Sul genere Western e il film Il Grinta (True grit) diretto dai Fratelli Coen.
Andare a vedere un film western è spesso come ritornare bambini, si torna ai primordi della civilizzazione, all’infanzia dei sentimenti e si accettano volentieri convenzioni e comportamenti originari che altrimenti troveremmo fastidiosi o troppo elementari negli altri generi cinematografici. Nel western molto spesso ci sono i cavalieri erranti che vanno o fuggono di città in città, hanno un solo vestito e come unica proprietà un cavallo e una pistola, sono spesso soli e si tengono compagnia con una bottiglia di whisky e un’armonica, parlano poco e dicono solo l’essenziale (un po’ come nel cinema d’autore degli Anni Sessanta, nella forma); rifuggono la modernità (la ferrovia, il telegrafo, la stampa e qualche volta muoiono schiacciati da un’infernale macchina chiamata automobile; La ballata di Cable Hogue). Sono spiriti liberi non per scelta ma per consequenzialità, perché sono nati e vivono tra scenari incontaminati e ambienti tra i più spettacolari al mondo. A volte si scontrano in duelli o trascorrono mesi a inseguire un bandito nel deserto o tra le montagne. Le donne che amano sono spesso complementari, aspettano, ma rappresentano la stabilità e le radici e la loro visione del femminile è sostanzialmente misogina e rispettosa allo stesso tempo.
Il Far west è una società che ha dei codici di onore e rifugge dalla legge (anch’essa vista come una conseguenza della civilizzazione), i personaggi solitamente hanno un ordine morale e sociale che non supera la famiglia o al massimo la piccola comunità in cui vivono (stanziale o nomade che sia, orizzontale o trasversale) e in questo ambito ristretto la reputazione dei singoli si fonda sulla solidarietà d’appartenenza, sulla violenza, sul coraggio e sulla generosità. E dal genere western ‘nascono‘ come variabili molti altri generi cinematografi come quello dei gangster, dell’hard boiled, del pulp, dell’on the road, di guerra, per segnalarne solo i più evidenti.
Culturalmente la visione mitica del selvaggio west è fatta risalire a Wild West and Congress of Rough Riders of the World (Il Selvaggio West e il convegno dei cavalieri più duri al mondo), lo spettacolo che Buffalo Bill portò in giro per il mondo a partire dal 1883. In letteratura l’inizio del genere è del 1902 con la pubblicazione de Il virginiano di Owen Wister, ma andando di qualche decennio indietro dobbiamo segnalare James Fenimore Cooper, autore nel 1826 de L’ultimo dei Mohicani; e ci sono altri scrittori americani di questo genere, da ricordare l’italo-americano Carlo Angelo Siringo (A Texas Cowboy: or, Fifteen Years on the Hurricane Deck of a Spanish Pony) e successivamente – arrivando fino agli Anni Settanta – gli scrittori Pearl Zane Grey (i suoi romanzi hanno venduto complessivamente duecentocinquanta milioni di copie), Louis L’Amour (Westward the Tide, The Californios). Ma come genere molto popolare, sin dal 1896 esistevano le “Pulp magazines”, che si potevano considerare eredi e continuatrici delle “dime novels”, già molto diffuse nell’Ottocento, quelle dedicate al western non hanno avuto una grande importanza fino al 1919, quando nacque la pubblicazione bimestrale illustrata del Western Story Magazine. Nel Cinema si può dire che il western nasca con l’inizio della prima industria cinematografica USA, il capostipide del filone è The great train robbery, un film muto diretto da Edwin S. Porter ed interpretato da Broncho Billy Anderson nel 1903, un film di soli 12 minuti girato nel New Jersey, con gli elementi classici che definirono il genere. In tutte queste manifestazione d’arte il western racconta il vero “animo americano“ con il suo