Abbiamo visto “ Il responsabile delle risorse umane “ diretto da Eran Riklis.
Riklis è un regista israeliano cresciuto tra gli Stati Uniti, Canada e Brasile, ha diretto già quattordici pellicole tra televisione e cinema, e i suoi film più recenti sono dei piccoli gioielli riconosciuti sia dal pubblico che dalla critica di tutto il mondo. E’ forse il migliore regista israeliano contemporaneo. Tra i suoi film possiamo ricordare quello d’esordio “B’Yom Bahir Ro’im et Dameshek “ ( On a clear day you can see Damascus ) del 1984, poi sono da segnalare “ Finale di partita “ del 1992, presentato al Festival di Venezia e a quello di Berlino, “ Zohar “, il più grande successo del cinema israeliano, il rigoroso “ La sposa siriana “ del 2004, in cui si parlano cinque lingue diverse: ( arabo, inglese, ebraico, russo e francese ), e vincitore di ben 18 premi internazionali. Il suo penultimo film è stato il lirico “ Il giardino di limoni “ che ha vinto il premio del pubblico al Festival di Berlino. Oggi nelle sale è giunto “ Il responsabile delle risorse umane “ tratto dall’omonimo romanzo di Abraham B. Yehoshua, della cosiddetta Israeli New Wave e forse il miglior scrittore israeliano, ed è candidato all’Oscar come miglior film straniero. E’ un film più disincantato e acquiescente con la realtà del precedente, una storia costruita perfettamente, originale, forte, così “ semplice “ da sembrare semplice. Coinvolgente e mai banale. Con una fotografia perfetta che non si sovrappone alla storia e si ascrive per sottrazione, con un montaggio splendido che è quasi una seconda regia, con una regia al servizio della storia senza alcun eccesso o formalismo, con un gruppo d’attori dalle facce vere e forti che si possono ormai trovare solo nei sud del mondo. Insomma un ottimo film fuori dall’omologazione generale, una storia profondamente umana in cui tutti i personaggi – nel corso di un viaggio inaspettato – imparano a comprendere la profondità e la durezza della vita e forse un po’ se stessi, e forse le loro vite cambiano in meglio.
Il responsabile delle risorse umane di un panificio israeliano mentre sta per andarsene a casa viene informato dalla sua datrice di lavoro che una loro dipendente, Yulia, è morta al mercato durante un attacco terrorista; deve scoprire chi sia la donna e preparare una lettera per un giornale che il giorno dopo pubblicherà un articolo sull’insensibilità dell’azienda nei confronti della donna che è all’’obitorio da una settimana. L’uomo stanco, indifferente, con grossi problemi familiari per cui è costretto a dormire in albergo deve affrontare l’emergenza. Scoprirà che la donna era un’umile lavoratrice romena di cui non sapeva nulla e gli tocca – anche a causa del giornale che lo accusa di indifferenza e cinismo – per evitare problemi all’azienda di riportare la salma della dipendente nel paese d’origine e consegnarla ai familiari. Un viaggio in Romania semplice e breve: un volo con il feretro, una donazione in denaro ai familiari, e subito via. Ma appena giunge in Romania, tutto si complica, il marito è divorziato dalla donna, il figlio minorenne vive per strada e l’unica che può accettare il corpo è la vecchia madre che però vive in un paesino sperduto a mille chilometri da Bucarest. Il dramma si trasforma in commedia e il protagonista viene coinvolto in un viaggio folle e imprevedibile popolato da personaggi fuori dal mondo. E’ costretto a portare la bara con la donna assieme al figlio di lei, a un giornalista israeliano infantile e rompicoglioni, al marito della console e a un autista ubriacone, prima in un furgoncino e poi da solo in un carro armato trovato sulla strada innevata e bloccata dal freddo. Un viaggio in luoghi sconosciuti, fuori dal mondo, che diventa un on the road strambo e faticoso ma allo stesso tempo è come una purificazione, un’espiazione che gli farà trovare quell’umanità e quel desiderio di vivere che aveva perso.
Da segnalare l’ottima prova del protagonista, Mark Ivanir, ma sono tutti bravi gli attori.