Abbiamo visto “ La grande bellezza “ regia di Paolo Sorrentino.
Sorrentino deve avere un’enorme stima di se stesso, prova sempre a raggiungere le vette più alte ma molto spesso cade. Anche i suoi film più riusciti “ Le conseguenze dell’amore “ e “ Il Divo “ lasciano un chè di irrisolto, di vuoto sia drammaturgico che narrativo. In più i suoi debiti narrativi sono così evidenti ( da “ L’amico di famiglia “ con Beineix a “ This must be the place “ con il Wenders americano, fino a quest’ultimo, più con un mondo-Fellini sbiadito che non con “ La dolce vita “ ) che ci fa apparire il tutto – al di là della ridondanza e di un certo azzardo coraggioso – prevedibile e ‘ provinciale ‘. Ed anche tutte le citazioni dirette o indirette ( da Flaubert a Cèline, da Proust a Stendhal: chissà perché tutti autori francesi ) sono spesso buttate lì più come fine che non come scopo. Questo suo ultimo attesissimo film mostra ancora di più una mancanza di presa di posizione e un raccontare con troppo caotico distacco e trasparenza un mondo che in realtà emerge più dai blog come Dagospia o dai giornali di gossip che non da una reale ‘ realtà ‘: è quello che un tempo si definiva immaginario collettivo. Forse deriva anche dal fatto che Sorrentino viva da poco tempo a Roma e anche se non condizionante ci mostra un modo di vedere più per stereotipi che non per ‘ cronaca vera ‘, ( è buffo rilevare che mentre il romano Garrone va a Napoli per raccontare il mondo ai tempi di Berlusconi, il napoletano Sorrentino venga a Roma: ma in realtà entrambi parlano d’altro senza ideologia o vera vis polemica ). E il tentativo di colpire alto c’è già sulle parole di Cèline all’inizio del film, ma poi della drammatica buffonesca comicità del maestro francese non si trova che qualche battuta cinica che serve più a far ridere il pubblico che non a farlo riflettere. Sorrentino, in fondo, – se togliamo il barocchismo della mise en scène, la fluorescenza di alcuni passaggi collettivi, e alcuni assiomi più intellettuali che critici di per sé – ha fatto un piccolo film dove non c’è nulla che non sia stato già raccontato, e in modo più sovversivo e dolente, ( “ La dolce vita “ “ Roma “, “ Satiricon “ per Fellini; “ La terrazza “ per Scola, “ La notte “ di Antonioni ); dove si vede una Fanny Ardant bionda che allo stupore dell’incontro casuale del protagonista risponde “ Oui “ che ricorda – in minimo – l’Anna Magnani che entra nel suo palazzo e risponde a un Fellini in fuoricampo “ A Federì… va a dormì “ ( o peggio alla Deneuve della passata pubblicità ), che fa dire a Jep, il protagonista: ” Quando ero ragazzo tutti i miei amici dicevano ‘ la fessa ‘, mentre io dicevo ‘ l’odore delle case dei vecchi ‘. Dove si accosta Proust con Ammaniti per far capire la grossolanità degli pseudointellettuali che di già è grossolano di per sé., che mostra una performance di un’attrice nuda con il pube colorato di rosso su cui risalta una falce e martello. Insomma una regia apparentemente ‘ importante ‘, oggettivamente ( un po’ Fellini, un po’ Paul Thomas Anderson ) ma che mostra una confusione provinciale drammaturgica e una presunzione intellettuale da cultura liceale. Ma la cosa che forse da’ più fastidio è la mancanza di sincerità e la presa d’atto a distanza che rende il film per nulla emotivo ( anche quando sul finale si accenna al tempo che passa, alla perdita degli amici che ci lasciano, a quello che si sarebbe voluto fare e invece per troppa ambizione non si è fatto ); e gira intorno alle cose, alla vita stessa, con insincera professionalità e con la rappresentazione di alcuni protagonisti del film che sembrano usciti direttamente da “ Il divo “ come il bravissimo e simpaticissimo Carlo Buccirosso ( qui in un ruolo vanziniano ) o l’ormai tetro Verdone in un ruolo banalotto e fin troppo minore, o anche il bravo Toni Servillo che però più che un gaudente gagà napoletano cinico e sconfitto dalla trimalciona Roma sembra a volte troppo rigido da assomigliare all’Andreotti de “ Il Divo “; unico personaggio con un suo cotè de doleance è quello interpretato da Sabrina Ferilli che tuttavia dovrebbe citare per danni il regista per come l’ha fatta fotografare.
