Dei personaggi di Fëdor Dostoevskij, Stefan Zweig diceva che erano
“tutti chiaroveggenti, tutti soggetti a telepatia, tutti allucinati, tutti visionari e fin nelle ultime profondità della loro natura tutti saturi di scienza psicologica”.
Di Franz Kafka, l’amata Milena Jesenská scriveva a Max Brod, in una lettera dei primi di agosto del 1920, che egli era “esposto a tutte le cose dalle quali noi siamo al riparo… come un individuo nudo tra individui vestiti (…)” e continuava affermando che non era “uomo che si costruisse la sua ascesi come mezzo per un fine”, ma “costretto all’ascesi della sua spaventosa chiaroveggenza, purezza e incapacità di scendere a compromessi”.
Vi era consapevolezza di quel comune tratto esistenziale?
“Parente di sangue”: così Franz chiamava Fëdor, con la stessa confidenza nell’uso del nome proprio che si userebbe con un fratello, e non c’è motivo di credere lo facesse per ossequio alla grande figura dello scrittore russo. Era persona troppo geometrica e inchiodata al paradosso, all’angoscia e alla chiaroveggenza per cedere al sollucchero. Lo era come fosse soggetto ad un sortilegio, ad uno stato di maledizione di cui non conosceva l’origine e lo sopportava, presumibilmente, come l’uomo comune sopporta le lunghe, infinite e ripetitive trasferte per recarsi al lavoro quotidiano: raccolto in una contrita rassegnazione.
Non si può fare a meno di visualizzare la sua esistenza come la morsa di una lacerante “incomprensione delle cause”, come permanenza in una condizione di vergogna che sopravvive all’esecuzione – quella cui va incontro il protagonista del suo Processo quando, pochi istanti prima di essere accoltellato al cuore dai suoi aguzzini, nota un incomodo spettatore affacciato ad una finestra. Franz è l’incarnazione di quell’impotente reo di un delitto ignoto, che fronteggia il preludio alla fine annegato nell’incomprensione e persino costretto a digerire la sorpresa di un destino che lo condanna al vilipendio e all’ignominia.
Si potrebbe dire che l’equivoco e l’incomprensione tra i personaggi, pressoché assente in Dostoevskij, sia la cifra stilistica del praghese, spinta ad un tale livello di profondità da ingenerare il dubbio che comprimari e secondari stiano rispetto al protagonista come uno sfondo sta al primo piano: qualcosa di intercambiabile, nemmeno umano, sostanzialmente neutro ad una storia che imbocca la sua strada a dispetto di qualunque previsione, definita da una forza che sfugge completamente alla logica.
Tra i due, tuttavia, gli elementi di contatto sono talmente profondi da esser chiari a Kafka stesso – solo per esser egli venuto a questo mondo dopo Dostoevskij; perché è quasi certo che se, per un accidente del destino, fosse avvenuto il contrario, anche il secondo avrebbe reciso il tempo con il suo sguardo acuminato, intravedendovi un’eredità genetica simile a quella di una contemporanea fratellanza.
L’influenza di Delitto e Castigo e dei Fratelli Karamazov sul Processo è penetrante. In entrambi gli scrittori l’uomo vive in uno stato di irrespingibile chiaroveggenza. Oggetto di quella capacità di penetrare il futuro è uno sguardo cui si rivelano visioni di ineluttabilità degli eventi, di sottomissione a presagi ferali, di predestinazione. Il destino qui ritratto è quello che vive nell’etimologia e nel significato sociale antico della parola greca ìstemi: stare fermo, fisso. L’irrimediabile persistenza del fato appartiene ai personaggi come elemento naturale e non v’è mai il momento di armonia con una materna natura o di consolazione nelle semplici e conviviali usanze che gli uomini fanno proprie come antidoto alla durezza del vivere. Vi è sempre e solo una ininterrotta catena di collegamento con il dopo, con ciò che è inevitabile, che sta per accadere e con le sue conseguenze.
L’angoscia investe i personaggi dostoevskiani e kafkiani, ma essi sono “destinati” ad un diverso epilogo, ad una diversa soluzione vitale. Quando tratti nei rari momenti di quiete, essi non sono mai esenti da un secondo piano esistenziale in cui covano, come braci coperte dalla cenere, silenti fiamme. Sono i semi di una futura follia, i segni di un prossimo esaurimento di forze e di una inevitabile sottomissione.
Rodion Romanovic Raskolnikov, Aleksej Ivànovic e Dmitri Karamazov sono attraversati interamente da serpeggianti sensazioni di inquietudine, avvertimenti, premonizioni, sensazioni e presagi ed essi si lasciano attraversare, non si oppongono a quel destino, nemmeno si domandano dove li porterà. In loro vive tutto l’eroismo, l’istintività e la rovinosa bellezza di un uomo che abbraccia la sua distruzione nell’eternità dell’attimo. I “K. – senza nome” di Kafka sono invece avviati ad una forma di espiazione, di panico esistenziale che li lascia sempre esclusi da una comprensione pervicacemente ricercata e delusi da un destino personale che è da sempre tristemente rivelato.
