William Butler Yeats è il centro – lo zenit, l’alcova e la culla, Tiferet, la bellezza, l’armonia – della poesia occidentale. In lui, il passato coincide con l’avvenire, la Storia si tempera nel mito, il particolare (l’Irlanda) nell’universale (lo Spiritus Mundi), l’estrema concretezza con l’estremismo dell’astrazione, il culto dei maestri (chessò, William Blake, Dante, Omero) con il riconoscimento dei giovanissimi (George Barker, Margot Ruddock, James Joyce; ed Ezra Pound prima che fosse Pound); Occidente si mescola a Oriente, la voracità d’amore di Cristo sfocia nell’ardore dell’Ollam, il bardo, il Nō giapponese si raffina nell’epopea di Cú Chulainn. Il lirismo fa specchio allo sperimentalismo; l’inno si allea all’innovazione. In Yeats la ‘popolarità’ – The Lake Isle of Innisfree è la poesia-icona del più bel film di Clint Eastwood, Millon Dollar Baby; mentre il primo verso di Sayling to Bysanzium, “That is no country for old men”, ispira a Cormac McCarthy uno dei suoi più cupi romanzi – si scatena nell’occulto, nel sistema divinatorio privato (A Vision), sofisticata combinazione di volti e immagini. In Yeats, i vivi e i morti sono un tutt’uno.
“Yeats non scelse il limite, l’orizzontale regno della Babele populista, meccanicista che venne scelta ovunque nel Novecento. Dando ascolto anche alla voce dell’arte popolare, non solo dell’arte arcaica, non ebbe paura di misurarsi con l’infinito, con il dramma del tempo, con la disperazione del tempo che ci fa desiderare l’immortalità, e pensò… di abitare in un ‘quotidiano’ che ospita in sé il sublime”.
Così scrive Rosita Copioli, che in William Butler Yeats. Omero in Irlanda (Edizioni Ares, 2024), fa precipitare quarant’anni di dimestichezza – mai domestica, sempre ispirata – con l’opera e lo spirito del grande poeta. Ma, appunto, non è di questo che volevo dire, della raccolta dei bellissimi saggi – da pagina 174 in poi (il tomo ne conta 388) –, né della sapienza, della cultura squadernata, delle storie della letteratura etc. Le prime 150 pagine del libro – s’intitolano Viaggio in Yeats – sono straordinarie; sono il racconto di quanto un poeta – non più vivente, vissuto in altro tempo, in altra terra – possa invadere, oggi, ancora, con frastornante necessità, una vita. Quasi a dire che un poeta è sempre opera aperta, finestra spalancata, simbolo di cui noi siamo la parte mancante, il ladro che irrompe. In particolare – visto che Yeats, per Rosita Copioli, non è semplicemente enciclopedico lemma, ma arma per combattere l’ottusità del presente – questo libro induce a riflettere sulla perenne perentorietà dei poeti, figure offese e offuscate, temibili per la loro arcana debolezza. Ancor più in particolare, Rosita Copioli mette in scena parole che paiono desuete in un oggi desunto dal superficiale, dove la cavalleria è il dileggio: nobiltà, grandezza, gratitudine. Dall’omaggio ai maestri – Fellini, Zolla, Manganelli – si passa per il gatto di Yeats (“un persiano nero: Minnaloushe”) e per l’incontro con Anne, la figlia di Yeats e di Georgie (spiazzante la frase: “Lei sa che è la prima persona che viene da noi dall’Italia, da quando è morto mio padre? Nessuno è ancora venuto”).
W.B. Yeats
Upanishad – nella versione di W.B. Yeats
In un momento del racconto, Rosita Copioli – amica di Zolla e di Pietro Citati – trova il punto d’unione con Cristina Campo:
“L’argomento di fondo era la sopravvivenza delle anime dopo la morte, e la forza del sogno di aprire porte, anzi, di modificare il corso degli eventi per i morti, attraverso la preghiera dei vivi, se la loro vita appassionata era rimasta incompiuta, e insoddisfatta. Cristina Campo ne aveva fatto uno dei motivi su cui meditava incessantemente”.
Anche Rosita Copioli aveva sintonizzato la propria ricerca sull’invisibile (“L’invisibile, nell’accezione del nascosto, è sempre stato l’attrazione della mia ricerca”) – del poeta amava, anche, l’indole dell’infaticabile cercatore; che la poesia non fosse soltanto seme, ma quercia. Spesso nuota in Adriatico, Rosita, ne cura la criniera. Da ragazzo, nella terrea periferia di Torino – dove i morti muoiono per sempre e la memoria si fa a colpi di vanga, un maggese di velenose erbe, per lo più – la professoressa d’inglese, un giorno – frustrata come tutti i nostri prof, reduce da un amore finito in tragedia con un pianista londinese; adorava Hermann Broch – ci lesse The Second Coming di Yeats. Il salmo si univa al sabba, la dolcezza al tremendo: mi parve che qualcosa si scatenasse, ora. Non capii – felice di non capire.
