Era il migliore in Concorso. The Room Next Door di Pedro Almodóvar, vincitore di questa 81esima edizione della kermesse veneziana, uscirà in Italia il 5 dicembre con il titolo La stanza accanto ed è un film su come la libertà di vivere e la libertà di morire abbiano diritto di essere amiche.
È come quando, per esempio in un albergo, si sta in una camera “accanto” a un’altra: siamo molto vicino e al tempo stesso lontano e da un’altra parte. Riadattando per il cinema il romanzo di Sigrid Nunez What Are You Going Through del 2020 (tradotto con il titolo Attraverso la vita da Paola Bertante per Garzanti, nel 2022), Almodóvar ha preferito far immaginare prima di tutto non un’azione o una condizione, come nel libro di partenza, ma uno spazio (fisico e simbolico) di relazione, e che riguarda sia chi vive all’interno della scena, sia il film che la sta componendo.
Distanza e prossimità sono, infatti, due posizioni, ma anche due possibilità esistenziali di considerare e accettare la vita, fino al suo punto di verifica più estremo, ossia la morte. Eppure, non è detto che fuga e avvicinamento debbano essere scelte in antitesi: possono anche diventare, dinamicamente, condizioni compresenti e alleate. Per farci vivere questa reciprocità, Almodóvar ha realizzato The Room Next Door, che è il suo ventitreesimo lavoro, ma il primo in inglese, mettendo “accanto” due donne, e tenendo quasi tutto il film sui volti di Tilda Swinton e Julianne Moore, che si cercano l’una nell’altra, come due stanze che si guardano. Due protagoniste che si accompagnano, raccontandosi ma anche rimanendo in silenzio: “coesistendo”, cinematograficamente. Simili ma al tempo stesso diverse, e viceversa. Questo film racconta anche quanta felicità (perfino creativa) possono generare due donne standosi accanto; pure, o soprattutto, in tempi di malattia.
Un film in inglese ma dallo spirito profondamente spagnolo. The Room Next Door è fratello, per tematiche e motivi, del lavoro precedente Dolor y Gloria, perché entrambi sono opere di ricapitolazione: tirano le somme di una vita, come di una cinematografia complessiva, cercano l’essenziale; anche attraverso l’uso di colori sgargianti ma uniformi, e soprattutto mettendosi fuori, lontano, che significa anche, in termini formali, fare un film parlato in inglese ambientato a New York; ma, contemporaneamente, facendoci abitare progressivamente la stanza emotiva allestita dal film come se percorrendola entrassimo in tutte le altre “stanze” dei film di Almodóvar. Tutto questo, senza cercare sintesi definitive, ma mostrandoci immagini (cassetti pieni di ricordi, pagine, foto, quadri, scritture, oggetti), che continuamente riguardano la memoria, cosa si cerca alla fine, e cosa resta. Si parla di spazi, di legami, di dignità e di come possiamo riconoscere le scelte altrui a seconda delle parole di cui ci serviamo, per esempio dicendo “eutanasia” al posto di suicidio, quando un corpo sofferente decide di prendersi invece che essere preso.
The Room Next Door di Pedro Almodóvar
La stanza accanto è un film malinconico, perché lavora con il senso della fine (come molti altri film in concorso a Venezia81), ma non è un film disperato, perché racconta anche relazioni che rinascono dentro altre vite. Martha e Ingrid in gioventù sono state grandi amiche, scrivendo sullo stesso giornale, e condividendo l’epoca spensierata degli anni Settanta-Ottanta; a un certo punto hanno avuto anche il medesimo uomo, Damian (John Turturro). Da grandi si sono allontanate, assumendo abitudini di vita completamente diverse. Martha infatti ha fatto la reporter di guerra – la costruzione della sua biografia sembra indirettamente ispirarsi, fin dal nome, alla vita di Martha Gellhorn (1908-1998), di cui nel film si intravede un libro (The View from the Ground). Gellhorn, statunitense, è stata una delle più importanti corrispondenti di guerra del Novecento, e a novant’anni, cieca e malata, ha messo fine alla sua esistenza ingerendo del veleno.
Ingrid (Julianne Moore) invece è stata al riparo, a scrivere romanzi, diventando famosa. Le due donne si ritrovano dopo molti anni, quando arriva la notizia che una delle due, Martha (Tilda Swinton), ha una malattia terminale e Ingrid va a farle visita: l’ospedale è lo spazio in cui si ritrovano, e da cui in un certo senso si metteranno in salvo. Anche stavolta la loro diversità si confronta e si completa, specchiandosi anche nel nostro sguardo. Così assistiamo e partecipiamo a un racconto che dà vita alla paura di morire, quella di Ingrid, messa accanto e fatta incontrare con la paura di vivere senza dignità di Martha, che di fronte all’ennesima terapia ormai inutile decide di spostarsi e reinventarsi un percorso di fine vita, cercando una casa bellissima in mezzo al bosco dove andrà a abitare per un mese, fino a quando, solo quando vorrà e saprà lei, ingoierà una pasticca letale. Non sarà sola però: nella casa sarà insieme a Ingrid, che inizialmente è sorpresa e turbata («Don’t you want someone closer?» le chiede), ma poi accetta la proposta di dormire nella stanza accanto. Senza assistere direttamente all’evento, in questo modo potrà infatti sistemare le cose, una volta che l’amica avrà messo fine alla sua esistenza, scivolando via, con una scelta che metterà in armonia vita e morte, come la neve, nel finale del racconto di Joyce I morti (ripreso più volte nel film, e che funziona come tema ricorrente), che cade lentamente «upon all the living and the dead».