Uno dei primi e più famosi motti della civiltà occidentale è probabilmente l’iscrizione onciale che, secondo l’apostolo Giovanni (Gv 19, 19), Pilato ordinò di inchiodare insieme al corpo martoriato di Cristo alla sommità della croce lignea issata sul Golgota: Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum (Gesù il Nazareno, il re dei Giudei). L’evangelista dice pure che “il luogo dove Gesù fu crocifisso era vicino alla città” (Gv 19, 20), perciò, per rendere la scritta comprensibile anche alla gente che veniva da quelle parti, il titulus crucis fu scritto in tre lingue diverse: l’ebraico, il latino e il greco. Insomma, non fu trascurato nulla per garantire ai posteri la memoria di un’atrocità.
Tralasciando i motti dell’araldica, che li accolse per rafforzare con la parola il blasone sugli stemmi gentilizi e per contraddistinguere censo e casata di provenienza di chi ne faceva uso, anche un gran numero di filosofi adottò il nobile vezzo di lasciarsi rappresentare da una frase o semplicemente da una parola di riconoscimento che dichiarasse in breve il proprio status oppure l’adesione a questo o a quel modello di vita filosofica. Il tono aulico e severo del latino – l’esperanto dei dotti – fece il resto, e del motto consacrò le intenzioni e lo scopo.
Tra il XVII e XVIII secolo i libertini fecero loro il noto motto “Intus ut libet, foris ut moris” (“In privato secondo il piacere, in pubblico secondo i costumi”), mentre il più cauto motto ovidiano “Bene vixit qui bene latuit” (“Ha vissuto bene colui che bene si è nascosto” – Ovidio, Tristia III, 4, 25) fece gola a Cartesio che, dopotutto, amava la tranquillità, i mascheramenti (Larvatus prodeo) e i cambi d’identità (“René Jochems” fu il suo alter ego sul registro delle nascite accanto al nome della figlia Francine avuta da Hélène Jans van der Strom).
Se non un fermo ateismo, che tuttavia gli costò qualche accusa e un paio di processi finiti in un nulla di fatto, una considerevole dose di aristotelismo fu invece il vanto di Cesare Cremonini. Questo filosofo naturalista che confidava più nella ragione che nella grazia di Dio, e che tra i suoi allievi a Padova ebbe Giulio Cesare Vanini – quello sì un ateo eretico degno di rogo –, sulla tomba volle scolpito l’epitaffio “Hic iacet Cremoninus totus” (“Qui giace Cremonini interamente”), come per dire che sotto terra si era portato anche l’anima e non soltanto le ossa. A Genova, al Cimitero Monumentale di Staglieno, dove tra l’altro sono sepolti anche Giuseppe Mazzini, Nino Bixio e Fabrizio De Andrè, la pietra che tumula le spoglie del filosofo Giuseppe Rensi (1871-1943) reca, in forma contratta, il verso dell’apostolo Matteo “Etsi omnes, non ego” (“Anche se tutti, non io” – Mt 26, 33), un motto che, nella sua concisione, brilla di dissenso e scetticismo. Eppure non sempre le ammissioni di un motto furono chiare e ben recepite. Anzi, in qualche caso fu addirittura motivo di dispiacere, calamita di invidia, calunnie e maldicenze.
Accadde a Erasmo da Rotterdam (1466-1563), infatti, di doversi difendere dagli attacchi biliosi di alcuni suoi detrattori e di dover dare conto del motto “Concedo nulli” (“Non cedo a nessuno”) nel quale si riconosceva perfettamente. Da sempre riluttante alle competizioni, poco incline alle discussioni accese o alle dispute verbali, timido e riservato, “uomo tutto spirito, figurina pergamenacea, macilenta, fragile e raggomitolata” (S. Zweig, Trionfo e tragedia di Erasmo da Rotterdam), insensibile alla bellezza muliebre, Erasmo conosceva e apprezzava una sola forza, un solo indomito desiderio, una sola feconda attrazione, quella per i libri. L’acquisto di libri, in particolare di autori greci, “viene prima di quello degli abiti”, scriveva a un amico. Ai suoi tempi, di lui si diceva che fosse “[…] homo valde doctus in omni scibili omnique doctrinarum genere” (Epistolae obscurorum virorum, XLII, 17-19), ossia “uomo dottissimo in ogni sapere e in qualsiasi genere di disciplina”. Insomma, i giorni migliori Erasmo li passava in compagnia dei suoi in folio oppure, quando venne in Italia, nel laboratorio di Aldo Manuzio a Venezia, lo stesso che nel 1508 pubblicò la prima edizione dei suoi Adagia.
