Abbiamo visto Sorelle Mai diretto da Marco Bellocchio.
Uno degli eventi cinematografici del 1965 è stato il debutto di Marco Bellocchio con il film I pugni in tasca un film innovativo e da molti definito il manifesto anticipatore della contestazione. Ci credeva talmente tanto Bellocchio che se lo produsse vendendo per trenta milioni un appartamento. La storia era ambientata nello spazio chiuso, angosciante, di una famiglia borghese della provincia di Piacenza, in cui i cinque componenti erano senza pace, dal carattere autodistruttivo e malato. Tra le fortune di quel film ci fu la scelta dell’attore protagonista – al suo debutto – il colombiano-svedese Lou Castel (che come Bellocchio aveva un fratello gemello e che diventerà un attore-feticcio per tanto Cinema italiano e francese).
Dopo quarantacinque anni Bellocchio ritorna cinematograficamente al suo paese d’origine, Bobbio, porta con sé sullo schermo figli, fratelli, zie, e ritrova quel che resta della sua famiglia d’origine; ambienta questa piccola storia mettendone al centro le due anziane zie (sorelle del regista), per l’appunto le sorelle Mai, due loro nipoti (uno è Pierluigi, figlio di Bellocchio, l’altra è la brava Finocchiaro) che vivono uno a Roma e l’altra a Milano ma che tornano spesso alle origini per scopi anche economici, la figlia di lei (ultima figlia di Bellocchio), una bambina sola ma non triste che vive con ‘le zie’, e un vecchio amico di famiglia (Gianni Schicchi, visto anche in altri film di Bellocchio). Il film è diviso in sei episodi che vanno dal 1999 al 2008, cioè da quando la bambina Elena ha appena terminato le scuole elementari fino ai diciannove anni e questo da’ il senso del work in progress del film.
Girato per blocchi e frammenti, con direttori della fotografia diversi, in digitale e in alcuni passaggi un po’ confuso (come ad esempio il personaggio del nipote: cosa è? Un orafo? Un attore? Un regista? E se lo è diventato un regista di successo perché scappa e si fa picchiare per un debito di poco valore? E poi l’altra nipote si è portata a Milano la figlia come voleva fare? O l’ha lasciata alle zie in tutti questi anni?). Una storia minimale tra le mura di un vecchio palazzetto borghese, tre generazioni a confronto e un’analisi sulla famiglia bonario e accondiscendente che non ha più nulla della corrosiva analisi che Bellocchio aveva fatto con I Pugni in tasca (citato con delle immagini nel film, ma incomprensibile la funzionalità per chi ha visto quel film figuriamoci per chi non ne sa nulla). Eppure, al di là della ipocrisia, la famiglia oggi non è migliorata a confronto di quella di mezzo secolo fa, quindi dobbiamo dedurre che il regista è diventato con gli anni meno severo e più riconciliato. E questo non fa bene alla salute di un artista spesso contro, corrosivo e complesso. Seguendo il film ci accorgiamo che la storia è in alcuni passaggi impostata come fosse una partitura jazz, con improvvisi fraseggi e variabili, come il blocco che vede lo scrutinio finale di un liceo messo lì senza alcun motivo specifico se non per fare un discorso sull’attenzione che diamo agli altri, sulla chiusura verso il mondo esterno, sulla difficoltà di cambiare e per seguire la sempre brava e attraente Alba Rohrwacher. Il finale non banale e sicuramente in controtendenza ma non privo di voglia intellettualistica, sul genere Herzog anni Settanta. E tra un piccolo fatto e un altro, immagini di feste di paese, volti, piccoli scorci e soprattutto la crescita di Elena che da bimbetta si trasforma in giovane donna. Potremmo aggiungere che questo film – realizzato anche come saggio finale di studenti di cinema di “Fare Cinema” a Bobbio – potrebbe essere da insegnamento per come realizzare idee a basso costo per giovani registi, insomma Bellocchio da un piccolo saggio scolastico è riuscito a realizzare un piccolo film ‘giovanile’. Ma soprattutto è un divertissement autorale anche se un po’ troppo autoreferenziale.