Se in Dostoevskij la scoperta del necessario percorso esistenziale, mentre si mostra, viene abbracciata dai protagonisti che lo riconoscono come proprio, per quanto funesto, in Kafka si avverte un tentativo di ribellione al paradosso, programmato per risolversi in una mortificazione delle aspettative. In lui, un epilogo intuito fin dall’inizio, svela all’ultimo un dettaglio agghiacciante che segna il confine tra chiaroveggenza, predestinazione e imprevedibilità degli eventi. L’uomo, dal canto suo, nel cercare di sciogliere i nodi dell’insondabilità del mondo, si accolla uno stato di angosciante tensione che, come una lente a fuoco, contribuisce a definire il profilo degli eventi e a rendere il trapasso finale lancinante.
Il mistero, che in Dostoevskij rappresenta il contraltare della realtà manifesta, come in una necessaria alternanza di luce e oscurità dell’universo, in Kafka assume i contorni della maledizione.
Entrambi benedetti dal talento, entrambi condannati ad una lucida osservazione del mondo, sospesa tra l’onirico e il reale, Kafka e Dostoevskij fanno sapiente commistione di quello sguardo nelle vicende dei loro controversi personaggi. Onerati di un occhio che sa penetrare la verità del mondo in modo solo vagamente immaginabile da uno sguardo terzo, sopravvive forse in loro – fratelli nella letteratura – una luce ad illuminarne, almeno a tratti, il percorso esistenziale? Anche Franz e Fëdor, in qualche modo, hanno conosciuto i fremiti dell’amore, la spensieratezza dell’infanzia e la gioia di una breve ed effimera gloria, celebrandoli in piena coerenza con il loro spirito. Le donne importanti della loro vita – Anna Grigor’evna Dostoevskaja e Milena Jesenska – ne avvertono il titanico spirito e nell’accogliere in sé quella imponente percezione riescono a generare un’eco per loro udibile. Quando si accorgono di non essere soli, gioia ed armonia li percorrono, anche se per poco.
Le situazioni estreme, paradossali, mostruose e gravi per cui Franz Kafka è consegnato alla storia della letteratura non tengono in nessun conto che, nell’incontro con l’innocenza di una bambina, egli è in grado di trasformarsi nel padre amorevole che non fu mai e di scrivere delle indimenticabili lettere alla bambola. Come dice Max Brod, emerge lì il profilo dell’uomo sensibile, restio ad arrendersi alla durezza del vivere. In quella
“tenue luce di stelle… si sentiva a casa, questa era la direzione in cui andava evolvendo, e che anelava. Fosse rimasto in vita, avremmo probabilmente vissuto svolte del tutto inattese della sua fantasia. Forse avrebbe anche smesso di scrivere e tutta la sua passione creatrice si sarebbe appagata nella forma di una vita beata”.
Per Dostoevskij non è poi così diverso. Le laceranti difficoltà, che attraversano i suoi personaggi nell’andare incontro ad un inesorabile epilogo esistenziale, oscurano completamente la figura del generoso uomo che fu. Magnanimo, volto al prossimo, disposto al sacrificio ben oltre la personale sconvenienza; ad un destino che non lo fa nascere sotto una buona stella, sa togliere ancora frammenti di quella poca fortuna per devolverli ad altri. Dona il poco che possiede a chi è più povero, non fa mai mancare un’attenzione e un gesto di benevolenza ai derelitti, rinuncia per sé, dove può favorire gli altri. Di quel tratto di bontà sconfinata e disinteressata, Anna avverte la trascendente consistenza, nei giorni delle convulse trascrizioni de Il giocatore. Esperienze di vita che si fanno carne e poi maestria ineguagliata nel dirne come scrittore. In quella doppia veste di uomo-poeta, veicolo delle verità del mondo, sa sfruttare i contrasti come occasione generativa e lo fa come nessun altro. Stefan Zweig nota che egli ci porta là dove “l’anima crede di non scorgere altro che contorni vaghi, che torbida realtà” e poi, “guardando più profondamente riconosce, con grande gioia, la vera luce: il sacro splendore che, come corona di martiri, sta sulle ultime cose della vita”. Solo così, perdendo il legame che lo avvince alle cose, abbandonandosi a se stesso, l’uomo acquisisce anche la bellezza unica (sacra) “dell’anima che è tratta nella nudità dell’essere”.
Fratelli nell’arte e nell’accidentato percorso esistenziale, i loro spiriti si sovrappongono, si avvicendano e si intersecano (ancora) nell’armonia atemporale di cui l’essere è dotato: una sorta di trascendente solidarietà esistenziale in cui i due sono uniti dall’eco eterna della loro letteratura.