Dunque, chiedo a chi ne sa.
Rosita Copioli in un ritratto fotografico di Daniele Ferroni
Come – da che lato, a che punto, perché – ti arriva addosso Yeats, finché finisci per ‘indossarlo’, studiarlo, inseguirlo?
Il caso ha collaborato con la mia necessità in un momento di svolta personale, dove tutto cambiava. Era morta mia madre in modo doloroso, il lutto si mescolava ad altre perdite: delusioni, abbandoni, separazioni, difficoltà di ogni genere, trasloco definitivo dalla casa di sempre. Provavo mancanza e nostalgia, ma anche sete del nuovo. Da poco, nel 1979, avevo pubblicato il mio primo libro di poesia. Ero solitaria, appartata. Continuavo a provare asfissia per l’accerchiamento ideologico, l’intellettualismo parodico di un nichilismo e materialismo contemporaneo che considerava subalterne (aggettivo di moda allora) la poesia e la letteratura, l’arte, che portano con sé il fuoco della libertà, della parola, dell’immagine. La natura e il paesaggio venivano svuotati di sacro, di storia, ridotti a «decoro ambientale». La tradizione classica fondata sulla natura, che serbava il mito, la lingua, le forme, era negata. Avevo tenuto in silenzio per anni la voce, nascondendola anche a Luciano Anceschi, che mi voleva bene. Quel mio primo libretto aveva come titolo un verso di Lucrezio, Splendida lumina solis, e fondeva il suo latino con quello di Virgilio e Ovidio, con la musica dei Canti di Leopardi, su cui mi ero laureata. Univo la poesia con la riflessione. Non le ho mai disgiunte. Ma volevo anche agire: salvare, custodire tutta la bellezza fragile che veniva calpestata e frantumata. A letteratura e poesia avevo affiancato il lavoro storico d’archivio, e l’azione culturale. Quando pubblicai quel libretto venni anche scoperta, e Roberto Carifi mi convinse a fondare la rivista «L’altro versante». Era una rivista di tendenza, sebbene aperta a voci diverse. L’architettai come una serie di numeri monografici che dovevano fare il punto sui problemi principali della poesia e della letteratura nella situazione contemporanea.
Questa premessa risponde all’«a che punto» della domanda. Ma non dice del contesto su cui lavoravo per me stessa. Comunque vengo alla collaborazione del caso. Un giorno d’agosto 1984, da Foyles a Londra, trovai due libri di Yeats: una raccolta di saggi, Selected Criticism and Prose, edito nel 1980 da A. Norman Jeffares, il principale curatore delle sue opere, e The Celtic Twilight, curato nel 1981 da Kathleen Raine, la poetessa e studiosa di Blake e dei platonici, che per prima ne ricostruì le radici, e le complesse diramazioni. Restai folgorata. La raccolta fatta da Jeffares permetteva di scorrere da cima a fondo e dall’interno, l’enorme lavoro di Yeats. I suoi saggi sono opere d’arte, non l’opera fredda di un letterato: sono attraversamenti di anima, la ricerca di sé stesso. Mi riguardavano nel profondo. Mi rispecchiavo in una vita che sentivo quella della mia infanzia, forse anche perché dovevo ai miei nonni, in particolare quello paterno, un fondo romantico attivo, immaginazione e sogni della stessa epoca, in terre vergini: la Romagna, la riviera, Riccione tra fine Ottocento e primo Novecento. Forse sbagliando, credevo che i miei genitori, nati nel 1920, coetanei di Fellini, avendo subito il fascismo e la Seconda guerra mondiale, fossero meno ardenti, e più scettici.