Quale è in fondo il racconto del film se lo denudiamo del tutto ? Lo lasciamo dire allo stesso regista e al suo amico e attore feticcio “ … Anche in situazioni squallide, persino patetiche, si cela una forma di bellezza, nascosta e difficile. Il cinema è il mio strumento per scoprirla “. Servillo aggiunge da migliore affabulatore citando Mario Soldati: “ La bellezza, quando la guardi sparisce. Ma è la ricerca di lei che ci spinge a scoprire il mondo “.
La storia è quella di Geppino Gambardella al compimento dei 65 anni, un po’ viveur, un po’ cinico, molto scaltro e di un’intelligenza distruttiva e quindi a volte cinica. E’ arrivato a Roma da Napoli all’età di 26 anni ( l’età che aveva Fellini quando arrivò: Sorrentino ha più o meno la stessa età sempre del grande Federico quando girò “ La dolce vita “ ). E’ un uomo ormai ferito a morte, che ha fatto del suo talento e della sua intelligenza un schermo alla vita, rinunciando per presunzione ad una carriera di scrittore e vivendo intervistando attrici, con il sorriso spensierato di un pierrot. Si aggira per Roma di notte, partecipa alle feste del generone romano declassato e spompato, ha qualche amico generico, qualche donna senza importanza e galleggia in questo baratro esistenziale soffermandosi a volte all’onirismo, a volte a guardare la bellezza dei bimbi e la loro limpidezza ( un po’ come Marcello della “ Dolce vita “ , scrittore mancato, giornalista di gossip, che si ferma dopo un’orgia, che gli ha lasciato un profondo disgusto, sulla spiaggia ad osservare una giovinetta dallo sguardo limpido e innocente e cerca invano di capire quanto ella gli dice ). Per il resto sembra quasi un carnevale poco riuscito, in cui Jap si aggira a vuoto, in modo sconclusionato come se il caos esistenziale gli desse l’unico motivo di vita. Tra una festa e l’altra, tra una riunione con la direttrice del giornale in cui lavora e che gli prepara zuppe che gli ricordano l’infanzia, tra una Serena Grandi ormai trasformata in un personaggio felliniano senza alcun trucco, tra un’avventura con una ricca e annoiata signora e un’altra con una spogliarellista figlia di un amico di molto tempo prima, tra un improbabile – e in fondo inutile – chirurgo plastico che riceve come poteva fare un tempo una maga di quart’ordine, tra cardinali che vorrebbero essere cuochi e una Madre Teresa che dorme a terra ma ospite all’Hassler, Jep Gambardella si trascina senza speranze e con qualche malinconia verso la vecchiaia senza alcun ottimismo.
Cosa aggiungere, come qualsiasi regista che aspira all’alto crea indiscutibilmente due fronti contrapposti; c’è chi lo ama nei suoi azzardi e nelle sue idee di cinema e chi lo mal sopporta per le stesse ragioni. In questo caso, con “ La grande Bellezza “, noi ci posizioniamo più verso il secondo fronte. Peccato, perché l’occasione di parlare di noi era ghiotta, perché un film così ricco economicamente solo in pochi se lo possono permettere. Peccato perché è il secondo film di seguito che Sorrentino sbaglia perpetrando gli errori di sempre e non cambiando di una virgola. Sarà lui ? Sarà il suo sceneggiatore ? Probabilmente lo sapremo al prossimo film definitivamente.