senso di libertà, di onore e di violenza, con i miti della nuova frontiera, con la convinzione di avere sempre ragione e di essere nel giusto (una specie di familismo immorale collettivo) e la capacità di comunicare l’essenza più profonda dell’uomo “selvaggio“. Uno stile che ha dato “storia“ a un popolo che ancora storia non aveva; un genere cinematografico che per i primi decenni è stato sottovalutato e considerato solo come una forma di divertimento popolare. Certo dopo il periodo di David Griffith (Nascita di una nazione), Thomas Ince (The Indian Massacre) e Cecil De Mille (The Virginian), ma senza dimenticare film come I pionieri (1924) di James Cruze, Il cavallo d’acciaio (1924) di John Ford (Welles definì Ford “il poeta“) o Billy the Kid (1930) di King Vidor che avevano tenuto alta la qualità del loro lavoro, c’è stata una commercializzazione del western e nelle sale sono giunti film e filmacci di discutibile realizzazione e con l’unico scopo di fare quattrini e ‘svagare‘ il pubblico. Dagli Anni Venti fino alla fine dei Trenta sono stati realizzati qualcosa come 400 film, con momenti di alta e di bassa fino all’arrivo del capolavoro di Ford Ombre Rosse (1939 – che ridette splendore al genere, nonostante la classificazione rientrasse più nelle “Civil War Stories”, che al genere western puro). Poi il western ha continuato con capolavori come Sfida infernale (1946) di John Ford, Cielo Giallo di William A. Wellman, Mezzogiorno di fuoco (1952) di Fred Zinnemann, Il cavaliere della valle solitaria (1953) di George Stevens, e con questo film, per gli studiosi, si mostra un nuovo modo del genere, crepuscolare, un po’ decadente. Ed è sempre in questi anni che il genere western è stato analizzato e rivalutato dalla critica francese grazie al più importante degli studiosi, André Bazin su la Revue du Cinema e successivamente sui Cahiers du Cinema: considerarono questo genere come “il cinema americano per eccellenza” e una serie di autori (e attori) furono considerati maestri del Cinema come John Ford, Howard Hawks, Raoul Walsh, Anthony Mann, supportati da attori feticcio come John Wayne, James Stewart, Gary Cooper. Sono di questi anni film come Terra lontana (1954) di Anthony Mann, Sentieri selvaggi (1956), Un dollaro d’onore del 1959, di Hawks, Cavalcarono insieme (1961) e L’uomo che uccise Liberty Valance (1962) di John Ford, I magnifici sette (1960) di John Sturges, El Dorado (1967) di Howard Hawks. Ma contemporaneamente in questi anni Sessanta nasce e si autofagocita il western-spaghetti nato con Sergio Leone (che ha realizzato solo 4 film western), e che aveva molti più debiti narrativi con Akira Kurosawa che non con Ford e che ha creato un “sottogenere” che ha prodotto più di 400 film e di riverbero è nato anche il sottofilone tortilla-western (storie ambientate in Messico ma in stile western-rivoluzionario). Sempre alla fine dei Sessanta – prodotto di quegli anni, più che di un cambiamento interno al genere – si realizza il western “politico”, “ideologico” e violento, come Il Mucchio Selvaggio (1967), Pat Garrett e Billy the Kid (1972) entrambi di Sam Peckinpah, C’era una volta il west e Giù la testa di Sergio Leone (anche se sono aporistici nei confronti del western classico) Soldato blu di Ralph Nelson (1970), Piccolo grande uomo (1970) di Arthur Penn, I compari (1971) di Bob Altman, Corvo rosso non avrai il mo scalpo (1972) di Sydney Pollack per citarne solo i più noti e significativi, e poi i film di Monte Hellman e quelli più recenti, malinconici e crepuscolari come Appendilo più in alto, Il cavaliere pallido e Gli Spietati di o con Clint Eastwood, I cancelli del cielo di Michael Cimino e Balla coi lupi di Kevin Costner.