Yeats mi folgorò anche per il tentativo di fondere le arti e per l’azione culturale: un pilastro per costruire la nazione d’Irlanda. Dopo anni di smantellamento e aridità, desideravo una svolta di ricostruzione e nuove linfe. Non dico di essermi messa a tradurlo subito, ma quasi, a giudicare dalle date delle agende. Studentessa, avevo tradotto tutte le poesie di Eliot, che amavo molto, ma ne avrei pubblicato solo due testi. «This fragments I have shored against my ruins» di The waste Land non mi bastava, malgrado il senso ricostruttivo, e non di mero puntello. Ripensai alcuni problemi da riproporre su «L’altro versante», dopo il numero 0 (1979) e quello dedicato a Henry Miller (1981), di seguito a quello su D.H. Lawrence del «il verri». Vennero i monografici sulle Poetiche (1982) dedicato ad Anceschi, sostenitore della poesia; Tradurre poesia (1983) sulle teorie e gli esempi del tradurre, dove Yeats appare con due poesie tradotte da Giuseppe Conte e l’Elogio di Colono dall’Edipo di Sofocle, datomi da Pietro Citati in anticipo sull’uscita de La torre per la Bur Rizzoli nel 1984; Narrare (1985) perché si proclamava assurdamente la morte del romanzo, e Citati mi fornì due suoi testi del 1982; Tradizioni della poesia italiana contemporanea (1988), dove partivo da Dante e i classici. Vi presentavo Introduzione generale al mio lavoro, che Yeats scrisse nel 1937, due anni prima della morte. L’accompagnai con un saggio di Harold Bloom (tradotto da Franco Di Jorgi), il commento a Bloom su Yeats, di Guido Fink, e il saggio di Kathleen Raine, Yeats e il Credo di san Patrizio (da Yeats the Initiate, 1986), volto da Francesca Romana Paci, “Lulli”, che fu prima a introdurre la Raine in Italia nel 1982, con i ricordi su Canetti e scelte di sue poesie. Suggerivo qualcosa di diverso dalla nostra tradizione del moderno, che con Leopardi aveva abbandonato l’idea del “mondo immaginale” – termine coniato da Henri Corbin per indicare la spissitudo spiritualis – e l’Anima Mundi ermetica. Yeats parlava dell’officina della sua poesia, della forma che il poeta man mano dava di sé: una “fantasmagoria” che cambiava, mentre lui si ricostruiva per non essere quel fascio «di eventi fortuiti e incoerenti che se ne sta seduto a colazione». L’opera era un opus e doveva coincidere con l’uomo: un essere «rinato come un’idea, qualcosa di meditato come un progetto completo». Un modello così diverso dal nostro, nato sul crollo delle illusioni, mi era affine. Yeats serbava tradizioni neoplatoniche, ermetismo, philosophia perennis, un mondo immaginale da noi rimasto vivo fino a Tasso, e poi disperso. Chi come lui aveva nutrito una venerazione per il mito che è sintonia con l’Anima Mundi, memoria cosmica che plasma l’uomo e la natura?
«Il mito non è […] una forma primitiva di pensiero superata dalla riflessione. Credere è la fonte di ogni azione […] credere è amare, e solo ciò che è concreto è amato […]. Il santo può toccare attraverso il mito l’ultima meta delle facoltà umane e non passare alla riflessione, ma all’unità con le radici del suo essere».
Anche noi incontravamo Elena e Ulisse sul nostro cammino. Anche noi dovevamo cercare la nostra maschera vera tra le tenebre, nella molteplicità delle figure, morendo e rinascendo verso la luce. In un sogno a occhi aperti avevo visto Atena a dodici anni, vedetta sul porto, ne feci poesie e quadri. Il sacro era il presente, e non era ancora arrivato Hillman. Forse i poeti e gli artisti non hanno bisogno che gli analisti spieghino. Yeats aveva trovato nel pensiero simbolico la propria filosofia e la propria cura, indipendentemente da Jung. Fellini, che si sentiva debitore di Jung attraverso Bernhard, aveva solo bisogno di fiducia nella propria immaginazione, nei sogni che scriveva ma che soprattutto inventava: possedeva già tutto in sé stesso.
Parlando, ho nominato Elena e Ulisse. A quell’epoca lavoravo su Elena, la ribellione della bellezza nella sua prima identità. Risaliva alla figura divina anteriore al cosmo e a ogni vita: Elena figlia di Nemesi che sta oltre tutte le figure, non solo femminili: sopra e dentro la natura. Ma per tornare a Yeats, Elena è centrale anche in lui. E tornando al caso, fu Theoria, con la quale stampavo la rivista, che mi chiese di curare il Crepuscolo celtico che uscì nel 1987, mentre lavoravo per Guanda all’antologia di saggi Anima Mundi (1988): un viaggio senza limiti tra passato e presente, alla ricerca di un’unità dell’essere; arrivava al 1919 (per ragioni di diritti), ma vi analizzavo tutte le ampie diramazioni di interessi, compresi quelli indiani, in particolare attraverso la nozione di soglia (con riflessioni tra le Upanishad, la filosofia Vedanta e Florenskij, seguendo il sistema che vi si sviluppa intorno alla teoria dell’anima, del Daimon e della Maschera che Yeats descrive in Una visione: la struttura di «adattamenti stilistici dell’esperienza» dove