“Abbiamo deciso, uniti nel nostro amore, di non lasciarci”. L’infinita fine di Stefan Zweig
Quando decise di uccidersi insieme alla moglie, nella casa in Brasile, a Petrópolis, la notte tra il 22 e il 23 febbraio del 1942, ingerendo una dose massiccia di Veronal, pensava forse, Stefan Zweig, di emulare la «morte eroica» di Heinrich von Kleist, il grande scrittore tedesco di cui aveva scritto la biografia una ventina d’anni prima? Von Kleist e Henriette Vogel, la sua fidanzata, avevano deciso di suicidarsi: lei aveva scoperto di avere un tumore, lui, da tempo senza lavoro, respinto dagli editori, era malato di depressione. Si recarono su un’altura ai margini della foresta, vicino al lago Kleiner Wannsee. Si erano portati un tavolo da picnic, bevvero insieme caffè, vino e rum. Poi, lui tirò fuori la pistola dal cestino e sparò alla compagna, e subito dopo a sé stesso.

Si può allestire un suicidio come una messinscena, uno spettacolo, un copione, con tanto di scenografia, oggetti di scena, regia, interpreti? Così fu per Kleist e la fidanzata. Così fu anche per Zweig e la moglie. Zweig si tolse la vita per primo, vestito di tutto punto, le mani incrociate sul petto, lo sguardo al soffitto. Lotte subito dopo, sdraiandosi sul fianco destro, in vestaglia, abbracciata a lui, la mano sul suo petto. Il suicidio era stato annunciato dai coniugi con diverse lettere, ai familiari, agli amici, agli editori. «Abbiamo deciso, uniti nel nostro amore, di non lasciarci» scrisse ai cognati, con lucido rigore, Stefan.

La teatralità di un suicidio nulla toglie alla sua veridicità. Vuole dimostrare, piuttosto, che non è un atto estemporaneo, ma preparato, pensato. In quello di Zweig, inoltre, c’era un modello a cui ispirarsi. Fu una riscrittura, una rivisitazione. «L’abisso di Kleist è dentro a lui – aveva scritto Stefan nella biografia dello scrittore – perciò non gli può sfuggire. Lo porta con sé come la propria ombra». Parlava di sé stesso? Scriveva di quel suicidio pensando già al suo?
Aa. Vv.
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Certo è che la notizia della fine di Zweig e sua moglie lasciò quasi tutti increduli, scossi. Zweig era uno degli scrittori più famosi, i suoi libri erano vendutissimi – milioni di copie – tradotti in tutto il mondo, e si era potuto permettere un esilio dorato, per sfuggire al nazismo e alle persecuzioni razziali. Nato a Vienna, proveniva da una ricca famiglia ebraica e aveva viaggiato per tutto il mondo. Nella sua casa di Salisburgo, dove si era trasferito dopo la Prima guerra mondiale, aveva ospitato i più grandi ingegni del tempo: da Thomas Mann a Richard Strauss, da Maurice Ravel e Béla Bartok, da Arturo Toscanini e Arthur Schnitzler, da Franz Werfel a James Joyce. Mantenne una lunga corrispondenza con Freud e Rilke. Convinto pacifista, con la salita al potere di Hitler lasciò l’Austria per Londra, e dopo l’Anschluss divenne cittadino britannico. Con la seconda moglie, Lotte Altmann, molto più giovane di lui, nel 1940 si trasferì a New York, e infine per gli ultimi due anni in Brasile, in un bungalow a metà strada su una collina, con un’ampia terrazza coperta con vista sulle montagne e un giardino all’ingresso: un piccolo eden tranquillo, lontano dall’Europa devastata dalla guerra.

Se ogni suicidio rappresenta, in qualche modo, un mistero, quello di Zweig e Lotte, per il modo in cui avvenne, per la sua imprevedibilità, lascia particolarmente interdetti. Certo, Zweig soffriva di disturbo bipolare e Lotte di una grave forma d’asma, certo le sorti dell’Europa inquietavano, ma tutto questo può spiegare la scelta estrema di una coppia legata da sincero amore, una coppia che pochi giorni prima del suicidio era andata a Rio de Janeiro per assistere al carnevale nelle strade della città, quella «fantastica esplosione di gioia», seppure con «sentimenti contrastanti», considerato che «in tutto il mondo le esplosioni uccidono le persone»? Potrebbe essere stata, la causa del gesto, proprio il senso di colpa, quel privilegio di starsene al sicuro mentre nel resto del mondo la guerra infuriava? O fu la nostalgia di casa, il peso dell’esilio?

In una delle ultime lettere ai cognati, Zweig scrisse: «Abbiamo l’impressione di essere più lontani che mai da voi», e magnificando la bellezza del paesaggio brasiliano, espresse il desiderio di avere i parenti con lui e la moglie, lì dove si erano rifugiati, lì dove «sarebbe tutto perfetto senza i pensieri cupi». Negli ultimi giorni le lettere, anche quelle di Lotte, si fecero sempre più malinconiche. I due passavano ogni mattina, tra le undici e mezzogiorno, «seduti sui gradini a guardare se arriva il postino – purtroppo invano». Nell’ultima lettera, invece, Stefan accennò all’asma della moglie come a una delle cause principali della loro decisione. Ma ci si può uccidere per un’asma?

