Premetto che sono di parte. Il libro di Dario Gentili, Italian Theory. Dall’operaismo alla biopolitica (Il Mulino, 2012, pp. 246, € 20) è “il” libro che avrei voluto leggere durante la mia prima “formazione”, sotto i banchi nella aule decrepite del mio ginnasio di provincia, in alcune, infinite ore di ozio e immobilismo al quale ci assoggettavano, per fortuna rari e rare, professori e professoresse persi nella loro immobile nevrastenia da compromesso storico.
Perciò, per me, il libro di Gentili è probabilmente il più godibile e formidabile repertorio di libri ed autori del pensiero filosofico-politico italiano di questo ultimo trentennio-quarantennio. Lo confesso: è il libro che avrei voluto scrivere, ad avere una qualche capacità!
Si parte dal “ritorno a Marx”, contro Hegel e tutte le dialettiche totalitarie, dell’eretico Galvano Della Volpe, emarginato a Messina dal PCI del Migliore togliattismo e dei suoi fedelissimi eredi. Si passa quindi al primo e secondo “operaismo”: il soggetto antagonista nel Mario Tronti del seminale Operai e capitale (1966) e il Marx oltre Marx di Antonio Negri, dopo esser passato per la critica luddista dello “Stato dei partiti” (1964: quando la Prima Repubblica era ai suoi, compromissori, albori) e per il celebre Frammento sulle macchine dei Grundrisse marxiani. Quindi Massimo Cacciari e il pensiero negativo, con Pier Aldo Rovatti e Gianni Vattimo che insieme aprono sulla crisi dei marxismi e ci conducono al “pensiero debole”. Giacomo Marramao che tenta la deleuziana “sintesi disgiuntiva” dell’universalismo della differenza, soprattutto la centralità del pensiero della differenza sessuale, dallo Sputiamo su Hegel di Carla Lonzi, in poi. Per chiudere con Roberto Esposito e Giorgio Agamben sospesi tra biopotere e biopolitica, oltre l’impolitico.
Questa è solo una carrellata degli spunti, interviste, chiose, analisi, commenti, ricostruzioni che si trovano in questo assai denso libro di Dario Gentili. È uno sguardo profondo e argomentato di un giovane, potente filosofo sull’Italian Difference, quel Radical Thought che conquista pagine di riviste, convegni e dipartimenti in giro per il mondo, mentre viene annacquato nelle salse timorose delle Terze pagine dei nostri ammuffiti quotidiani (La Repubblica e Il Corriere della Sera si rincorrono da anni nel vuoto “moderatume” delle loro un tempo effervescenti e gloriose pagine culturali) e nel chiacchiericcio da retrobottega di parrocchia della nostra, sedicente Accademia, per tacere dell’acquasantiera alla quale si abbevera quel che rimane del pensiero politico italiano di sinistra (leggere le ultime pagine della recente riedizione del volume di Stefano Fassina Il lavoro prima di tutto, Donzelli, 2013, per credere).
Per questo è ancora più prezioso ri-leggere il libro di Dario Gentili oggi, dopo lo Tsunami elettorale 2013, mentre tutti sono alla ricerca delle alchimie di una governabilità impossibile, dentro la permanente crisi italiana, in cui il conflitto sociale sembra perdersi nella solitudine dell’impoverimento economico ed esistenziale. È un’esortazione a cercare le antiche e vicine tracce di una potenza analitica, critica e radicale degli appuntamenti mancati dalla società italiana e dalle sue istituzioni di governo, politiche e sindacali, soprattutto dalla sua parte “sinistra”.
Agli occhi del lettore, probabilmente forzando di molto le intenzioni dell’autore, appare evidente lo scarto tra l’alta capacità del pensiero filosofico-politico italiano di leggere e interpretare il (tardo-)moderno come crisi, scissione, conflitto, lotta, contrapposizione, contraddizione e al contempo le concezioni politiche che ne scaturiscono, incapaci di trasformare fino in fondo la realtà sociale e/o quella istituzionale.
È il fallimento della Sinistra, che parla, sottotraccia e spesso in evidenza. La sinisteritas intesa come “parte maledetta” e al contempo “sconfitta”. E in questa sconfitta entra pienamente quella generazione nata sullo scorcio dei Sessanta e Settanta del Novecento, mentre questo pensiero critico sorgeva, e che ora entra in Parlamento sotto le insegne giustizialiste di quello che potrebbe diventare un peronismo digitale e reale, di lotta e di governo, di destra e di sinistra.
E “a questa mia, maledetta generazione” è l’esergo del libro di Dario Gentili. Riletta oggi sembra un’esortazione a giocare, da maledetti, la chance della sconfitta della sinistra politica: qui e ora. Senza timori reverenziali verso il passato, né uggiose posture verso il futuro, tanto meno opportunistiche esaltazioni del presente marketing del risentimento. Eppure sempre contro la gabbia d’acciaio dell’immobile compromesso storico che aleggia.