teorizza, su quelle basi, la storia delle civiltà con intenzioni profetiche: ciò che incontrò l’adesione entusiastica di Elémire Zolla, unico che se ne intendesse davvero). Yeats cercava una conoscenza che legasse i vivi e i morti, tra profezia e magia, tra esperienza pratica, politica, e civile. Esercitata dapprima nel recupero di tradizioni e folclore e ampi studi su poeti e artisti consoni quali Blake, Shelley, Spenser, poi sempre con il teatro e la fondazione dell’Irlanda, progetti di unioni delle arti, e una poesia che riuscì a trasformarsi mirabilmente fino alla fine. Poi curai l’edizione di tutti i racconti: anche quelli non raccolti in edizioni ufficiali in lingua, perché la poesia era il centro unificatore del narrare, come pensava Novalis: e Yeats vi raccontava le antinomie dell’essere e le proprie lacerazioni sotto tutte le figure e tutti i simboli (La rosa segreta. I racconti, Guanda, 1995); infine unii gli scritti sull’arte perché in nessun altro poeta la stessa poesia è, coscientemente e tutto insieme, parola pregnante-immagine sensibile-affetto-intelletto-simbolo-strumento musicale (L’artificio dell’eternità, Medusa, 2015). Ma variamente pubblicavo anche altre prose per farne conoscere i rapporti con gli scrittori che avevano prevalso in Italia, come Pound, Eliot, Joyce (per esempio, su «Avvenire», l’incontro di Yeats con Joyce – che Yeats aiuta, in solidarietà con Pound); e per mostrare la sua predilezione per l’immenso Balzac pubblicai la parte saliente di Louis Lambert (sempre su «Avvenire»). Yeats riteneva che Balzac l’avesse preparato al misticismo indiano e alla metafisica, come alle riflessioni politiche e sociali. Disse che adottava il suo realismo, non l’utopia di Hugo o le astrazioni di Rousseau, Hegel, Marx. Lo inseriva tra i pensatori cristiani come Péguy e Solov’ëv , credendo che possedesse il supremo dono profetico di Dante.
In conclusione, però, vorrei precisare che curare e tradurre Yeats coincideva con la necessità di ritrovare una musica trasformativa: secondo l’idea greca della musiké, che vuol dire l’insieme di un sistema conoscitivo complicato e armonico, in grado di trasformarci. Per intenderci, è stato un incontro molto importante, ma non il solo, e si componeva insieme agli altri.
Penso al titolo del tuo libro. Perché Yeats in foggia di “Omero” e non di Dante?
È Yeats che lo dice quando racconta di sé nell’Introduzione generale al mio lavoro: «dovevo allontanarmi dalla letteratura moderna paragonata da Jonathan Swift alla ragnatela che un ragno estrae dalle sue viscere; odiavo e ancora odio con crescente intensità la letteratura del “point of view”. Io volevo, se la mia ignoranza me lo avesse consentito, ritornare a Omero, a coloro che si nutrirono alla sua mensa. Io volevo piangere come tutti gli uomini avevano pianto, ridere come tutti avevano riso». Inoltre, Yeats è pressoché unico tra i moderni a riuscire ad essere “greco”. Da ragazzo, nel Crepuscolo celtico, a proposito di un’Elena agreste ammira i vecchi irlandesi per la loro anima omerica:
“Questi poveri contadini e contadine, nelle loro credenze e nelle loro emozioni, sono di gran lunga più vicini a quell’antico mondo dei Greci che collocava la bellezza accanto alla sorgente delle cose, di quanto siano i nostri uomini di cultura. Lei «aveva visto già troppo del mondo» ma i vecchi e le vecchie, quando ne parlano, accusano qualcun altro e non lei, e sebbene siano gente dura, diventano gentili come diventavano gentili i vecchi di Troia allorché Elena passava sulle mura”.
Soprattutto vive nel mito: l’amata Maud Gonne è per lui veramente Elena, e su Elena medita anche per la figura di Deirdre: anche i suoi amici entrano nel mito. I suoi Wanderings of Oisin giovanili riprendono l’erranza odisseica, la sua traduzione di Edipo gareggia con Sofocle, le terre di Grecia e d’Irlanda si fondono in lui dovunque.Dante è molto importante per lui, lo conosce, lo ama e lo assorbe, come è evidente nel bellissimo Per amica silentia lunae. Ma non gli basta piegare le proprie «ginocchia medievali». Il balzo a ritroso con Omero segnala la radicalità di un ritorno ad un semplice, un naturale della poesia che nella civiltà moderna, Dante compreso, ci appare quasi impercorribile.
Volevo ragionare con te sul ruolo del poeta nella politica. Nel 1922 Yeats è eletto senatore dello Stato libero d’Irlanda: come esercita quel ruolo? Più in profondità: come è riuscito a incarnare l’identità – il destino? – di una nascente nazione? Mi ha sempre sorpreso constatare che il primo presidente della Repubblica d’Irlanda, Douglas Hyde, era stato un autore della Dum Emer Press dei fratelli Yeats… Intendo dire, c’è un rapporto profondo tra ‘poetica’ e politica (nel suo sublime senso), almeno in Irlanda o nei paesi anglofoni. In Italia, la cui lingua è stata forgiata dai poeti, questo legame pare represso, se non disprezzato.