Tra i tanti commenti di scrittori alla notizia del doppio suicidio, spicca per perfidia quello di Thomas Mann:

«Non può essersi ucciso per dolore, figuriamoci per disperazione. Il suo biglietto di addio è del tutto inadeguato. Cosa mai voleva intendere dicendo di trovare così difficile rifarsi una vita? Il gentil sesso deve averci a che fare, uno scandalo in vista?».

Al di là dei pettegolezzi, per provare a comprendere davvero come la coppia sia caduta nella depressione, le loro lettere dal Brasile sono una traccia preziosa: testimoniano una crisi progressiva, una stanchezza e un senso di isolamento crescenti. Ma soprattutto nell’ultima lettera scritta da Stefan, quella in cui annuncia la decisione del suicidio ai cognati, c’è una frase che può offrire una particolare chiave di lettura: «se avessimo potuto prendere Eva con noi avrebbe avuto senso continuare». Chi era Eva?

Eva Altmann era l’unica figlia di Manfred e Hannah Altmann, la sorella di Lotte. Era, dunque, la giovane nipote di Stefan e della moglie, che nel 1940, a undici anni, da Londra, dove la famiglia si era trasferita, fu evacuata negli Stati Uniti, senza i genitori, per metterla in salvo dalla guerra (ritornerà a Londra nel ’43). Gli Zweig, che si trovavano a New York, avevano provveduto a organizzare l’arrivo della nipote, procurando i documenti necessari al viaggio e cercando una scuola adatta e una famiglia che l’avrebbe ospitata in America. «Potete essere sicuri che ci occuperemo di lei e la riporteremo cresciuta e forse con un accento yankee», scrisse Stefan ai genitori della ragazzina. Ma all’epoca i viaggi in transatlantico erano molto pericolosi. Centinaia di navi erano state affondate solo durante l’estate del 1940. Ciò rendeva il viaggio di Eva comprensibilmente preoccupante. I coniugi Zweig, che intanto si erano trasferiti in Brasile (tornarono in America solo per quattro mesi nel ’41), restarono in attesa di un telegramma che annunciasse l’arrivo della nipote a New York. Il telegramma arrivò la sera prima della notizia sull’affondamento di una nave della City of Benares, colpita dai sottomarini tedeschi, una nave che trasportava 406 passeggeri, tra cui una novantina di bambini sfollati: le vittime furono 248, compresi 77 bambini.

«Lo shock di leggere sul giornale la notizia del disastro è stato grande per noi quanto per voi, e posso capire come vi sentite al riguardo. Quel pensiero ci ha tormentato per giorni» scrisse Lotte alla sorella giorni dopo. «Bene, almeno Eva è al sicuro, apparentemente soddisfatta di tutto». Non un commento sui 77 bambini morti. Solo il conforto della nipote «al sicuro». Questa empatia selettiva può risultare sconcertante, ma è la tipica reazione che potrebbe avere una madre nell’apprendere che sua figlia è sopravvissuta a un attentato in cui sono morti quasi un centinaio di bambini. Solo che Eva non era la figlia di Lotte e Stefan, benché a sfogliare le loro lettere il nome della ragazzina ricorra con incredibile insistenza, come se fosse diventata l’unico riferimento concreto, reale, per quanto sfuggente, nella vita dei coniugi Zweig, una vita che diventava, a mano a mano, sempre più irreale, popolata sempre più di fantasmi, nonostante i riconoscimenti e gli onori che Stefan riceveva in Brasile, le conferenze ben remunerate che gli organizzavano. I due si interessavano continuamente a lei, si informavano se si stessa ambientando a New York, se si fosse fatta degli amici, se si trovasse bene a scuola. Si lamentavano velatamente del fatto che Eva non scrivesse («mia cognata è in contatto con Eva – comunica Stefan ai genitori della ragazzina nel novembre del ’40 – e tramite lei riceviamo sempre sue notizie – non da Eva stessa, che sembra troppo felice per scrivere»); sono frequenti i commenti sarcastici sulla famiglia che aveva ospitato Eva a New York, i Salmon, sui loro metodi educativi, o le critiche per la pedagogia della scuola americana, così diversa da quella europea, o della casa-famiglia a Croton-on-Hudson dove fu poi collocata la nipote, la Amity Hall, per l’atmosfera troppo «filosofica e astratta».

