Abbiamo visto “ La scelta di Barbara “ regia di Christian Petzold.
La vita nella Repubblica Democratica Tedesca ( DDR ) è diventata ormai un immaginario collettivo, si dà per scontata l’oppressione e l’orrore in quel Paese. Sembra quasi che non bisogna dire o spiegare nulla, tutti sanno tutto, anche chi oggi ha trentanni e all’epoca circa sette. Va bene non dover spiegare per forza le cose ma accennarle in modo così impalpabile e subliminale è una scelta non per forza condivisibile. Dopo la commedia “ Good bye Lenin “ ( 2003 ) e il notevolissimo e drammatico “ La vita degli altri “ ( 2006 ) giunge nelle sale italiane questo film che ha ottenuto l’Orso d’argento alla regia al Festival di Berlino del 2012 e che ci racconta in un modo diverso dagli altri due film la vita oltre cortina. Una sceneggiatura volutamente minimalista ( scritta dal regista assieme Haroun Farocki, figura chiave del cinema tedesco sperimentale ), una regia che accompagna la storia senza però darle un respiro da Cinema autorale del ventunesimo secolo ( ricorda l’asciuttezza di un certo cinema di Robert Bresson degli Anni Cinquanta ); un film delicato, scontroso, fatto di piccolissime cose ( raccontato con una sensibilità femminile ) e con un finale che è detto già nel titolo ( e che pur non stridente sembra inverosimile: chi rinuncerebbe alla libertà e all’amore, accettando un futuro più che drammatico, per aiutare una povera ragazza sbandata ? ). Francamente, pensando al meraviglioso Nuovo Cinema Tedesco del secolo scorso ci viene la malinconia per l’oblio di film e registi dal grande talento narrativo e visivo come Wenders, Herzog, Fassbinder, Schlöndorff, Von Trotta, Kluge, solo per citarne alcuni.
“ La scelta di Barbara “, più che una storia su una realtà asfittica e desolante, più che una lotta per la ricerca della libertà ( individuale ), è un ritratto al femminile di notevole intensità che qualsiasi attrice di spessore vorrebbe trovare nella sua carriera. E che Nina Hoss ( attrice di teatro e di cinema – “ Yella “ sempre diretto da Petzold, “ A Woman in Berlin “ di Max Färberböck ) interpreta molto bene, riuscendo a rendere comunicativi anche i lunghi silenzi e le frasi secche al limite dell’afasia rancorosa.
Siamo nel 1980, nella Germania dell’Est ancora schiacciata dal dominio dell’Unione Sovietica: il film evita qualsiasi riferimento al contesto politico. Giunge in una piccola città tetra e angosciosa la dottoressa Barbara, obbligata a lasciare Berlino per aver chiesto un visto d’uscita dal Paese ( Fare la domanda di espatrio poteva comportare il soggiorno obbligato, farlo più di una volta si rischiava anche il carcere ). Si deve sistemare in una casa malridotta e inizia a lavorare nell’ospedale del paese, sotto la sorveglianza del medico capo Andrè e di un funzionario della Stasi che la sorveglia con controlli costanti e perquisizioni accurate della casa: un uomo così privo di sentimenti da sembrare quasi impassibile davanti al deteriormento della salute della moglie morente. Barbara sopporta tutto, fuma e se ne sta in silenzio perché sogna di fuggire, raggiungere il suo uomo dall’altra parte, in Danimarca. I giorni passano in un torpore e in un tran tran claustrofobico, la donna li trascorre tra il lavoro in ospedale, andando in bicicletta nella desolata campagna e restandosene chiusa in casa suonando un piano. Si tiene alla larga da tutti, anche dal medico responsabile Andrè che la corteggia gentilmente ( Ronald Zehrfeld ), come se tutti fossero colpevoli dello stato delle cose e delle sue sofferenze. Ma si interessa ad un paio di casi giunti all’ospedale perché simili a lei nella sventura: un ragazzo che ha tentato il suicidio per amore, una ragazza che tenta di scappare di continuo dai suoi carcerieri statali. Lentamente e sottilmente qualcosa cambia in lei, e proprio mentre il progetto di fuga si fa concreto, sembra che lei perda la sua unica voglia. Giunge il giorno in cui è organizzata dal suo uomo l’evasione, Barbara deve andare sulla spiaggia di sera e aspettare qualcuno che la porti via, ma poco prima di muoversi scorge dietro la sua porta di casa la sventurata ragazza scappata ancora una volta dal campo di lavoro…
Un film costruito con accuratezza di dettagli, dove i silenzi e gli sguardi ricreano un mondo di diffidenza anche per chi ci è accanto ( di brechtiana memoria ); una realtà fatta di controlli, bugie e afasia esistenziale ma anche di piccoli afflati di umanità ( La poliziotta della Stasi che, come un automa, perquisisce Barbara, poi le regala dei pomodori quando la dottoressa capita per caso a casa sua ). Christian Petzold affronta questo mondo cercando un punto di vista estetico diverso dagli altri e per certi versi originale, come la scelta della fotografia: usa una luce viva, calda, uscendo dallo stereotipo di una luce livida come la situazione psicologica dei personaggi. Mentre la scelta del finale si fa poco realistica e rischia di cambiare registro stilistico e omogeneità estetica.