Yeats esercita il proprio ruolo di senatore con molta serietà e combattività. I suoi discorsi furono incisivi, precisi, documentati, persuasivi. Associava la profonda conoscenza della storia e delle tradizioni d’Irlanda – che aveva contribuito a strutturare in modo determinante, insieme agli amici che fondano il teatro nazionale, Lady Augusta Gregory, John Synge, sempre ricordati – con una notevole conoscenza giuridica e la capacità pratica: l’attenzione alle necessità contemporanee: un occhio internazionale, non provinciale né campanilistico. Ciò che può stupire, conosceva perfino l’economia. Quei discorsi sono stati stampati, e offrono una lettura preziosa. Memorabili tra essi, quelli per due campagne: una per la scelta delle immagini e degli artisti per la monetazione del Nuovo Stato: l’impegno di Yeats è formidabile, nel trovare archetipi greci e archetipi irlandesi, così come nel proporre gli artisti migliori per realizzarli: non dimentichiamo che con l’arte Yeats è di casa. La seconda campagna è quella per mantenere nell’Irlanda cattolica il diritto al divorzio, già vigente nello Stato prima soggetto all’Inghilterra. Qui Yeats sfodera un’eloquenza naturale e coltivata imbattibile, seguendo tutte le polemiche, e con la più straordinaria ironia. Vincente.
L’Irlanda è stato l’unico esempio di quella incarnazione unitaria, di cui parli, e che per me è stata una delle ragioni del fascino che mi ha attratto verso Yeats: quel modo di fare politica e di agire fondendo tutti i piani, meglio che nella repubblica di Weimar: un modo che coinvolgeva la gente, ma era anche l’espressione di un pugno di ardenti romantici, i quali, pur tra i loro dissidi, e differenze, riuscirono a trovare coesione. Per me sì, quel rapporto profondo c’è. In Italia hai ben ragione di dire che è stato non solo represso, ma disprezzato. Il “rivolgimento” a Yeats ha significato anche la reazione a questa realtà deludente. Douglas Hyde è stato uno studioso notevole, autore delle raccolte poetiche folcloriche tra le migliori, sostenitore efficace del gaelico: una persona molto amata da Yeats. Se volessi scavare in quei rapporti troveresti sempre sorprese. Magari anche di antitesi e odi, però sempre interessanti. Sarà stata anche la dimensione ristretta del paese, a consentirlo, e fuor di dubbio, l’allenamento giuridico del mondo anglosassone, che aveva abituato dall’habeas corpus alla politica e ai parlamenti: sebbene i cattolici irlandesi ne avessero subito le più feroci, criminali angherie (e proprio per questo), anche con esso appresero a difendersi.
L’argomento interessa molto anche me. Il capitolo finale del mio libro lo riguarda, anche sullo sfondo dell’influenza risorgimentale, e del mazzinianesimo.
Poesia e magia. Occorre leggere A Vision per capire che la poesia, in Yeats, è anche prassi divinatoria, profezia, teurgia. È l’antico cruccio di far ‘agire’ le parole, il punto d’incrocio tra lirica e formula, tra libro di testo e libro d’ore. È davvero così? E che cos’è, in fondo, A Vision?
Se diamo retta a Yeats, che alla fine minimizza dicendo che A vision gli è servita per dare ordine, una serie di diagrammi per un’architettura intellettuale – «adattamenti stilistici dell’esperienza» che l’aiutano «a contenere la realtà e la giustizia in un solo pensiero» – potremmo pensare che sia stata un bizzarro esercizio mentale, una danza teatrale sullo sfondo della storia dell’universo. In realtà cercava un senso nelle evoluzioni della storia, nelle fasi delle civiltà, una risposta all’inconoscibile, come aveva fatto Dante nella Divina commedia. Solo che lui non ha alle spalle il sistema cosmico medievale, sul quale reinventarsi. Procede nell’azzardo, cercando aiuto in confidenti dell’altrove: daimones, anime di morti, intuizioni da sogni e visioni che travalicano gli esseri umani, confidando nella labilità di confini tra il nostro e il loro mondo, ancora fedele alle corrispondenze cosmiche di cui parla Timeo in Platone. Seguendo Plotino, ritiene che il mondo sia un fluire ininterrotto di anime e che l’uomo riviva molte volte: spera che un giorno ciò possa essere dimostrato alla nostra civiltà, che crede solo all’evidenza, proprio come fu dimostrata la teoria di Einstein sulla curvatura della luce. Yeats pensa che l’Anno Platonico riporterà come al tempo di Cristo un mutamento d’epoca, annunciato dalla deflagrazione dei conflitti. A Cristo, la figura dell’amore dove Dio e l’Uomo, l’Uno e i molti si incarnano risolvendo le loro antinomie, potrà seguire una figura antitetica. Yeats la immagina in forme apocalittiche, da L’adorazione dei Magi (1897) a La seconda venuta (1919) a Leda and the Swan (1923) a Una visione (1937) a The Gyres (1938). Yeats pensa a modificazioni cicliche delle fasi del tempo, ispirandosi all’immagine della coclide, del fuso, del doppio cono dei magneti: due imbuti rovesciati: una figura che i fisici hanno adoperato, che Stephen Hawking ha divulgato nel suo libro più famoso: Dal Big Bang ai buchi neri (1988). I cicli non si ripetono, rimbalzano trasformati.
