Di casa in casa, la vita.
Con questa in cui sto per trasferirmi saranno (se ho contato bene) 25 le case in cui ho vissuto. In 50 anni. Ventitre negli ultimi ventitre. And counting. La prima casa era di mio nonno. La seconda dei miei genitori. La numero 15 era mia. L’ho venduta. La 3 e la 23 appartenevano a persone che ho amato e assomigliavano a un abbraccio. Tre erano a Bologna, otto a Torino, otto a Roma, una al Cairo, due a Beirut, e tre a New York. Ci sono case che ho posseduto senza averci mai vissuto. Ci sono case che ho abitato senza sapre chi le possedesse, mandavo un bonifico a una serie di lettere, con una serie di cifre, prendevo e restituivo le chiavi a un portiere. Traslocavo. E avanti. Ho avuto a Manhattan un appartamento di cristallo così spettacolare che il tecnico della tv mi disse: “Sono stato da Michael Jackson e neanche lui ha questa vista”. Ho avuto a Torino una mansarda così piccola e buia che mia madre la raggiunse ansimando, si sedette nell’unica poltrona e pianse ripetendo: “Perché ti fai questo?”. Il bagno, nero, era grande quanto il resto. Sul letto c’era un abbaino. Dal vetro aperto entrava ogni notte una gatta e se ne andava all’alba. Una sensitiva disse che era un fantasma e seguendolo poteva trovarmi dovunque mi rifugiassi. La cosa strana è che lo fece. Poi ho
traslocato anche dai fantasmi. Nella prima casa di Beirut entrava invece, in mia assenza, un agente dei servizi. Qualunque giornalista è una spia, pensavano. Si portò via agende, schede della macchina fotografica e, già che c’era, la macchina fotografica stessa, i soldi e i biglietti arerei per l’Oman infilati nell’agenda. Entrava con le chiavi. Gliele aveva date il mio migliore amico libanese. Me le aveva chieste millantando un’amante. Mai avuto grande fortuna con gli amici. Né con i vicini di casa.