Abbiamo visto “ Un giorno devi andare “ regia di Giorgio Diritti.
Giorgio Diritti è uno dei migliori registi italiani anche se è solo al suo terzo film a oltre cinquant’anni. Tanta gavetta prima, in vari segmenti del cast tecnico, con Avati, Fellini e a quanto abbiamo visto fino ad adesso ha imparato bene la lezione di Cinema della scuola di Bassano diretta da Olmi. Si colloca in quel glorioso cinema degli Anni Sessanta, quello dei fratelli Taviani, di Augusto Tretti, tanto per citarne qualcuno. Il suo primo film è stato “ Il vento fa il suo giro “ film notevole, rigorosissimo e pluripremiato; il secondo invece è “ L’uomo che verrà “ sul massacro di Marzabotto e probabilmente il miglior film italiano di questo inizio di secolo. Adesso giunge nelle sale questo ambizioso “ Un giorno devi andare “, in cui l’autore racconta del dolore della perdita, dei distacchi anche emotivi oltre che personali e la ricerca di un senso della vita. Più controcorrente, più rischioso non poteva essere questo tentativo, è come cercare di sparare alla luna; raggiungere quasi la metafisica del dolore, della morte e della rinascita, attraverso la spiritualità e una forma di religiosità senza chiesa. Tentativo molto ambizioso – oltre modo l’idea del regista è quasi non raccontare una storia con le sue dinamiche naturali bensì seguire un pensiero alto e raccontarlo un po’ come fosse un documentario in cui la protagonista è il filo rosso che unisce la trama – che secondo noi da un risultato un po’ sfocato, un po’ schematico nei passaggi Italia-Brasile e dove il misticismo e la sofferenza della vita sono semplicemente dati per dati, con una voce in off nella prima parte del film che rende ancora meno empatico il tutto e anche un po’ freddo. Ma crediamo che fosse proprio questa l’ambizione di Diritti, scarnificare, semplificare il personaggio di Augusta e i suoi passaggi emotivi, preferendo i silenzi e i campi lunghi sul rio delle Amazzoni al posto di usare un linguaggio fatto di parole e di senso stretto; ma per noi questo tentativo anche importante è riuscito solo in parte.
La storia inizia con l’inquadratura di una luna velata che diventa un’ecografia fetale. Poi ecco il viso di Augusta ( Jasmine Trinca ), e la sua espressione lontana, quasi ostile nella sua silenziosità. Si trova nella foresta amazzonica già da alcuni mesi e sta aiutando una suora, ( Pia Engleberth ), amica della madre; guida un battellino che le porta nei vari villaggi sperduti e a volte cristianizzati. Da cosa è fuggita Augusta ? Probabilmente da un doppio lutto che l’ha lasciata emotivamente a terra in una situazione quasi da anoressica sentimentale. Ma questa fuga e il nascondersi nell’immensità della natura brasiliana non sembra aiutarla ad uscire dal suo stato; ma tutto questo lo sappiamo lentamente, a sprazzi diluiti nella prima pate del film. Ad un certo punto, Augusta lascia suor Franca per andare a vivere in una favelas di Manaus ( la grande capitale delo stato amazzonico ), vive con la povera gente del quartiere e nonostante tutto ( la sporcizia, le case sulle palafitte che crollano per la pioggia, un tentativo di speculazione edilizia che porta alla morte di un bambino ) lei sembra ritrovarsi e ritrova anche il sorriso ( e dalle inquadrature larghe e ‘ generiche ‘ della prima parte, adesso il regista sceglie di stare sulla donna e sui suoi sguardi sempre più vivi. Si realizza, organizzando un lavoro cooperativistico e aiutando i giovani disoccupati della zona, quasi si innamora di uno di loro e diventa amica di molte donne della comunità. Sembra procedere tutto bene ( mentre in Italia una madre tristissima e una nonna pronta a morire vivono senza più speranze assieme ad alcune suore della zona ), ma la vita è crudele: un’alluvione, la corruzione che si infila tra quelle povere baracche, l’indifferenza dei giovani per il lavoro comunitario, sconvolgono nuovamente il fragile equilibrio di Augusta che scappa una terza volta e va a stare da sola su una riva sperduta del grande fiume: deve fare, ancora una volta, i conti con il suo dolore, con l’ambizione delle proprie scelte e il conseguente fallimento. Un finale senza una grande speranza, un bambino che le sorride e gioca con lei prima di andare via con i genitori le dovrebbe ricordare che non può avere figli suoi. Il messaggio generale dell’autore è probabilmente quello di farci rivalutare il senso della vita, i suoi veri valori ed anche la constatazione che la vita è faticosa.