Abbiamo visto “ Post Mortem “ diretto da Pablo Larrain.
Regista originale e complesso allo stesso tempo, con idee da cineasta portate sullo schermo però con uno stile troppo scheletrico, povero, senza concessioni allo spettacolo. I suoi film sono ombrosi, grevi, dall’estetica ‘ chiusa ‘, senza concessioni e senza alcuna empatia. Sono un po’ come il regista che litiga con i giornalisti quando lo intervistano, con i suoi modi duri, antipatici e dicono ‘ che non si sa come prenderlo ‘. Da cosa deriva tutto questo ? Tenendo presente che ha solo trentaquattro anni ? E che una delle sue ossessioni riverberate nei suoi suoi film è il colpo di stato del boia Pinochet ? Probabilmente deve avere un bel conflitto con suo padre ex presidente del Senato e senatore del partito più a destra del Cile, la Unión Demócrata Independiente (Udi) che è il ricettacolo dei sentimenti politici più reazionari, fascisti e più legati alla Chiesa cattolica, nella versione più clericale, integralista e severa. La madre invece Magdalena Matte è la ministra dell’Abitazione nell’attuale governo di destra. Pablo Larrain invece è uno che dice che Pinochet è stato un assassino e un ladro, e ha ambientato i suoi due ultimi film ai tempi della dittatura perché è in quell’epoca, sostiene, che affondano le radici di un certo modo d’essere cileni, che si dovrebbe elaborare per poi liberarsene. Ma allo stesso tempo, suoi spettatori alle prime sono proprio quei rappresentanti di quel partito paterno che tanto detesta. Bel groviglio personale.
Pablo Larrain debutta nel 1995 con il film “ Il volo “ una storia un po’ velleitaria di un viaggio attraverso la musica e la follia: un dramma che prova a raccontare la condizione umana attraverso il conflitto della creazione, l’originalità e l’invidia. Nel 1997 dirige il suo secondo film, Tony Manero presentato alla Quinzaine des Realisateurs e alla ventiseiesima edizione del Torino Film Festival. Sempre a Torino l’attore protagonista Alfredo Castro ha ricevuto il premio quale miglior attore. Il filmI è stato candidato all’Oscar quale miglior film straniero. La storia potente e cupissima narra di un povero cristo, Raùl Peralta che in pieno regime di Pinochet, passa il tempo a imitare passi e le movenze del Toni Manero de “ La Febbre del sabato sera “ in uno spettacolo di danza che tiene in un night-club di periferia. Lo stato di alienazione nel quale si trova lo porta, pur di poter vivere come il suo mito, a compiere crimini sempre più efferati che passano inosservati ( Il tema del sosia però non è nuovo nel cinema cileno, a metà degli anni Settanta, il regista Carlos Flores Delpino, ha realizzato “ El Charles Bronson chileno o Identicamente igual ” un film sul sosia cileno dell’attore americano che è diventato un’opera cult ). Nel 2010 dirige “ Post Mortem “ che è stato presentato in gara all’ultimo festival di Venezia. Anche questo film racconta personaggi tristi, sordidi, brutti, le ambientazioni sono cupe, e la storia è destinata a finir male. Mario ( Alfredo Castro – il più noto attore cileno di cinema e teatro e attore feticcio di Larrain ) è un uomo dai capelli lunghi a caschetto, è solo, triste, solitario ( sul genere del personaggio di Toni Servillo in “ Gorbaciof “ ), lavora in una sala d’obitorio come dattilografo, annota le cause del decesso dettate dal medico. Questa volta si tratta di una donna denutrita e disidratata. Mario è distaccato e distante, come al solito ma questa volta conosce la donna, è Nancy ( Antonia Zegers – sembrava dovesse essere lei la vincitrice della Coppa Volpi a Venezia ), la sua dirimpettaia che ha amato e anche fatto morire. Inizia a ricordare, siamo nel Cile dell’ultimo periodo di Salvador Allende e del gobierno popular, ma l’epoca si intuisce soltanto dall’abbigliamento e che siamo in Cile lo si comprende soltanto in là nella storia. Mario è innamorato di Nancy, la osserva di lontano, ne controlla le mosse, fino a che non trova il coraggio di andare a vederla ballare in teatro e poi nel camerino, assiste così al suo licenziamento e l’accompagna a casa, ma i due in auto sono imbottigliati in una manifestazione politica e lei viene prelevata dall’auto da un amico comunista che la trascina nel corteo, lasciando l’uomo da solo..
Nancy vuole scusarsi con Mario, va da lui, si siede al tavolo del soggiorno ma scoppia a piangere; poco dopo anche lui comincia a singhiozzare. I due soffrono le proprie miserie: lei il licenziamento, lui la sua solitudine sentimentale ( forse anche il presagio che il loro paese è sul baratro. ). Cenano in un ristorante e lui le chiede di sposarlo ma lei fa finta di non capire. Siamo all’11 settembre del 1973, Mario intuisce la tragedia del golpe solo dai rumori e dalle grida che sente sotto la doccia. Quando scende in strada trova la casa di Nancy devastata e vuota e intorno solo carcasse d’auto. Ma si rende conto del cambiamento quando va al lavoro, all’obitorio ci sono molti militari e poco dopo giunge il corpo di Salvador Allende che deve subire l’autopsia. Il giorno dopo iniziano ad arrivare centinaia di corpi che riempiono l’obitorio e nei giorni continuano ad essere scaricati dai camion altri morti come fossero sacchi di patate e lui deve trascinarli nei corridoio con i carrelli con cui si trascina la merce. Ma l’unica preoccupazione di Mario è sapere dove sia Nancy e quando la ritrova, nascosta in uno scantinato presso casa sua, la rassicura: non le succederà niente, perché ora lui ha una posizione. Ma lei ama un altro, un oppositore che trascorre con lei nello scantinato la prigionia e quando lui li scopre…
“ Post mortem “ è un film per stomaci forti, duro e senza un briciolo di speranza. Con momenti di grande cinema ma anche con momenti di una lentezza non sempre giustificata. Le scene sono spoglie, i dialoghi ristretti al minimo necessario e si respira un’aria pesante come pesanti possono essere i corpi dei morti. Gli attori sono bravissimi nel sottrarre al massimo i loro dolori, senza mai esteriorizzare quello che provano.