Abbiamo visto “ Kuf “ ( Muffa ) regia di Ali Aydin.
Arriva nelle sale un piccolo film turco dallo stile neorealista che ricorda per ritmi e per immobilità un certo Cinema italiano degli Anni Quaranta/Cinquanta. Leone del Futuro all’ultima Mostra di Venezia, e giudicato positivamente dalla nostra critica, è in realtà un film per stoici: per chi gradisce storie forti di desolazione, afasia e senso di colpa. Ma anche raccontando la solitudine infinita di un uomo, ormai vicino alla pensione, vedovo e attaccato ad una sola speranza non proprio serena, si potrebbe dire che la vita non è fatta comunque solo di silenzi e lunghe passeggiate. Se l’intenzione del regista – da lui dichiarata – era l’uomo visto con gli occhi di Dostoevskij, possiamo dire che quei silenzi ‘ psicologici ‘ potevano anche essere un po’ rumorosi.
Basri è un uomo di circa sessantanni, soffre forse di epilessia, vive da solo in una casa modesta di un villaggio di montagna desolato della Turchia interna. Come lavoro fa il sorvegliante dei binari della stazione, cammina senza tregua per controllare eventuali problemi sulla rete e se trova una gomma d’auto che brucia o qualcos’altro la allontana. Ha perso la moglie anni prima a causa del dolore della scomparsa del loro unico figlio arrestato per motivi politici e finito chissà come, e forse per questo vive ancora lui, non si è ancora arreso alla vita o forse è l’ultimo motivo di vita: ogni mese da diciotto anni scrive al Ministro degli Interni e alla Questura locale per sapere dove sia finito suo figlio Seyfi con la speranza almeno di ritrovare il corpo per seppellirlo e così portargli dei fiori sulla tomba. Ma da diciotto anni non riceve risposte concrete, anzi l’unica cosa che ottiene sono convocazioni al commissariato, lunghi interrogatori e qualche tortura. Nel resto del tempo se ne sta talmente da solo, incupito, che quando qualcuno gli fa una domanda impiega del tempo per rispondere perché ormai le parole non gli escono più con naturalezza e giunge sino ad assistere inerme alla morte di un balordo ubriaco perché non ha la forza di avvertirlo che sta sopraggiungendo un treno. Per sua fortuna giunge al comando di polizia un nuovo commissario, Murat, anche lui un po’ afasico e tetro che pare compenetrarsi del dolore del genitore e dopo alcuni interrogatori che gli fa gli comunica che il corpo del figlio è all’obitorio di Istanbul: c’è solo da fare un esame del Dna per avere la conferma definitiva. Basri parte, fa quello che deve fare e alla fine riceve una scatola di legno non più grande di un metro con i resti del figlio che riporta a casa. Non fa domande, non vuole sapere cosa sia successo, non piange né qualsiasi altra cosa che farebbe un uomo in vita; nel suo soggiorno di casa guarda la scatola messa sul tavolo, senza nemmeno controllare cosa ci sia e si alza per fare qualcosa con i soliti gesti meccanici e il viso completamente abulico.
Il regista ha dichiarato di essere partito da una storia vera, quella dei desaparecidos in Turchia per motivi politici, giovani arrestati e fatti sparire dall’esercito per aver espresso idee diverse da quelle del governo, ma Aydin si è subito distanziato dal fatto di cronaca politica e ha preferito seguire un uomo e indagarlo nel suo dolore senza tuttavia mostrare un apparente commozione o sofferenza. La descrizione della provincia turca è simile allo smarrimento che prova il protagonista e ci descrive un Paese “ svuotato “, quasi in decomposizione come è il figlio del protagonista, morto da chissà quanto tempo. Il titolo “ Muffa “ è una conseguenza dello stato delle cose di questo Paese a cavallo tra Europa e Asia.