I saggi di Yeats specchiano una configurazione mentale ardita, appassionata, impavida al cui fondo c’è sempre la poesia come incanto e insieme forma più alta della conoscenza. È la tradizione dell’Ollave, depositario della sapienza, mediatore con il divino, e quindi sacerdote, la cui parola è fondante: se vogliamo istituire un paragone con la tradizione greca, essa è depositata sulle sue labbra direttamente dalle Muse, che la traggono dalle acque dell’Oceano fonte di ogni cosa, e di lì scorre come miele; se il paragone è con la tradizione semitica, quella parola discende dal Verbo, o meglio da Dabar: intraducibile, è la forza creante: la voce che si fa carne.Tuttavia questo desiderio di ricreare la voce dell’Ollave sfocia nella ricerca della magia come sapienza, attraverso il platonismo rinascimentale, il pensiero dei Veda. Yeats dedica all’Ollave un dramma simbolico, The King Threshold, La soglia del Re, dove il poeta degradato, non ammesso alla mensa del re, ripristina l’antico diritto dei poeti, superiori ai re, lasciandosi morire sulla sua soglia. È l’antichissimo costume dello striking, rivissuto da Bobby Sands e dai suoi compagni.
Come si capisce, questo ritorno alle origini, che si associava a molte altre ricerche, con tanti motivi al fondo, ubbidiva alla ricerca di sé stesso. Dalla sua Irlanda poverissima – l’infanzia malinconica, infelice e sognante, immersa nella natura incontaminata e selvaggia, dove fantasticava, apprendeva le fiabe dei faeries, sognava eroi – Yeats aveva cercato sé stesso tra mille fluttuazioni, un senso di colpa remoto in un eros tanto più intenso quanto frustrato. Il mondo moderno gli faceva orrore, come a molti altri artisti. Perciò ne indagava dovunque le antitesi. Le cercava tra i contadini del Connaught come tra i medium di Soho, gli occultisti, i teosofi: ne frequentava i più pittoreschi, esotici o cialtroni: MacGregor Mathers, Blavatsky: dovunque ogni sorta di diffuso cascame gli facesse baluginare qualcosa di sapienze perdute.
Non si può pensare al rapporto da poesia e magia in Yeats, astraendo da questo insieme complesso. Pur combattendo il provincialismo dei suoi compatrioti, Yeats voleva unificare le sparse eredità della futura nazione: i miti: lo spirito anglo-irlandese protestante di Burke, Grattan, Swift, Goldsmith, Berkeley: i resti della letteratura gaelica, un tempo illustre: i residui del pensiero immaginale sul destino delle anime disincarnate: ossia le sopravvivenze delle religioni indoeuropee che il folclore di una terra dissanguata dagli Inglesi e dalle carestie, ma non ancora adulterata dalle classi borghesi, celava in un mosaico unico al mondo. Tenendo insieme ogni filo Yeats ordiva e tesseva una summa che fu qualcosa di più di una «mitologia privata». Non poteva essere paragonabile a quella di Dante, che si fondava sulla teologia tomista. Come Eliot (che optò per l’anglicanesimo) si trovava di fronte ai frantumi di ogni tradizione, e scelse di riplasmarsi nell’immaginosa scia della philosophia perennis, dandole specialmente corpo sensuoso, drammatico e vivo nella poesia. In ciò non è che mancasse di humour e di autoironia. Teatralizzava. Scandalizzò l’intelligenza limitata.
In Yeats tutto si tiene: le Upanishad e i miti d’Irlanda, il teatro Nō giapponese e Vico, Easter 1916 e Bisanzio, la Storia e la leggenda, Filone alessandrino e i deliri della giovane Margot Ruddock. Come è possibile che tutto ciò non sfoci in sincretismo effimero, in puro capriccio?
