Abbiamo visto “ Il tempo che ci rimane “ diretto da Elia Suleinam.
Probabilmente in questi tempi di nuovo Medioevo mondiale descrivere l’orrore della Palestina non può essere che raccontato con lo stile di Suleinam; in qualsiasi altra maniera subentrerebbe il buio della ragione e perderebbe di valore. Uno stile surreale che ci ricorda Jacques Tati, l’ultimo dei quattro episodi è il tocco distinguibile e dichiarato, e nella scrittura sembra di essere capitati in un testo di Samuel Beckett. Suleiman è probabilmente uno dei più raffinati umoristi del cinema contemporaneo, fratello di Otar Iosseliani, Alain Resnais e Manoel de Oliveira. “ Il tempo che rimane “ è un’opera lieve ed estremamente arguta allo stesso tempo, in cui si riesce anche a sorridere e a ridere, osservando fatti di una crudezza totale eppure presentati in modo leggero, senza un briciolo di acredine, e dove anche un rancore naturale si evapora all’istante. Come ha scritto qualcuno “ è uno stupefacente esempio di film-saggio. Una di quelle rarissime opere in cui la politica diventa filosofia, in cui ciò che conta è il pensiero “. La forza ulteriore di questo film è la scelta di regia, raccontare la Storia degli ultimi sessanta anni del popolo palestinese con gli occhi intimi di una famiglia che a volte ( la madre ) gira la testa da un’altra parte quando il troppo orrore giunge da oltre la finestra di casa o dalle immagini della televisione. Originale e geniale la scena ( una gag degna di Buster Keaton ) del ragazzo che va a buttare la spazzatura di fronte casa ed è seguito dalla bocca di fuoco di un enorme carro armato fermo a pochi metri, il cannone lo segue in tutti i suoi minimi spostamenti: quando lui saltella, quando torna sui suoi passi, quando si ferma, e quando lui risponde al telefonino, incurante della minaccia, il cannone sembra ascoltare paziente come fosse un brontosauro tonto. Non ci può essere sintesi più leggera di questa per raccontare l’orrore dell’occupazione con il quotidiano e le sue normali abitudini. Surreale la scena finale del protagonista che si presenta davanti al muro di Gaza con un’asta e salta come un atleta alle Olimpiadi, scena che dice più di mille dialoghi e dichiarazioni politiche. Malinconica invece quella dei fuochi d’artificio in cui la vecchia madre volge lo sguardo dalla parte opposta e forse ricorda il marito defunto che si sedeva sempre in quello stesso posto. Divertenti i personaggi marginali, quello che si versa tutti i giorni della benzina addosso e viene “ salvato “ tutti i giorni dal tranquillo padre del protagonista, del vicino di casa che ha soluzioni politiche per la Palestina a dir poco farneticanti, ai militari che controllano tutte le sere due pescatori e gli fanno sempre le stesse domande.
“ Il tempo che ci rimane “, che è stato presentato al Festival di Cannes nel 2009, inizia in modo stilizzato, Elia Suleiman ormai cinquantenne ritorna dall’estero per rivedere la madre che sta per morire. All’aeroporto prende un taxi israeliano ma subito viene giù una pioggia torrenziale e il tassista oltretutto si perde e non riesce a mettersi in contatto con la sede. Suleiman silenzioso e nel buio della notte si lascia andare al ricordo. E iniziano i quattro episodi della sua vita, ricorda ( narrativamente non potrebbe giacchè non era ancora nato ) l’occupazione di Nazareth da parte delle forze armate israeliane nel 1948. Rivive il trauma prodotto dalle violenze dell’esercito sionista e inizia a manifestarsi nel mondo palestinese una sorta di immobilismo fatalista, come se l’occupazione avesse congelato il tempo. Il secondo episodio è ambientato nel 1970, anno in cui morì Nasser, che il popolo palestinese riteneva un possibile salvatore. Il terzo episodio invece è collegato agli anni Ottanta e alla prima intifada ( divertente la mamma con il passeggino che interrompe la battaglia tra ragazzini palestinesi ed esercito israeliano perché passa in mezzo agli scontri ). Il quarto episodio è legato ai giorni nostri e il protagonista è proprio il regista che veglia la madre morente, rivede gli amici con cui non ha molto da dire e nota che il mondo anche lì è cambiato.
Il film non ha una storia precisa, è quasi un geniale block notes di avvenimenti e di ricordi personali. E più che un’autobiografia sonomomenti rimasti nella memoria del regista palestinese, oltre al ritratto di un popolo che in un modo e nell’altro continua a resistere nonostante tutto.
Elia Suleiman è un documentarista e regista palestinese, nel 1996 ha girato il suo primo film “ Cronaca di una sparizione “ ( Premio per la miglior Opera Prima a Venezia ), nel 2002 ha realizzato “ Intervento Divino “ che diviene un piccolo evento mondiale, il film ottiene molti premi tra cui il Gran Premio della Giuria di Cannes, il Premio Internazionale della Critica (FIPRESCI), Miglior Film straniero agli European Awards di Roma.