analisi della «narratologia cognitivista», che gli assegnerebbe un ruolo notevole nel tentativo di «filtrare le forme della tradizione» verso il passaggio alla nuova realtà industriale degli anni Cinquanta. Anche il suo libro più difficile, L’arte della fuga, è stato interpretato come una deriva dello sperimentalismo decostruzionista, che reinventa la forma-romanzo proiettandola in una molteplicità di situazioni narrative assecondate da mirabolanti varietà linguistiche. Fruttero e Lucentini ne avevano salutato la seconda edizione, nel 1990, presentandolo come il primo e unico «poemetto poliziesco» che sia mai stato scritto. Dalla tentazione di farne un campione del romanzo sperimentale, associandolo cioè alla fatica e alla diffidenza imposte al lettore per convincerlo di essere entrato in una specie di club esclusivo, lo salvava però la scrittura, rifuggendo Pontiggia dalle «stramberie maccheroniche» che rappresentano «un po’ il fatale culdisacchismo di ogni avanguardia». L’italiano in circolazione, concludevano, basta a Pontiggia (e questo vale anche a spiegare la “linea mediana” che si diceva sopra) «per stendere dialoghi di gnostica levigatezza, per enunciare sibillini groppi esistenziali, paradossi beffardamente insondabili, lapidari enigmi».
Il paradosso e l’enigma sono due ottimi viatici anche per quello che resta per noi il Pontiggia migliore, quello dei grandi romanzi della maturità, a partire dal Giocatore invisibile, e della scrittura saggistica. Possiamo così tornare all’inizio di Anna Karenina, e al saggio sull’Aforisma narrativo che si legge, raccolto con altre riflessioni sul senso della scrittura e della letteratura, nell’Isola volante (1996). Pontiggia annota di non avere mai dimenticato quell’incipit, e di essersi interrogato più volte sulle ragioni della sua «memorabilità». Annodando il filo di un ragionamento che funziona proprio in ragione della sua mancata evidenza, richiama una delle sue rabdomantiche letture, l’Introduzione alla logica di Irving Copi, con il caso, che gli era rimasto ben impresso, di una ragazzina alla quale avevano più volte raccomandato di pensare prima di parlare, con la sua splendida risposta: «Come posso sapere che cosa penso finché non sento quello che dico?». Ancorando così il pensiero alle parole, Pontiggia si trova concorde con gran parte dell’attuale filosofia del linguaggio, secondo cui pensare è (appunto) verbalizzare. Fino a rendere partecipi le parole di una sorta di alone iniziatico, come scriverà nella Prefazione alla raccolta degli Scrittori italiani di aforismi di Gino Ruozzi: «Io credo a un destino divinatorio implicito nelle radici delle parole e nelle prime onde della loro propagazione». Càpita così che le parole di un personaggio, anche quando l’autore sembra lontano dal lasciarsi coinvolgere, riflettano proprio una «complicità interna» tra i due, e tanto più quando le parole si traducono «in riflessioni ellittiche, in ricapitolazioni fulminee». Pontiggia le chiama anche «chiose aforistiche», e sa bene che questa «sentenziosità ambigua, in cui l’aforisticità del personaggio si fonde con quella dell’autore», è un tratto costante della sua scrittura: e cita, per risalire alle radici di questo procedimento, il Flaubert di Madame Bovary, quando decantava le sensazioni confuse della protagonista «con una lucidità che lei non poteva possedere».
Un viatico, si diceva. Ma guardate bene a quel poco che si è messo insieme fino ad ora: l’incipit di Anna Karenina è un aforisma, e chiaramente del tipo “condiviso” tra autore e personaggio, come ci fa certi Tolstoj nel brano che subito gli tiene dietro, dove scioglie (sono le parole di Pontiggia) «quella epigrafe incorporata nel testo, nel senso che fa corpo con esso»: «Tutto era sottosopra in casa Oblonskij. La moglie aveva appreso la relazione del marito con la governante francese che era stata al loro servizio e gli aveva dichiarato che non poteva più vivere nella stessa casa accanto a lui». E Madame Bovary è un’adultera, anzi il prototipo della forma moderna dell’adulterio. Eccoci così al punto. La riflessione sulle ricapitolazioni fulminee dei personaggi di romanzo indirizza in via prioritaria, come per una sorta di automatismo, al tema del tradimento, punto focale dello scontro tra morale comune e morale individuale, e in quanto tale tema privilegiato da un autore che non ha mai nascosto come quel nodo rappresenti per lui la cifra essenziale del suo raccontare il mondo. In un saggio del Giardino delle Esperidi Pontiggia discute della qualità distintiva del moralista, quella cioè di «arrendersi alla verità». E nelle Sabbie immobili precisa: «arrendersi alla verità, qualunque essa sia. Quella che faceva constatare a La Rochefoucauld: “Sono poche le donne oneste che non siano stanche del loro mestiere”». Non è curioso che abbia selezionato proprio questo scampolo dal grande serbatoio delle Maximes? No, dato che potremmo farci la stessa domanda anche a proposito della Coscienza di Zeno, dalla quale ancora nelle Sabbie immobili richiamava un passo non meno significativo, quando il narratore vorrebbe confessare alla moglie di avere un’amante, ma lo fa «con tale chiarezza maschile, che lei non capisce e si allontana ignara». E a quel punto, mentre ci saremmo aspettati la frase «Io glielo avevo detto, ma lei non aveva capito», Zeno ribalta la prospettiva: «Lei non aveva capito, ma io glielo avevo detto». Così, commenta Pontiggia, «capovolgendo la sintassi, capovolge un mondo».
