Abbiamo visto “ Noi Credevamo “ diretto da Mario Martone.
Sette anni per prepararlo e poterlo realizzare, sette sono circa i milioni che sono serviti per poterlo portare a compimento. Un “ colossal “ di tre ore ( quattro per la versione televisiva ), con un cast “ stellare “ per il cinema italiano. Un po’ come l’ultimo film di Tornatore, ma questo – anche se con una sceneggiatura non del tutto precisa e riuscita – è sicuramente un film forte e possente, senza bozzettismi, velleitarismi e slogan. Argomento essenziale della nostra storia, Il Risorgimento è stato visitato poco dal nostro Cinema e non sempre con efficacia: c’è sempre stato il rischio del ‘ santino ‘ o del didascalico se non del didattico. Ricordiamo i film di Visconti con il potentissimo “ Senso “ con il gusto per il melodramma e lo stile epico ideologizzato e con il ‘ fantasmagorico ‘ e mitico “ Gattopardo “ in cui Visconti cerca più che la Storia soprattutto la ricerca del mondo perduto. Ricordiamo Luigi Magni con i suoi film “ Nell’anno del Signore “, “ Il nome del papa re “, “ In nome del popolo sovrano “, “Arrivano i bersaglieri “ e “ La Carbonara “ in cui la romanità e ‘ il popolaresco ‘ smitizzano gli eroi e quei tempi. Ricordiamo, andando indietro nel tempo, “ San Michele aveva un gallo “ e “ Allonsanfans “ dei Fratelli Taviani, “ Bronte, cronaca di un massacro “ di Florestano Vancini. E poi il calligrafico “ Piccolo mondo antico “ di Mario Soldati che racconta le delusioni prodotte dalla conquistata unità e dagli ideali traditi, “ 1860 “ di Alessandro Blasetti del 1934 che si conclude con una imbarazzante e retorica visione delle falangi fasciste che sfilavano davanti ai reduci garibaldini. E poi, ricordando alla rinfusa, “I Viceré “ di Roberto Faenza “, “ Li chiamarono… briganti “ di Pasquale Squitieri, “ Il brigante di Tacca del lupo “ di Pietro Germi, “ Viva l’Italia “ di Roberto Rossellini, “ La pattuglia sperduta “ di Pietro Nelli, “ Quanto è bello lu murire acciso “ di Ennio Lorenzini, E altro ancora…
Abbiamo già scritto che “ Noi credevamo “ è un film potente e anche coraggioso, nonostante una forma algida e poco “ melodrammatica “ – ma questa è la cifra stilistica di Martone –, ma dobbiamo anche dire che se c’è una grave colpa questa è nella sceneggiatura; ed è un peccato mortale. Perché un ‘ operazione culturale ‘ del genere, in un’epoca di questo genere, richiederebbe un’attenzione maggiore, anche maniacale: Visconti si serviva di scrittori come Suso Cecchi d’Amico, Pasquale Festa Campanile, Enrico Medioli, Massimo Franciosa o Giorgio Bassani; Martone si serve solo di Giancarlo De Cataldo, uno scrittore legato a “ Romanzo criminale “ e a pochissime sceneggiature di gruppo, forse con un’esperienza e una professionalità non sufficiente per uno script di tale complessità epica, culturale e storica. A quanto pare Martone si è voluto caricare sulle spalle l’Epica della nostra Storia ed ha effettivamente rischiato in alcuni passaggi solo un esercizio di stile, se non di creare ‘ la meglio gioventù ‘ dei nostri bisnonni. Eppure la sceneggiatura è stata costruita sulla falsa riga di “ Rocco e i suoi fratelli “: un’introduzione ( la più confusa e lenta, che un montaggio più coraggioso avrebbe snellito e forse emotivamente più coinvolto lo spettatore ), i tre atti divisi sui tre protagonisti e il finale ( la parte più forte del film, più emotiva, più politica, più chiara e anche più teatrale ), anche se questo tipo di ‘interpretazione’ o svelamento dei lati bui e “osceni” del Risorgimento è stata già raccontata dai fratelli Taviani, da Vancini e da altri ancora. Altra scelta stilistica interessante ( ma non nuovissima ) è la ‘ marginalità ‘ dei tre protagonisti nella storia; lottano, pagano dei prezzi alti come il carcere o la morte, sono a breve contatto con Mazzini o Garibaldi, ma non condizionano o indirizzano la Storia.