Probabilmente fu proprio da Manuzio che “un italiano esperto di cose antiche” gli fece conoscere il nome e il significato dell’effige del dio romano Terminus scolpito sulla pietra incastonata in uno degli anelli che con vanità femminile portava alle dita, dono di gratitudine del suo pupillo Alexander Stewart, figlio illegittimo di Giacomo IV, re di Scozia. E tutto cominciò proprio con quel dio che veglia sui confini, divinità che, sotto forma di stele o cippo, attesta il limite oltre cui non è possibile andare, il nume il cui sacellum al Campidoglio – lo racconta Tito Livio in Ad urbe condita, libro I, 55 – resistette alla profanazione (exaugurare fana) degli uccelli quando Tarquinio Prisco decise che sarebbe stato demolito per far sorgere al suo posto un tempio in onore di Giove. La storia di Terminus piacque a Erasmo, cosicché l’effige del dio che non si piega al potere o all’altrui volontà divenne il suo marchio di riconoscimento al quale – gli bastò un attimo! – aggiunse il motto latino “Concedo nulli”.
La schiera dei litigiosi (philàitioi) sicofanti non apprezzò. Considerò questa ostentazione di intransigenza una vanità superiore a quella della somma erudizione esibita per iscritto in qualità di teologo o di esegeta biblico. Insomma, il dio Terminus non gli portò fortuna ed Erasmo, a cui giunse la calunniosa eco di parole intolerabilis arrogantiae, trovò sfogo e sponda nell’amico Alfonso Valdes al quale, nell’agosto del 1528, scrisse l’Epistola apologetica de Termini sui inscriptione “Concedo nulli”. Le accuse dei suoi detrattori lo colpirono nell’orgoglio, e sentì il dovere e la necessità di chiarire alcuni punti per pareggiare la partita.
In punta di calamo cesellò la sua retorica da maestro e, senza tirarla troppo per le lunghe, raschiò le morchie del pettegolezzo intorno alla sua superbia. Inoltre, da gran signore, si disse ben disposto a fare pace con gli accusatori e addirittura favorevole a cambiare motto ed effige al suo sigillum se quelli che “con occhi chiusi criticano ciò che non vedono, né hanno compreso” avessero infine curato il loro morbo della gelosia. Chiedersi ora come si sia conclusa la faccenda risulterebbe quanto meno superfluo, giacché il profilo spettinato dell’inamovibile Terminus è ancora orgogliosamente scolpito sulla pietra lucida della cripta che conserva le spoglie di Erasmo nella medievale Cattedrale di Basilea.
Come Erasmo, riservato, dall’indole proba e solitaria, anche Baruch Spinoza (1632-1677) si firmava con un motto. Il suo, però, aveva per lo più il tono di un ammonimento: “Caute” (“Sta’ attento” oppure “Fai attenzione”), che, per non essere frainteso, sul sigillo che chiudeva la sua corrispondenza figurava accompagnato dalla silhouette di una spinosa rosa selvatica. Ma a chi era rivolta quella raccomandazione? E perché tanta premurosa cautela?
Ebreo scomunicato (subì il chèrem, il bando dalla sinagoga, a soli ventiquattro anni confezionando un mirabile paradosso per uno il cui nome ebraico, Baruch, significa “benedetto”) e guardato con sospetto dai cristiani riformati d’Olanda; oggetto di un’aggressione all’arma bianca senza nefaste conseguenze se non per il tessuto del suo mantello e autore di libri che in molti, incluso il postulante Leibniz, consideravano pestiferi, promotori di un nascosto ateismo e sovvertitori “dalle fondamenta ogni culto e ogni religione” (Epistola XLII, gennaio 1671), prestare attenzione e fare appello alla prudenza era il minimo che Spinoza potesse fare. Per questi motivi, trascorse una vita piuttosto riservata nella tranquilla cittadina di Voorburg, nei pressi dell’Aja, abitando da pensionante in casa dei coniugi Van der Spijck (lui pittore, lei sarta) e mantenendosi con il lavoro di molatore di lenti, sicura e precisa pratica di lungimiranza.
