Abbiamo visto “ La solitudine dei numeri primi “ regia di Saverio Costanzo.
Siamo tra quei lettori che non reputano il libro di Paolo Giordano essenziale o necessario. Un bel titolo da editing e una storia che può piacere ad adolescenti sensibili e a lettori ancora ingenui. A noi è sembrato un romanzo fin troppo costruito, furbetto e se ci lasciate la metafora potremmo aggiungere che il racconto sembra come qualcuno che guarda la psicanalisi e lo sviluppo evolutivo attraverso il buco della serratura. Mettendosi a scrivere la sceneggiatura Costanzo e lo stesso autore Giordano devono essersi accorti che cinematograficamente la storia pur apparentemente funzionale non aveva un respiro ‘ alto ‘ e allora hanno scomposto la storia in tre periodi con continui andirivieni: infanzia, adolescenza, età adulta e poi “ sette anni dopo “, ma non avendo la bravura o il talento di uno sceneggiatore come Guillermo Arriaga o il genio di un regista come Alejandro González Iñárritu ( quelli di “ 21 grammi “ per intenderci ) hanno sovrapposto feste dove, quella in cui si lasciano, avviene un attimo prima di quella in cui si conoscono, dove la scena dell’incidente di lei ( che nel libro è nel primo capitolo ) ci viene mostrata ( inutilmente ) quando la si è detta e spiegata ripetutamente durante tutto il film. A questo si aggiunga che il regista – forse ‘ schiacciato ‘ da un tale successo editoriale e da una sua non condivisione totale – ha cercato una chiave di regia personale e l’ha trovata spostando lo stile da romanzo drammatico di struttura lineare a un film che rompe lo spazio-tempo e sceglie l’horror come stile. Ma non solo l’orrore della sofferenza del corpo e l’anima dei due protagonisti ma anche tutto ciò che li circonda ( genitori e amici, se non sono inadeguati sono dei piccoli mostri senza alcuna qualità ), a questo si aggiunge una colonna sonora alla “ Dario Argento “, le musiche sono di Mike Patton, e in alcuni momenti c’è la scelta di una grafica di grande impatto ma settoriale e discontinua. Sembra quasi che Costanzo abbia strizzato l’occhio oltre che al Kubrick di Shining anche ad alcune favole dei fratelli Grimm. Il risultato finale è un film poco riuscito, l’autore ha tentato di attraversare il fiume ma si è fermato in mezzo al guado. C’è stato il tentativo di scrollarsi di dosso una storia banalotta e furbastra ma probabilmente se avesse osato di più verso un horror-gotico sarebbe stato cacciato dal produttore e da chissà chi altro. Da segnalare la bella fotografia di Fabio Cianchetti, i costumi di Antonella Cannarozzi e per quanto riguarda gli attori, come sempre molto brava Alba Rohrwacher e sorprendente per coraggio e bravura Isabella Rossellini, mentre il protagonista maschile Luca Marinelli risulta involontariamente una parodia di qualcuno che soffre con borse sotto gli occhi e atteggiamento fisso.
Nei titoli di testa il romanzo viene segnalato come soggetto del film, la storia è la stessa con le dovute modifiche ma – come dicevamo – la non linearità della storia la modifica sensibilmente. L’unica cosa che c’è nel libro e che è mancata a noi vedendo il film è ‘ la spiegazione ‘ del titolo, bruciata durante una festa di matrimonio e accennata dalla sposa tra la confusione generale. La spiegazione ? Nella serie infinita dei numeri naturali, esistono alcuni numeri speciali, i numeri primi, divisibili solo per se stessi e per uno. Se ne stanno come tutti gli altri schiacciati tra due numeri, ma hanno qualcosa di strano, si distinguono dagli altri e conservano un alone di seducente mistero che ha catturato l’interesse di generazioni di matematici. Fra questi, esistono poi dei numeri ancora più particolari e affascinanti, gli studiosi li hanno definiti “primi gemelli”: sono due numeri primi separati da un unico numero. L’11 e il 13, il 17 e il 19, il 41 e il 43… A mano a mano che si va avanti questi numeri compaiono sempre con minore frequenza, ma, gli studiosi assicurano, anche quando ci si sta per arrendere, quando non si ha più voglia di contare, ecco che ci si imbatterà in altri due gemelli, stretti l’uno all’altro nella loro solitudine.
Alice e Mattia si conoscono al liceo, sono due anime così vicine e così lontane allo stesso tempo, lontane più per colpa di lui che non di lei. Hanno avuto nell’infanzia due traumi che non sembrano volere superare, lei è zoppa e anoressica, lui è chiuso in se stesso al limite dell’autismo sentimentale. Si incontrano e vivono le diverse fasi della vita giovanile senza darsi molto ma diventando necessari l’uno per l’altra, fino a che lui laureato in matematica non parte per la Germania per fare il ricercatore all’università e lei – quasi per ripicca, ma questo c’è nel libro, nel film non viene detto – decide di sposare un medico che ha conosciuto al capezzale della madre in ospedale. C’è poi il “ sette anni dopo “ lei lo chiama, lui ritorna e il finale è aperto.