Di ritorno dai funerali di Pinelli annotava nel dicembre ’69 Franco Fortini: «Non so come ma ho la certezza che con la strage di pochi giorni fa, l’orrendo coro dei giornali e questo assassinio del Pinelli, è davvero finita una età, cominciata ai primi del decennio.» Così fu veramente e oggi lo comprendiamo meglio, se appena alziamo lo sguardo dallo scialo delle ricorrenze e di quanto le accompagna. Su quegli anni, Fortini (un poeta, figuriamoci) molto scrisse che è stato con accortezza dimenticato, e a distanza di tempo, nei tardi e marci Ottanta, dette all’«Espresso» una lettera pubblica che aveva per destinataria Licia Pinelli. Occasione (1986) ne era la disputa su un monumento a Bresci.
Precisava Fortini in apertura che «l’idea anarchica di che cosa l’uomo sia» non era mai stata la propria; nondimeno, auspicava che «i sassi e muri scritti portassero i nomi che più possono offendere l’ipocrisia pubblica e il progressismo omicida e suicida: Bakunin, Vanzetti, Macnò, Durruti, Berneri, Serantini, Bresci, Pinelli.» Quei nomi, aggiungeva, potevano aiutare a «fare più lucida la divisione degli interessi e dei bisogni contro la infame pace sociale predicata all’ombra delle portaerei e delle centrali atomiche.» Poi però, come per un soprassalto che distolga da un comportamento o da un discorso divenuto rituale e senza più verità, concludeva la lettera correggendosi, anzi contraddicendosi recisamente: no, meglio non perseverare in forme di memoria affidate a monumenti, lapidi e anniversari. Come se date e nomi ritualizzati, istituzionalizzati, non potessero più turbare né offendere chicchessia, e tanto meno l’ipocrisia pubblica; e perciò, esortava: «via dai cimiteri, dalle commemorazioni, dall’odore di moderna rifrittura che il vento mi porta dalle feste settembrine di partito; via fin dai libri di storia.»
Senza più memoria, dunque? Nemmeno quella di parte, il ricordo delle vittime dell’ingiustizia? «La memoria dovrebbe avere ben altro, e altrimenti, da capire senza pietà e da fare», così finiva la lettera a Licia Pinelli. A queste domande e a quella richiesta di «ben altro» non è mancata la risposta, di tutt’altro segno da quello alluso da Fortini: non solo una lunghissima restaurazione, di cui nel dicembre ’69 risuonavano i primi e atroci accordi, ma un’ampia e capillare opera di rimozione per sovraesposizione, lo strumento più idoneo per mantenere tutto come prima e per giunta salvarsi la coscienza, magari attenendosi alle istruzioni bipartisan sull’uso della storia. Tutto feticizzare, da Auschwitz a Hiroshima a Ground Zero, da Piazza Fontana a Columbine High School, idroscalo di Ostia o Capaci, ecco una soluzione soddisfacente e sempre valida; l’«altro» riassorbito e omologato, tenuto a distanza nell’immediata vicinanza, nel flusso senza pause delle parole e delle immagini, che già contengono nello sguardo di chi le fabbrica il consumo prossimo, l’acquiescenza e la garanzia preventiva di un generico e interessato consenso, peggiore dell’oblio e di quello complice. Così l’atrofia indotta, l’ignoranza procurata, la diserzione intellettuale, l’afasia petulante, il cinismo autoimmune e il solipsismo di massa dei nostri anni hanno creato un vasto inframondo che ormai solo raggi molto speciali, di certi artisti, riescono a intercettare. Notte o giorno, per il drone non fa differenza, è sempre stagione di caccia; le killing list sono aggiornate in tempo reale. Tutto va per il meglio, possiamo stare tranquilli e continuare a credere di essere dove siamo.