Potrei risponderti con una battuta, e non sarebbe così sbagliata: perché è un genio. Naturalmente dovremmo discutere su cosa e chi è il genio… Perplesso Eliot scrisse delle Autobiografie di Yeats, che «tutto in quella mente ha lo stesso rilievo». Yeats elabora, digerisce, mitizza, smonta, trasforma, divaga, ritocca, riprende, cambia opinione, si contraddice, si illumina, rifà, tralascia, omette, e ogni cosa, anche la più lontana dal punto da cui ha cominciato, d’improvviso trova il suo posto come in quadro dove il pittore ha con infiniti tocchi dipinto il proprio vasto autoritratto. Paradossalmente, più si specchia, e più si ritrae, più quel quadro si allarga come un affresco o un film, ospitando popoli e paesi sconosciuti, voci familiari e voci mai udite. Il processo funziona anche all’inverso: più il quadro si allarga, più l’io si concentra. Ma non è vero che non esiste un sistema, che il suo è assurdo: la sua mente è acutissima: vede ogni relazione, ogni nesso. Sono gli altri a non possedere la sua sensitività, mobilità. Secoli fa si ammetteva che l’immaginazione potesse balzare da un India all’altra.
In un saggio piuttosto noto, Orwell stigmatizza il dire di Yeats: “Translated into political terms, Yeats’s tendency is Fascist”. Che cosa intende? E poi: è corretta la sua affermazione?
Altro problema. Oggi peraltro, la parola fascista tolta dal suo contesto storico è diventata una categoria, dove l’unica idea non vaga è quella dell’insulto. Un po’ categorizza anche Orwell, sebbene l’usasse in ambito storico, visto che con maggiore sdegno la espresse nel gennaio 1943, in piena guerra, recensendo il libro di V. K Narayana Menon su Yeats, The development of W.B. Yeats, 1942, criticandone la mente autoritaria, prefascista. La giudicava da dichiarazioni e frammenti di testi estrapolati dal contesto, in rapporto a A Vision, che non aveva letto. Da un lato ha bisogno di una critica anche marxista o sociologica. Dall’altro – come è Menon a dire per primo – crede che non si possano prendere alla leggera i versi di un poeta senza pensare che essi non esprimano opinioni, anche senza dichiararle esplicitamente. Le frasi di Yeats sotto accusa sono quelle relative all’odio per l’età moderna, la scienza, le macchine, il concetto di progresso, la sua concezione democratica, razionalistica, l’idea di uguaglianza, l’occultismo che in A Vision sfocia in un quadro minaccioso, e che non è solo un rifugio, ma uno strumento iniziatico. Vale la pena riportare le parole di Orwell, che so tu ami. Yeats
«già nel 1920 predice in un passaggio giustamente famoso di Second coming il genere di mondo dove siamo finiti. Ma sembra accogliere con favore l’era ventura, che sarà “gerarchica, maschile, dura, chirurgica”, ed è influenzata sia da Ezra Pound che da vari scrittori fascisti italiani. Descrive la nuova civiltà che spera e crede giungerà: “una civiltà aristocratica nella sua forma più completa, ogni dettaglio della vita gerarchico, la porta di ogni grande uomo affollata all’alba da supplicanti, grande ricchezza dappertutto nelle mani di pochi uomini: tutto dipende da pochi, fino all’imperatore stesso, un Dio che dipende da un Dio più grande, e ovunque, in tribunale, in famiglia, una diseguaglianza fatta legge”. L’innocenza di questa affermazione è tanto interessante quanto il suo snobismo. Per cominciare, in una sola frase, “grande ricchezza nelle mani di pochi uomini”, Yeats mette a nudo la realtà centrale del fascismo, che tutta la sua propaganda è progettata per nascondere. Il fascista soltanto politico afferma sempre di lottare per la giustizia: Yeats, il poeta, vede a colpo d’occhio che il fascismo significa ingiustizia, e lo acclama proprio per questo motivo».
Orwell non crede alle espressioni per paradosso, l’estremismo che tende le ipotesi all’estremo e perfino all’assurdo: le prende alla lettera. Almeno qui, dove tra l’altro non dimentica nemmeno di fare le pulci al poeta, da uomo del mestiere qual è (le sue poesie restano in secondo piano, ma è dalla poesia che Orwell trae ispirazione e libertà).