Spinoza amalgamò una guardinga condotta della prudenza con la vita intemerata e nascosta degli epicurei, l’attenzione a non farsi troppi nemici con la fredda e spietata analisi della natura degli uomini e di Dio. Tutto questo era il suo Caute, un monito e un avvertimento prima di tutto a sé stesso e poi ai lettori delle sue carte. Quando non era esplicitamente messo in risalto, il motto era tra le righe del suo ricco epistolario: “[…] tacerò piuttosto che dare in pasto agli uomini le mie opinioni” oppure “[…] affinché esse siano rese di pubblica ragione senza che io corra alcun pericolo” (Epistola XIII, luglio 1663). E anche quando un amico intercedette presso di lui perché il giovane e intraprendente Leibniz si era dichiarato interessato a leggere i suoi scritti, Spinoza rispose con un Caute: “Reputo tuttavia imprudente di confidargli così presto i miei scritti” (Epistola LXXII, novembre 1675).
Eppure, il Caute fu presto disinnescato e corrotto dalla perversione diabolica e fanatica di alcune stolide personalità, uomini che non vedevano l’ora di metter bocca sulla vita –soprattutto su quella! –, o sulle opere del filosofo. Nel suo Dictionnaire historique et critique, che contiene la prima biografia di Spinoza, il filosofo Pierre Bayle, che pure gli riconosce una granitica onestà intellettuale e una austerità dei costumi, si affida alla vox populi, ai “si dice”, e di Spinoza scrive che “[…] si sa che ci sono state molte cose che sono poi apparse nel suo Trattato teologico-politico, […] libro pernicioso e detestabile, o che egli diffuse i semi dell’ateismo […]” (P. Bayle, voce Spinoza, in Op. cit., 1697). Ma chi davvero con viltà raggiunse lo scopo della denigrazione e toccò il fondo melmoso della calunnia fu un tale Johannes Köhler, un pastore della comunità luterana de L’Aja.
Questo Köhler che, con la consuetudine dei dotti, si faceva chiamare Colerus, andò ad abitare in casa della vedova Van Velen, uno dei primi posti in cui Spinoza trovò quel tranquillitatis amore di cui aveva bisogno dopo la scomunica e l’allontanamento dalla comunità ebraica. Forse non sopportò di lavorare nella stessa stanza dove probabilmente Spinoza dormì; forse dovette stizzirsi per qualche aneddoto che gli raccontarono oppure fu condizionato dalla lettura del Dizionario di Bayle, fatto è che alimentò verso il filosofo un feroce livore che depositò in quasi ogni pagina della sua Vita di Spinoza secondo Colerus (1705).
Il suo è un libriccino in cui mette in dubbio l’eleganza di Spinoza nell’abbigliamento, la sua onestà filosofica, in cui fa allusione ai debiti che altri dovettero pagare dopo la sua morte e infine, come al solito, con quella mancanza di stile e di originalità che condivise con chi venne prima e dopo di lui, lo accusa del peggior ateismo. Persino Goethe (Poesia e Verità, IV parte, libro XVI) rimase turbato da questa insulsa biografia e ricordò come Colerus, per rendere più efficace l’intento denigratorio del filosofo, nella pagina di fronte al titolo della sua opera aveva fatto stampare un ritratto deformato di Spinoza al quale aveva aggiunto l’umiliante epigrafe latina Signum reprobationis in vultu gerens, poiché credeva di aver scorto sul volto del filosofo il segno inconfutabile del vizio e della scelleratezza. Il Caute, insomma, fu sepolto da Colerus sotto quelle poche righe di ingiustificato livore, sostituito dall’indegna sopraffazione del suo fanatismo religioso senza che Spinoza, come in passato aveva fatto Erasmo, avesse avuto la possibilità di difendersi.
È vero, a Spinoza è stato poi ridato il maltolto, ma c’è voluto del tempo. Lessing, poi Hegel, Nietzsche… Novalis disse che trovava Spinoza “ubriaco di Dio”, e il nostro Piero Martinetti ci fa sapere che Renan osò addirittura scrivere che nessuno oltre Spinoza “[…] ha veduto Dio più da vicino”.