Ma uno che con le immagini lavora da sempre, un fotografo per esempio, come può trovare un punto di vista che faccia saltare l’accordo unanime che presiede a tutto questo? Come penetrare nelle sedimentazioni culturali che hanno assunto l’aspetto di “natura”, e fanno parte di noi stessi? Su questi temi ha riflettuto, tra i tanti, Georges Didi-Huberman, in Immagini malgrado tutto e in un ampio studio sull’Abc della guerra di Brecht; più di recente, parlando di Pasolini, si è soffermato sul lavoro di Laura Waddington in Border 55, video girato nei pressi del campo della Croce Rossa di Sangatte, da dove fuggiaschi irakeni o afghani tentano di raggiungere il tunnel per l’Inghilterra: immersi nella notte e nel rischio, in fuga dai protervi riflettori dei guardiani d’Europa, essi appaiono e scompaiono come brevi bagliori e ombre dileguanti in inquadrature incerte, in immagini sgranate e rubate all’oscurità e alla legalità. Davanti al lavoro di Patrizio Esposito, da Monitor Iraq a Necessità dei volti, viene da chiedersi se non vi sia, in esso, un rapporto di solidarietà con l’idea di Didi-Huberman di «far apparire scintille di umanità» proprio dagli esseri in fuga, prede disperate ma ancora con «l’ostinazione di un progetto, il carattere indistruttibile di un desiderio.» Se l’analogia è legittima, come credo, è perché il lavoro di Esposito non solo sa esprimersi, anch’esso, in intermittenze, in bagliori d’esilio e speranze clandestine, ma in quanto si realizza attraverso una sperimentazione prolungata, multiforme, un artigianato fatto di materia e di tempo che al consumo e alla dimenticanza, all’offesa del falso vero si oppone altrettanto caparbiamente. A Gaza o a Napoli, a Milano o nel Sahara Occidentale, quel lavoro non è già più “resistenza”, ma qualcos’altro: inventare una «comunità di bagliori», cercare la «lacuna aperta tra il passato e il futuro» (Didi-Huberman) comporta un cammino fuori delle mappe ufficiali, appostamenti in territori rimossi, percorsi che s’intravedono solo strada facendo. Forse è così che prende forma il “fare” che è proprio della memoria non amputata o anestetizzata, bensì in tensione, mobile e sensibile al risveglio di un progetto.
Il tempo non è un unico tempo, dovevamo saperlo. Per il transfuga, tra abbagliamenti e oscuramenti, tra una ronda e l’altra, ogni passo è a tentoni, ogni istante è guadagnato alla sorte. Ma anche quel che non è stato e poteva essere, in certi momenti può chiederci udienza. Lì, in quel punto, ci conduce il lavoro di Esposito. Poiché non solo dobbiamo imparare la pluralità dei tempi ma, insieme, affrontare l’impensato e attrezzarci per ritentare un discorso comune, un alfabeto nuovo e condiviso. In Milano quattro secondi, dedicato a Pinelli e al crinale storico che porta il suo nome, una molteplicità di luoghi e di strumenti – dal digitale al manufatto, dai quaderni di “alfabeto urbano” a pezzi unici in consegna a testimoni esemplari – cospira per una scena essenziale, scarna e antiretorica, e però popolata da una eco collettiva, che si riattiva per un contrappunto di piani opposti e dialettici, necessari ed elementari: luce/ombra, alto/basso, pieno/vuoto. Il luogo è un luogo (cantiere o magazzino), non un monumento; una data è una soglia (12.12.12) e i numeri incisi non una lapide ma segnali per chi s’addentrerà nel bosco, nel tunnel o nel deserto. Ma la «lacuna» può essere ovunque e in ogni momento: ne parla la foto dispersa che per un attimo appare su una superficie di polvere e poi svanisce, il chiarore del fuoco che convoca i senza dimora e gli assenti, il fascio di luce che indica un varco: proprio lì, dov’eravamo stati senza vederlo. Quell’attimo che si dilata stabilisce l’apertura e insieme il limite provvisorio di un lavoro in continua evoluzione, che recupera il principio brechtiano dello straniamento ma non lo immette nella cornice di una rappresentazione: il precipitare di una esistenza (quattro secondi) non è rappresentabile, né deve esserlo (nemmeno quel breve, minuscolo sciame di braci di sigaretta, giù dalla finestra); piuttosto sollecita la dimensione individuale, agita il piano dell’esperienza, ne fa vacillare le fondamenta. A chi condivide questa perturbazione non è offerta la “verità” ma un lampeggiamento, quindi una chance: ognuno porterà con sé un indizio, un frammento, un’attesa incerta o una domanda. Quanto può bastare, ora, per un inizio: via dai libri di storia ma dentro altro, che sia davvero diverso.
Articolo apparso su «Alias», 8 dicembre 2012