Troppi ricordi, adesso? A «Tempo presente», la «rivista bellissima e controcorrente» rievocata da Pierluigi Battista su «la Lettura», ho collaborato moltissimo. E volentieri. Ero naturalmente amico del suo condirettore Nicola Chiaromonte, eccellente critico e saggista teatrale al «Mondo», ove ci si incontrava quando settimanalmente e puntualmente passava a consegnare il «pezzo» e a far conversazione. Ma soprattutto alle «prime» teatrali ci si vedeva sovente, e poi si pranzava, con Patti e De Feo e altri amici, e quindi si andava in via Veneto: spesso in polemica, giacché a lui interessavano soprattutto i testi, e molto meno la regia e lo spettacolo.
Ma i critici amici poi si divertivano se in certe recensioni scapestrate si riusavano alcune loro zaffate, non scritte né citabili però disponibili. E analogamente per gli amici critici musicali, beati per ogni mancanza di seriosità.
Fatale fu evidentemente la rivelazione che la Cia sovvenzionasse il «Congresso per la libertà della cultura», sponsor di «Tempo presente» ed «Encounter» e «Preuves», ove operavano diversi amici di onestà intellettuale davvero cristallina. Ricordo bene una colazione a New York, perché era domenica, avevo tranquillamente invitato Camilla Pecci Blunt e Stephen Spender, e certamente non si immaginava che il «New York Times» proprio quella mattina avrebbe rivelato i traffici della Cia con le nostre care riviste. Camilla fu perentoria: «Non potevate non sapere!». E Spender un po’ turbato replicava che altri si erano occupati di quelle faccende. Lui certamente no. Ma la ricaduta fu grave, da noi. C’era la guerra fredda.
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Va però considerato, poi, che quell’espressionismo astratto tanto reclamizzato quale arte ufficiale degli Stati Uniti nel mondo (e quindi «Avanguardie della Cia») si doveva spesso ad artisti ebrei, e dunque in regola con la negazione religiosa della figura umana, mentre il realismo socialista e staliniano esaltava gli atleti e i militari quali alfieri rappresentativi dell’Unione Sovietica. Dunque, eroi positivi attraenti come i migliori protagonisti nei manifesti di Hollywood.
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Chiaromonte viene spesso citato nei carteggi fra Mary McCarthy e Hannah Arendt, dove si osserva che lui e Moravia, familiari nei paraggi della «Partisan Review», a Roma si aggrappano al telefono (allora fisso, in anticamera) non appena entrano in un appartamento. Ma appare menzionato anche nel Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, perché la sua mamma l’aveva conosciuto «grosso, tarchiato, con i riccioli neri» a casa della sorella Paola, consorte di Adriano Olivetti, a Forte dei Marmi.
«Chiaromonte aveva una moglie molto malata, ed era molto povero; tuttavia aiutava Cafi, quando poteva». «Cafi! Cafi! Cafi! – diceva la Paola disgustata». «Nuovo astro che sorge!», commentava il papà. E si trattava di Andrea Caffi, poi talvolta pubblicato su «Tempo presente».
A Forte dei Marmi, Longhi e Carrà, evocati da A. C. Quintavalle, fanno rammentare naturalmente il Quarto Platano del Caffè Roma, dove ci si vedeva ai bei tempi di «Paragone». Lì avevo pubblicato il mio primo racconto, poi pubblicato da Calvino (Einaudi, ’57). E lì ritrovavo Lunghi e Anna Santi, che qualche volta andai a trovare nella loro casetta, verso il Cinquale, fra i campi.
E lì passavano l’estate alcuni parmigiani influenti, Pietrino e Carla Bianchi, Attilio e Ninetta Bertolucci, con Carrà ed Enrico Pea (ambedue con baschetti caratteristici), con altri meno stanziali e il Professore: Giuseppe de Robertis.
Stavo a Fiumetto, e andavo in lambretta. Passando magari prima, a prendere un’amica figlia di un influente direttore, che andava riportata entro le nove, assolutamente senza passare dalla Capannina, che era lì davanti alla Villa Malaparte, e dove prima della guerra avevano danzato Chiaromonte e «la Paola», mamma di: Roberto Olivetti che in seguito fu un carissimo amico attraverso due o tre mogli, a Palazzo Orsini.
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Oh, Giosetta. «Apprendista stregona» (o streghina beneducata, o streghetta ottantenne), dopo essere passata intatta dalle Orsoline alle Zoccolette, quali vie di abitazioni successive. E vittoriosa superstite della trionfale e poi drammatica Scuola di Piazza del Popolo, ai magnifici tempi della «Tartaruga», leggendaria galleria di Plinio de Martiis. O quasi mezzo secolo fa, ai tempi della nostra mitica Carmen a Bologna, ove per venire incontro agli «svecchiamenti» chiesti dal neosovrintendente Badini, Giosetta non soltanto cosparse di pois e demi-pois le gonne delle sigaraie-lucciole, ma posò le solite parrucche da armigeri medioevali sul capo delle comparse. E allora si levò il grido di «fuori i capelloni!», giacché si era alla vigilia del fatale Sessantotto.
Le foto «travestite» di Giosetta Fioroni sono impressionanti, al Museo Macro romano, perché vi si scorge un noir spesso dissimulato. Qui debitamente imparruccato. E si profila o faufila attraverso anche i disegni, e le trame, con Goffredo Parise che mi regalava tagli per camicie d’anteguerra, e consigliava rari vini in un caveau bancario milanese divenuto ristorante effimero chic. Sarà poi stato un Walter Benjamin o un John Betjeman, quel raccapricciante pupazzo appeso dietro una loro porta, alla Camilluccia; quando Goffredo incontrava Gadda che si recava (vecchio gentiluomo) dal barbiere mattutino, mentre lui andava alla posta con inquietanti involucri cilindrici destinati a certe madame letterarie, con sensibili apprensioni dell’Ingegnere…
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Le nostre fisarmoniche venivano generalmente da Stradella, come le migliori valigie. Ma si ascoltavano anche in certe scene d’osteria, per esempio nel Wozzeck. Ora si incontrano nei concerti di tipo forse russo, dette «bayàn». Però tornano in mente certe rozze conghe di tanti anni fa, che finivano con «el bayòn».