L’ultima intervista italiana
José Saramago, premio Nobel per la letteratura, mi accoglie nel piccolo appartamento situato nel centro di Madrid, dove risiede ogni volta che viene in Spagna. In questo frangente, per accompagnare l’uscita del nuovo romanzo Caino, che in Portogallo ha già suscitato “le reazioni furibonde delle gerarchie ecclesiastiche. Quando va bene, mi accusano di adottare una interpretazione letterale e non simbolica dell’Antico Testamento. E’ una musica che ho già sentito altre volte”.
E così quest’uomo segaligno e gentile, dalle convinzioni radicali, anche se espresse sempre con un tono di voce pacato, si trova ancora una volta al centro di accese polemiche. Come era già accaduto con l’uscita de Il Quaderno (prefazione di Umberto Eco, Bollati Boringhieri), raccolta degli interventi pubblicati sul blog nel periodo settembre 2008- marzo 2009; un libro che ha determinato la rottura con Einaudi e che da svariate settimane, con sorpresa dello stesso autore, veleggia nelle prime posizioni delle classifiche dei best-seller nostrani. Consumato il caffè, mentre esce delicatamente di scena l’adorata moglie Pilar, lo scrittore portoghese, golf color salmone su camicia salmone, comincia a proporre le diverse parole del suo “lessico necessario”. “Inizierei dalla più urgente e essenziale di tutte: “no””. Curioso, anche George Steiner ha deciso di cominciare con “no”; la parola più selvaggia del vocabolario, secondo Emily Dickinson. E un altro Nobel per la letteratura, Octavio Paz, parlò nel suo saggio della necessità di riscoprire il valore profondo di questa parola.
“Non sapevo di Paz e la cosa mi onora. Quanto a Steiner, spero di offrire delle motivazioni che arricchiscano il suo punto di vista. Quando penso alla parola “no”, non la intendo nell’accezione più comune e immediata, ovvero come pura negazione. Al contrario, ne rivendico tutto il valore propositivo e costruttivo. Le faccio un esempio: ogni rivoluzione rappresenta un “no” che si impone o cerca di imporsi al “sì”: allo status quo, agli interessi costituiti, al conformismo, al dominio addirittura alla dittatura. Ora,so bene che nel corso degli accadimenti storici arriva poi, inevitabilmente, il momento in cui il “no” iniziale si converte di nuovo in un “sì”. Sì all’o stentazione del potere, alla corruzione, alla confusione degli ideali iniziali che avevano determinato quella rivoluzione. Eppure, malgrado queste costanti e ripetute impasse, continuo a rivendicare tutto il valore dinamico e propulsivo della parola “no””.
In effetti, la sua proposta in parte si sovrappone a quella di Steiner, in parte se ne allontana. Presumo che la seconda parola chiarirà ulteriormente gli sviluppi del suo itinerario. “Il secondo termine che propongo è “rispetto”, con qualche necessario distinguo. Non vorrei cadere nel moralismo, riferendomi a un generico rispetto universale. Io penso a persone e situazioni specifiche, che meritano rispetto. Mentre lo vedono via via infrangersi nello specchio rotto di una società che non sembra più riconoscere l’eminente dignità dell’essere umano. E’ molto semplice: senza rispetto non esiste dignità, e senza dignità il rispetto va a farsi benedire”. Ma perché non ci si dovrebbe riferire a un rispetto universale? Se io scelgo a chi devo rispetto e a chi no, allora altrettanto potrà fare il mio eventuale interlocutore. E a quel punto viene a cessare l’idea di un rispetto valido per tutti, indistintamente. “Ricorderà San Francesco d’Assisi, il quale portava rispetto per tutto l’universo. Compreso il lupo, definito un fratello. Ma il lupo gli rispose: d’ accordo, se vuoi chiamami fratello. Ma non chiedere a me di chiamare sorella la pecora”.
E nella sua visione del mondo, il ruolo del lupo sarebbe rivestito, tra gli altri, proprio dalla Chiesa cattolica. O sbaglio? “No no, è proprio così. Per garantire il rispetto reciproco occorre una precondizione fondamentale. Se io le faccio uno sgarbo, le chiedo scusa. Ma non mi sembra che questo sia stato e sia il comportamento abituale della Chiesa. Nel centro di Roma, a Campo dei Fiori, c’è la statua di Giordano Bruno, che la Chiesa mise al rogo e al quale non ha mai chiesto scusa. Ora, non capisco perché dovrei portare rispetto verso una istituzione che nel corso dei secoli ha accumulato orrori su orrori, dei quali si è scusata in grave ritardo e solo in parte. Mi creda: il male può vivere nel seno stesso della Chiesa. Ha dormito a lungo nel baldacchino della camera dei papi. Non solo la Chiesa dovrebbe chiedere perdono alle tante vittime che ha causato nel corso della sua storia, ma dovrebbe chiedere perdono anche al proprio Dio per quello che ha fatto”. Una condanna senza appello, la sua. D’altronde,perfettamente in linea con chi si definisce ateo e comunista. “Se è per questo, come ho ricordato nell’ultimo libro, fu un teologo come Hans Küng a scrivere, molti anni fa, che le religioni non sono mai riuscite ad avvicinare gli esseri umani gli uni agli altri. Ne discende che ciascuno è libero di seguire la religione che più gli piace. Ma anche che dovremmo abbandonare un’eccessiva deferenza nel trattare Dio come problema, come fattore di dissidio”.
Beh, a questo punto sono tanto più curioso di sapere qual è la terza parola. “”Bontà”. Non però una bontà contemplativa, in fondo abbastanza egoista. E neppure una bontà caritatevole. Forse ricorderà quei versi di Antonio Machado che suonano: “Di ciò che gli uomini chiamano/ virtù, giustizia e bontà/ una metà è invidia e l’altra, non è carità”. Per questo penso a quella che si potrebbe definire “bontà attiva”, virtù tanto più difficile perché si manifesta in un periodo storico in cui è palesemente disprezzata, annichilita dal cinismo imperante”. Di sicuro, non è una parola a’ la page. “In effetti non è facile oggi invitare la gente ad essere buona. Ma per quel che mi riguarda, la bontà viene addirittura prima dell’ intelligenza, o meglio è la forma più alta dell’ intelligenza. E’ una bontà che si manifesta nella pratica quotidiana; che non è animata da nessun pensiero salvifico sull’intera umanità; che si accontenta di far “lavorare” il proprio minuscolo granello di sabbia. Nel tentativo di recuperare una relazione umana che sia effettivamente tale”. Ho qui il suo Quaderno, dove lei scrive: “Se mi dicessero di disporre in ordine di precedenza la carità, la giustizia e la bont à, metterei al primo posto la bontà, al secondo la giustizia e al terzo la carità. Perché la bontà, da sola, già dispensa la giustizia e la carità, perché la giustizia giusta già contiene in sé sufficiente carità. La carità è ciò che resta quando non c’ è bontà né giustizia”. “Aggiungerei una piccola postilla. Sono sufficientemente vecchio e sufficientemente scettico per rendermi conto che la “bontà attiva”, come io la chiamo, ha ben poche possibilità di trasformarsi in un orizzonte sociale condiviso. Può però diventare la molla individuale del singolo, il miglior contravveleno di cui può dotarsi quell'”animale malato” che è l’uomo”. Redazionale