Possiamo giustificarlo: scrive dal profondo dell’orrore della guerra e dal nazismo che ha sommerso l’Europa: teme le dichiarazioni che giustificano i totalitarismi, la violenza ingiusta per portare un presunto bene comune. Lo farà anche per lo stalinismo. Ha paura degli intellettuali e dei poeti che si pronunciano con leggerezza, senza pensare al peso che potranno avere le loro dichiarazioni. Contro il totalitarismo di ogni colore impegnerà vita e opere per un socialismo democratico, dice. Diffida della mente feudale che, come quella di Dante, pensa per gerarchie. Contrappone la democrazia alle élites predilette da Yeats, che si sarebbe allontanato dal liberalismo, frequentando blandamente la politica, che in fondo lo disgustava. In quel momento, in Orwell la democrazia è concepita anche sotto la lente del marxismo, con cui ha un rapporto critico e conflittuale. Non ricorda che i Greci insegnarono il metodo della democrazia, ma che quella dell’Atene storica fu sempre una democrazia aristocratica. Quel che è certo, è che se all’inizio il fascismo storico ebbe inizialmente bisogno delle élites per affermarsi, si profilò però soprattutto come movimento di massa, sotto la copertura dell’originario socialismo. E Yeats ha avuto sempre disgusto del mob, della massa cieca. Se si aspettava giustizia da regimi che avrebbero promosso una cultura aristocratica, si sbagliava. Quella civiltà non sarebbe stata affatto aristocratica nel senso che lui intendeva. Non l’avrebbero governata «nobili con la faccia di Van Dick, ma milionari anonimi, brillanti burocrati e gangster assassini». Veramente Yeats l’aveva capito, quando scrisse dell’industriale delle macchine che finanziando il college di Oxford inaugurava un corso rischioso, e parecchie volte si era pronunciato contro i bottegai e il dio profitto. Né si può dire che lo facesse perché frequentava solo duchesse. È indubbio che Yeats non si pronunciò ufficialmente quando le leggi razziali furono emanate in Italia (ma forse al riguardo qualcosa potrebbe sfuggirci) e nel 1932 ebbe una breve infatuazione iniziale per le Blue shirts, della quale si pentì subito. Ma prima che la guerra venisse proclamata in nome dell’anticomunismo, non ne vide affatto soluzioni, bensì solo tragedia orrenda e amara. Le folle d’Europa si sarebbero fatte a pezzi, mentre gli innocenti sarebbero periti nel conflitto. Bisogna aggiungere che Yeats morì presto, che le sue discussioni con Hone su Mussolini fanno parte più di un interesse storico che di una adesione simpatetica, mentre i suoi interessi per Gentile erano dovuti alla necessità di verificare i piani scolastici in Europa, per l’organizzazione del sistema educativo irlandese: erano anni in cui il suo principale interlocutore era Mario Manlio Rossi, già legato a Gentile, il quale aveva dovuto scegliere l’esilio in Inghilterra per la sua refrattarietà al fascismo. Quanto alle «menti forti» che auspica, le sue metafore vanno oltre il piano contingente. Sono più proiettate su Michelangelo che sui politici, e così è per il presunto maschilismo associabile all’idea della bellezza femminile. Nel marzo Orwell ritornò su Manon, mitigò il giudizio, ammise la grandezza di Yeats, che probabilmente avrebbe anche cambiato idea. Il discorso su questi argomenti porterebbe lontano, ma varrebbe la pena affrontarlo, per evitare banalità.
Nell’Oxford Book of Modern Verse, Yeats costruisce un proprio ‘canone’, ispirato e personalissimo. Insieme a Pound e a Eliot ci sono anche gli amici Purohit Swami, Margot Ruddock, Dorothy Wellesley; a Thomas Hardy e a Kipling fa specchio il giovanissimo George Barker. Era, intendo, un critico attendibile, Yeats? Cosa amava leggere, che rapporto aveva con il ‘contemporaneo’?
Era molto accogliente verso i giovani. Quindi verso il contemporaneo freschissimo. Per esempio, fu premuroso (a dir poco) con Joyce. Ma il suo modo di giudicare andava verso le sintonie, al di sopra della qualità. Talvolta si giustificava, talaltra no. Le accuse dell’arrabbiatissimo Auden vanno proprio al poeta che sembra non capire nemmeno la qualità dei versi. Ma non poteva essere così. Diciamo che si era preso la libertà del poeta che fa un’antologia seguendo criteri personali. Essi irritano e scontentano. Pound però non si offese, sebbene gli avesse fatto dei rilievi severi, sostanziali, e non piccoli: segno per Yeats di perfetta lucidità critica, e di intelligenza da parte di Pound, nel non obiettare.
Ultime. Un ragazzo vuole cominciare ad affrontare l’Himalaya Yeats: da dove parte? E poi: qual è la tua poesia-amuleto di Yeats e come WBY è penetrato nella tua personale poetica?
Per il ragazzo: lasciarsi andare all’istinto. Ognuno deve trovare il proprio rintocco. Ma comincerei dal Meridiano Mondadori della poesia per avere la più ampia possibilità di avvertirlo, e per la prosa sia dall’antologia che ne avevo fatto per Guanda, Anima mundi (perché presenta la varietà dei suoi interessi), e sia dai bellissimi raccontiche ho riunito nella Rosa segreta. I racconti (Guanda). Poi le Autobiografie (Adelphi). Una visione (Adelphi) per ultima: è difficile.
Non ho poesie amuleti. Lo sento nell’insieme. E proprio i toni, i timbri, gli abbandoni e gli slanci, le durezze, il coraggio – non singoli testi o versi o prose – possono essere entrati in me. Avevo bisogno di un’energia trasformativa. Questo sì. Non so se me l’abbia comunicata, ma era tutto quello che la mia ammirazione e il tentativo di capire nel profondo gli chiedevano.