Come gran parte dei film sul Risorgimento, anche “ Noi credevamo “ è tratto da un romanzo, di Anna Banti, pubblicato nel 1967. E’ la storia di tre amici del sud Italia, due figli della nobililtà agraria e un figlio di contadini agiati. Domenico, buono, silenzioso, coriaceo e coerente fino alla fine – l’unico che assisterà alla disillusione degli ideali; Angelo, instabile, inquieto che si trasforma in un fanatico estremista; e Salvatore, il figlio del popolo, concreto, caparbio, deciso.
Reagiscono alla repressione borbonica del 1828 giurando fedeltà alla Giovine Italia e agli ideali repubblicani e democratici di Mazzini. Una curiosità, ma come fa Mazzini che ha ventisei anni nel 1831 a essere come Toni Servillo ? In una girandola di trasferimenti i tre passano tra Torino e Parigi, il sud Italia e Ginevra. Il primo, ripetuto e un po’ confuso temporalmente destino è giungere presso l’affascinante, sensuale e lucida politicamente Cristina Belgioioso che vive in esilio a Parigi dopo essere stata bandita dalla Lombardia, dall’Impero Autro-Ungarico. I tre amici partecipano o assistono al fallimento del tentativo di uccidere Carlo Alberto nonché all’insuccesso dei moti savoiardi del 1834. Questa delusione porterà i tre amici fraterni a prendere strade diverse e a creare una frattura irrimediabile. A questo punto partono i tre ‘ blocchi ‘ narrativi che riguardano i tre amici. Ma sarà con lo sguardo di Domenico che noi spettatori osserveremo l’evoluzione e il tradimento della lotta mazziniana e del cambiamento di ‘epoca’: se il giovane prende coscienza grazie alla repressione criminale delle truppe borboniche, perderà la speranza dopo decenni quando vedrà sempre i contadini uccisi e maltrattati dall’esercito piemontese e urlerà per la prima volta disperato quando un ufficiale piemontese farà fucilare dei garibaldini. In tutto questo c’è un Mazzini ieratico e distante, un Garibaldi lontano, un Filippo Orsini che prepara il complotto contro Napoleone III, la “follia” di Angelo, il carcere di Domenico assieme a Carlo Poerio, un Crispi concreto e complottatore “politico”. Su tutto questo lo scontro tra repubblicani democratici e monarchici.
Martone ritorna al cinema dopo sette anni, dopo “ L’odore del sangue “. “ Noi credavamo “ è diretto con sicurezza e ci regala alcuni momenti molto belli, alcune scene corali sono efficaci anche se sembra che narrativamente l’autore sia troppo interessato a dover rendere cinematografico il suo pensiero e le sue idee, mentre come regia prevale un’idea più teatrale e quando lo manifesta chiaramente – nella parte finale – sembra più compatto e coinvolgente. A
volte però non riesce a regalare quelle emozioni e quei sentimenti che un tempo i registi riuscivano a trasmettere al pubblico e far ‘nostri’ senza problemi. Un piccolo dettaglio da segnalare: ogni tanto compaiono strutture in cemento armato e scale moderne, non ci sembra del tutto sbagliata l’idea ma almeno potevano essere dei ‘ mostri ‘ più cinematografici.
Il cast d’attori risulta ricco e variegato, tra i tanti attori, tutti bravi e credibili, vanno segnalati Valerio Binasco ( Angelo, da adulto – lo ricordiamo in “ Lavorare con lentezza “, e “ La Bestia nel cuore “ ), Francesca Inaudi ( Cristina di Belgioioso da giovane – la ricordiamo in “ Dopo mezzanotte “ e “ Io, Don Giovanni “ ), Luigi Pisani ( Salvatore – al suo debutto al cinema ).
Da segnalare tutti i reparti, dalla fotografia, alle scenografie, ai costumi.