Eva era anche il loro «unico richiamo» quando i due programmarono di trasferirsi a New York per la fine del 1940, per due o tre mesi. Eppure, quando il progetto si fece concreto decisero di non alloggiare in città, perché Stefan non avrebbe potuto avere «una vita tranquilla». Scrive Zweig: «state certi che ci prenderemo cura di Eva e vi daremo maggiori notizie su di lei. Potete fare affidamento su di noi», quasi a scusarsi della scelta di non abitare a New York, ma poco fuori. Come mai, se la nipote è stata un loro pensiero costante da quando era sbarcata in America, ora che avevano la possibilità di averla con loro, gli Zweig rinunciarono? Sono diverse le motivazioni che adducevano, ma tutte poco plausibili: spiegavano che non potevano, perché sarebbero andati avanti «con programmi di tre mesi in tre mesi», perché la loro vita era troppo precaria e non sapevano dove andare, o perché sarebbero stati «spesso in città fino a tarda notte» e nel frattempo avrebbero dovuta lasciarla da sola. E quando loro stessi avanzarono l’ipotesi – non richiesta peraltro dai genitori di Eva – di portarla a Rio de Janeiro con loro, per vivere insieme, ecco che subito s’innalzò un’altra barriera di giustificazioni: Eva avrebbe avuto difficoltà a scuola perché avrebbe dovuto imparare ancora una nuova lingua, il portoghese.

Ancora il 10 dicembre 1941, Stefan scriveva ai cognati:

«Ci siamo domandati spesso se non avremmo dovuto prendere Eva con noi, ma la nostra vita sarebbe stata troppo noiosa per lei».

C’è solo una spiegazione al riguardo: era troppo forte la preoccupazione di far pesare sulla nipote la loro depressione incombente, e dunque, più in generale, si potrebbe dire, c’entrava qualcosa il desiderio di risparmiare al destino della generazione successiva la cupa disperazione di chi vive un presente per cui non nutre più fiducia alcuna. Perciò, mentre nelle lettere di Stefan cresceva sempre più la disillusione nei confronti del mondo in preda alla follia, la nostalgia per un’epoca tramontata definitivamente – quella che lo stesso Zweig definiva l’«età d’oro della sicurezza» – e il rimpianto per una civiltà umanistica in sfacelo, lo spazio dedicato a Eva era sempre immune da tutto questo scoramento. Ogni frase, ogni pensiero, ogni riferimento a lei era protetto da qualsiasi sentimento negativo. Sarebbe potuta essere, quella giovane vita in sboccio, un’àncora di salvezza per la depressione di Zweig? Forse sì, ma il rischio di contagiarla con i suoi «pensieri cupi» – così come aveva finito per contagiare la moglie – era più importante del suo desiderio di riempire il vuoto con una nuova presenza umana. I coniugi avevano deciso, alla fine, di ripiegare su un cane, tra l’altro amatissimo. Ma Eva no, Eva doveva restarne fuori. Fu, in fondo, quella rinuncia, da parte di entrambi, un grande atto d’amore.

Prima di uccidersi, Stefan aveva scritto un’ultima opera, il suo capolavoro, La novella degli scacchi, in cui si racconta di un uomo, uno scacchista, che nel suo recente passato è stato arrestato dalla Gestapo e confinato in una nuda stanza d’albergo, sprovvista di tutto, dove, per non impazzire, ha immaginato una scacchiera mentale con cui giocare infinite partite con sé stesso. Anche Zweig aveva, nel suo esilio brasiliano, una scacchiera per distrarsi. Il raffinato racconto, costruito su diversi piani narrativi, era, dunque, una trasparente metafora autobiografica, tanto più che il sensibile e colto protagonista del racconto, durante un viaggio in nave da New York a Buenos Aires (uno dei viaggi intrapresi dallo stesso Stefan) dopo aver sfidato a scacchi un uomo rozzo e ignorante, ma di straordinaria abilità nel gioco, alla fine decide di abbandonare la scacchiera, di rinunciare, di dichiararsi sconfitto di fronte a quella ottusa capacità. C’è, in questo racconto, tutta la stanchezza, la rinuncia alla lotta, il senso di abbandono che portò Zweig, di lì a poco, al suicidio. Il pensiero di Eva, e l’ipotesi sempre rimandata di averla con sé e la moglie, erano stati una tentazione, come un richiamo al calore della vita. Ma l’ombra di Kleist lo incalzava, «l’eterno senza patria», come lo aveva definito nella sua biografia, proprio come lui, quel Kleist che «in ogni luogo cerca refrigerio, cerca guarigione». Ma non c’era stato refrigerio, nessuna guarigione per il genio tedesco, e nemmeno per lui. Così Zweig ha raccontato il suicidio di Kleist e della fidanzata, un suicidio a cui avrà ripensato a lungo, prima di proporlo alla sua Lotte:

«Lieti come una coppia di sposi i due vanno al Wannsee; l’oste li sente ridere, folleggiare sul prato; bevono allegramente, all’aperto, il loro caffè. Poi, esattamente all’ora fissata, parte il primo colpo, e subito dopo il secondo, dritto al cuore della compagna, dritto nella sua bocca. La mano di Kleist non ha tremato».

Le citazioni delle lettere sono tratte da: Stefan e Lotte Zweig, La vita stessa è già tanto in questi giorni. Ultime lettere dall’esilio americano, Castelvecchi, 2022.

I passi della biografia di Kleist sono tratti da: Stefan Zweig, La lotta col demone. Hölderlin, Kleist, Nietzsche, Sperling & Kupfer, 2014.

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