Come tutte le arti ci sono stati momenti di grande creatività e ottima fattura del prodotto e momenti di decadenza commerciale e creativa; ci sono stati momenti di cambiamento e di ‘revisionismo’: si sono dotate di maggiore forza e di indipendenza le donne, sono comparsi i neri – che fino agli Anni Cinquanta erano inesistenti o interpretavano lo stereotipo del buon vecchio fedele come un cane – i bambini sono apparsi come dei piccoli guardoni eccitati della violenza, ci sono ragazzine che riescono a far fare a uomini adulti quello che vogliono, è comparsa qui e là, senza proclami, la tendenza di alcuni pistoleros all’omosessualità. Insomma il western ha dato e raccontato la storia agli americani.
A quest’arte, a cui non è stato dato il giusto valore, i registi più post moderni della cinematografia statunitense si avvicinano e scelgono di trarre un film dal romanzo di Charles Portis, già portato nel 1969 sugli schermi da Henry Hathaway e con un malridotto John Wayne che ottenne il primo e unico Oscar della carriera. Racconto convenzionale e poco appassionante ma che offre ai fratelli Coen di riproporre un ‘classico’, in forma classica e in più con la possibilità di spaziare tra i generi passando dal drammatico, al comico, al grottesco, al romanzo di formazione, muovendosi all’interno dei generi con una tipica impronta autorale. Ma questa volta l’esercizio di stile rimane contenuto e per niente effervescente, senza quei movimenti di macchina ben visibili e a volte volutamente dichiarati, senza sorprese e riprendendo una storia senza dire nulla di nuovo. E allora viene da chiederci, quale è il motivo che spinge due registi di tanto talento a realizzare un film che non mostra né qualcosa di nuovo né strizza l’occhio ai vari Ford e Walsh? Una pura dotta esercitazione che tuttavia ha come confronto Hathaway e Wayne, come dire parlare con uno che ha fatto la guerra e uno che l’ha studiata da professore. Certo, per chi è un ragazzo e non conosce il genere western se non per aver visto i film di Leone allora probabilmente resta affascinato da tutti quei topos del western che sono inconfondibili e riproposti ad arte. “I malvagi fuggono quando nessuno li insegue”, con questa frase, tratta dalla Bibbia si apre il film. Siamo nel 1870 e da poco è terminata la Guerra Civile, alla 14enne Mattie Ross hanno ucciso il padre a sangue freddo e lei cerca vendetta. Si informa su chi sia il più duro in circolazione e qualcuno le propone vari cacciatori, lei sceglie quello che risulta il più duro dei Marshall del west, Reuben J. ‘Rooster’ Cogburn (Jeff Bridges), un uomo ruvido e dal carattere difficile. Lei gli propone un accordo e cinquanta dollari, lui rifiuta, lei insiste con determinazione e ostinazione e alla fine l’ubriacone ex sceriffo accetta per cento dollari; ma andrà da solo e parte da solo. Ma la ragazzina dal carattere di acciaio lo raggiunge e si accoda all’uomo e a un Texas Ranger di nome LaBoeuf (Matt Damon) che è da tempo sulle tracce dello stesso uomo: Chaney (Josh Brolin), un bandito che ha ucciso in un altro stato un senatore e il suo cane. Il film si sviluppa sul classico viaggio di formazione di una ragazzina a contatto con un uomo vecchio, ruvido e stanco e un altro più giovane un po’ingenuo, sbruffone e permaloso. Il viaggio porta lo strano trio in luoghi deserti e pericolosi, si incrociano le rispettive umanità e i rispettivi destini. Determinati e testardi, ciascuno guidato da un suo codice esistenziale formano un gruppo improbabile che cavalca nel deserto, anche metaforico della storia. In modo fortunoso e anche casuale i “buoni” vincono sui cattivi e la ragazzina nonostante una disgrazia riesce a ottenere la vendetta e a diventare una donna. La trama in realtà oltre a rispettare i classici canoni del western è un pretesto per narrare la frontiera americana, quello che era il selvaggio west con codici e regole, la vita dei pionieri e altro ancora.
Il film ha ottenuto dieci nomination e da una parte della critica è stato definito un capolavoro. A questo entusiasmo ci viene spontanea una domanda, ma il Cinema come arte rivoluzionaria e di trasformazione è ancora vivo?