«Come tutti i grandi mentitori, aspirava alla sincerità». Sembrerebbe l’epigrafe perfetta per la frase di Zeno, ma è invece una delle «chiose aforistiche» disseminate nei romanzi di Pontiggia, a conferma che quell’uscita di Svevo l’aveva in mente da sempre. Nella Grande sera viene attribuita a un collega del protagonista, Campisi. Campisi è coinvolto nelle indagini sulla sua fuga, e nonostante le proprie doti di mentitore seriale scoprirà come il collega scomparso, di cui viene sistematicamente taciuto il nome, sia stato capace di ben altre performance. La moglie tradita con un’amante, e questa a sua volta tradita da un’altra più giovane, e a entrambe promessa una vita futura, di ricchezze e passioni, e poi quella fuga, inattesa da chiunque, su cui il romanzo, certo una delle prove migliori di Pontiggia, si chiude, come un perfetto giallo psicologico che allinea sospetti e indizi, ma che ci lascia incerti sulla stessa realtà del delitto. Nel cap. XVIII, il minuzioso ritratto di Campisi è puntellato da queste chiose, e tutte volgono a costruire un’imago mundi di paradossale realismo: «si lamentava con misura, prodigo della sola ironia che tutti apprezzano, quella contro se stesso»; «inventava dettagli a mano a mano che vi era costretto. E non aveva mai la percezione di tradire la verità, quanto di integrarla». Nel Giocatore invisibile il tradimento è la recensione anonima che un professore legge su una rivista specializzata, opera di qualcuno che ne conosce bene i punti deboli, e l’indagine che segue smonta una a una le sue povere certezze su colleghi e allievi. Persino sulla moglie, che una lettera anonima gli rivela infedele: «Siamo sempre traditi», legge allibito, convinto com’era di essere lui solo il fedifrago, con la giovane allieva che sperava di ottenerne l’appoggio per qualche concorso: e, del resto, se l’era andata a cercare, come la ragazza gli confermerà: «Ma tu credi alle statistiche oppure a quello che mi hai detto una volta, che il tradimento è alla base della vita?».
Il tradimento è il motore anche del Raggio verde, che riprende un fatto di cronaca del 1927, con la storia di un evaso che denuncia i complici che l’hanno ospitato e li farà arrestare. Il romanzo inizia con il proprietario del rustico al centro della vicenda, che riceve la telefonata fatale proprio mentre sta uscendo di casa per incontrare l’amante. Ma qui il tradimento gioca la sua partita con il Tradimento, e impone al lettore, inevitabilmente, il riconoscimento di una gerarchia. È questo a far sì che le piccole miserie coniugali («coniugium, ovvero, alla lettera, tutti e due sotto lo stesso giogo»: Le sabbie immobili), se non accettabili, siano almeno giustificabili. Pontiggia, come Flaubert, sa perdonare, e anche se pochi come lui hanno riflettuto tanto sul Tradimento, di cui quello con la minuscola è solo la componente transeunte (altra importanza è quella assegnata ai tradimenti del destino, come sanno i lettori di Nati due volte), la sua stessa vocazione “mediana” gli impedisce ogni eccesso di coinvolgimento. La verità di Pontiggia non è quella, emotiva e passionale, dell’immedesimazione, come preferiva Flaubert con la sua Bovary, ma quella, più scientifica, dell’inventore: «Non ho interesse per quello che mi è successo, ho interesse per quello che capita sulla pagina. Mi piace inventare nel senso etimologico di invenire, trovare», dirà in un’intervista. E per la nostra narrativa non è stata una conquista da poco. Basterà accorgersene.